Che dice Rossana? Scrive Luigi? Dov’è Valentino? Queste tre domande hanno accompagnato per alcuni decenni la vita quotidiana nella redazione del “manifesto”. Tre nomi familiari, tre soggettività molto diverse, un grande legame tra di loro fondato su un progetto ambizioso, sull’affetto, la solidarietà, il conflitto. E poi c’eravamo noi, la redazione, la ciurma orgogliosa di dare del tu a tre giganti, presuntuosa per il diritto un po’ ricevuto e un po’ conquistato di fare fuoco sul quartier generale. Dopo Luigi Pintor e Valentino Parlato, anche Rossana Rossanda ci ha lasciato. Lei era la stella polare per molti di noi, almeno lo è stata finché i naviganti hanno provato a tenere dritta la barra del timone, finché hanno saputo e voluto tenerla dritta. Ma nel vascello pirata che era “il manifesto” alla fine si è persa di vista la stella polare e, di conseguenza, s’è persa la rotta. E via via che il vascello procedeva nella nebbia la ciurma ammutinata perdeva anche il senso, la ragione del viaggio. Itaca è sembrata troppo lontana, troppo distante dai luoghi comuni, dai nuovi linguaggi e dai nuovi valori. L’egualitarismo che aveva tenuto insieme origini e culture diverse – gli eretici radiati dal Pci e i figli del Sessantotto – è apparso parola morta, sbagliata. E siccome il carico sul vascello si era fatto troppo pesante si sono buttate a mare, insieme alla stella polare, anche le vaghe stelle dell’orsa. Certo, il vascello continua a navigare ma nella bonaccia della linea d’ombra, forse propensa a una qualche eterogenesi dei fini. Le ultime volte che ho incontrato Rossana nella sua casa di Roma, dopo il ritorno da Parigi, dopo la morte dell’amato Karol, le ho chiesto regolarmente notizie del suo ultimo, interminabile quanto faticoso lavoro – il seguito di La ragazza del secolo scorso – che a partire dal 1968 e dalla radiazione dal Pci attraversa “il manifesto” e la storia della sinistra per arrivare ai giorni nostri. Regolarmente mi rispondeva: “È praticamente finito, sto ripulendo qua e là. Ma è brutto, non mi piace”. E io, saputello: “Non è vero, brutto non è il libro ma l’esito della storia collettiva che racconti”. Sorrideva amaramente, forse era la risposta che si aspettava. Rossana Rossanda lascia un’eredità straordinaria, per chi volesse raccoglierla. Sarebbe troppo poco riassumere la complessità poliedrica della sua esperienza umana e politica e del suo messaggio con una sua affermazione, suggestiva e chissà, forse profetica: “Il comunismo ha sbagliato ma non era sbagliato”. Rossana era questo innanzitutto, una comunista. Fuori da ogni dogmatismo aveva una sua disciplina e una immarcescibile coerenza. Il suo essere comunista integrava perfettamente la lotta per l’eguaglianza con il bisogno e la pratica della libertà. Nel 1956, con i fatti d’Ungheria, raccontava, scoprendo quanto gli operai potessero odiare i comunisti, le erano venuti i capelli bianchi. Nel 1968 è stata in prima linea contro l’invasione sovietica di Praga. Ha dato solidarietà e linfa all’opposizione democratica nei paesi del socialismo reale, ha messo la sua cultura davanti ai carri armati di Mosca, quasi come lo studente di piazza Tienanmen. O abbattiamo noi quel muro, diceva a proposito degli errori e dei disastri dell’impianto che aveva retto i paesi dell’Est e le liturgie dei partiti comunisti occidentali, oppure quel muro ci cadrà addosso. Ma nel Pci, dall’omicidio della primavera di Praga in avanti, nonostante la rivolta operaia nei cantieri navali di Danzica e Stettino, si dovette attendere il 1981 perché Enrico Berlinguer decretasse la fine della spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre. Troppo tardi, fu più facile nel più forte partito comunista occidentale abdicare ai propri valori che mettersi in discussione, e così, vent’anni dopo piazza Venceslao quel muro è caduto addosso alle sinistre mondiali. Così è nato “il manifesto”, quotidiano comunista. Niente a che fare con lo stalinismo, da cui Karol era dovuto scappare dopo aver combattuto il nazismo, arruolatosi come volontario polacco nell’Armata rossa. Sempre duramente critica nei confronti di ogni fideismo, Rossanda, sempre pronta a esporsi in prima persona. Non ha mai cercato facili consensi, a chi di noi le diceva sono d’accordo con te rispondeva secca: cosa stai facendo tu, nella direzione che indico? Critica e autocritica, esigente, curiosa, trasgressiva. Se nel 1968 non si poteva dire “Praga è sola” senza mettersi “oggettivamente fuori dal Partito” comunista, negli anni del terrorismo non si poteva parlare di “album di famiglia”, cercare dentro di sé le origini di quella sciagurata deriva. Rossanda ne parlava perché voleva capire. Voleva capire tutto, voleva capire i movimenti, la loro forza e i loro limiti. A partire dalla scelta – lei nata in una famiglia borghese – di stare da una parte, con la Resistenza e i comunisti, poi con gli operai e le loro lotte in anni duri, poi magici e poi di nuovo duri, all’incontro con gli studenti, al confronto con le femministe; per capire, per andare avanti, per cambiare se necessario. “Cosa pensa Landini”, chiedeva dopo la sua elezione a segretario generale della Cgil, “cosa pensi di Landini?”. “Chiediglielo tu cosa pensa”, e lei glielo chiese. Si arrabbiava con chi le diceva “parli e scrivi troppo difficile e un operaio non ti capisce” e ribatteva con Gramsci: devi studiare, se vuoi capire. Alla semplificazione ha sempre contrapposto la complessità. Sarà importante leggere il nuovo libro di Rossanda, quando sarà disponibile. Ci troveremo il bilancio di una lunga vita di battaglie, qualcuna vinta, non poche perdute, in trasferta e anche in casa, al “manifesto”. Un secolo di battaglie ma lei, vinta, mai. Un bilancio amaro, come è stato per molti comunisti della sua generazione. Lo è stato per Luigi Pintor, che in Servabo ci ha e si è raccontato, per ammettere che “non si può raddrizzare le zampe ai cani”. Lo è stato per Lucio Magri – e lo sa chi ha letto Il sarto di Ulm – che proprio Rossanda ha accompagnato in una clinica svizzera per il suo ultimo viaggio. Tra lei e Lucio c’è stato un incontro politico felice, una rottura infelice, un reincontro ma mai tra loro sono venute meno la solidarietà, l’affetto, il rispetto per le scelte dell’altro, anche le più dolorose. Non si può scegliere quando nascere, ma quando morire sì. Però, mi ha detto in uno degli ultimi incontri: “Quel viaggio in Svizzera con Lucio non lo rifarei”. Lei ha retto per quasi novantasette anni, con la sua forza e le sue fragilità, le sue profezie e i suoi errori in un mondo che non le piaceva più ma che ha cercato, fino all’ultimo respiro, di cambiare. Quel mondo in cui gli eredi del Pci, europarlamentari del Pd, avevano votato l’equivalenza tra fascismo e comunismo. Rossana Rossanda è stata “in questo mondo, ma non di questo mondo”. Da giornalista, da intellettuale, da politica ci ha lasciato un testimone non facile da portare. Lei l’ha portato per un secolo con determinazione e leggerezza. Amava l’arte, il cinema, la letteratura. È stata una brava cuoca, amava la buona cucina, le triglie e il risotto con le seppie ma mi raccomando, precisava quando eri tu a invitarla, senza il nero. È stato un privilegio cucinare per lei.
Questo articolo è stato pubblicato sul L’indice di novembre 2020