Se si chiudesse davvero Rai Storia, sarebbe il servizio pubblico – non solo un suo prestigioso canale tematico – a decretare un inglorioso titolo di coda per se stesso. Confidiamo che il fattaccio non accadrà davvero. Perché tante voci si sono levate a difesa di un indicatore di qualità dell’azienda, regolata non per caso da una convenzione con lo stato e da un impegnativo contratto di servizio. E perché verrebbe meno uno dei motivi che rendono legittimo il canone di abbonamento. Già, forse il busillis sta proprio lì. Il vertice di viale Mazzini, infiacchito e spaventato per il crudo materialismo del conto economico (si prevede un deficit di 200 milioni di euro), ha forse immaginato di porre al governo un improvvido aut aut: o si rivede la percentuale dell’abbonamento che si piglia il ministero o si taglia ciò che dà lustro alla Rai, ma pure al potere politico. Mossa azzardata e controproducente, bizzarra per chi si occupa di comunicazione. L’effetto, anche simbolico, dell’ipotetica mannaia è devastante a prescindere da improbabili furbizie. Per di più, oltre alla cultura si intenderebbe indebolire il rito pagano per eccellenza, con la minaccia di chiudere Rai Sport. Due botte con un colpo solo. Complimenti. Neppure dei terribili nemici (e ce ne sono)) ci avrebbero pensato. Torniamo alla prosaica vicenda del canone. Sulla questione delle percentuali che transitano altrove, il consiglio di amministrazione e l’amministratore delegato hanno probabilmente ragione. Non ha senso che dei 90 euro del canone solo 74 vadano alla Rai. Che senso ha? È un taglio contraddittorio con le richieste di aumentare, non diminuire, la programmazione di grande valore. Accorpare Rai Storia a Rai 5 (pensata per gli eventi culturali) non ha motivo alcuno. Il racconto della storia, in una stagione terribile nella quale si tende a cancellare la memoria, è di particolare importanza. Non ci si deve arrendere alla dittatura dell’istantaneità, alle regressioni dei social, all’assenza di approcci e ricerche in grado di farci decifrare la realtà. Ma di questo hanno opportunamente scritto, protestando contro un simile scippo dei saperi, centinaia di persone di ogni disciplina e di tutte le collocazioni sociali. E’ lecito, dunque, attendersi una veloce smentita. A maggior ragione quando la pandemia costringe a sostituire o integrare le aule formative con i media, finalmente riscoperti rilanciandone la funzione originaria.
Insomma, Rai Storia è una metafora della situazione rischiosa che stiamo vivendo. Pronunciarsi contro improvvide chiusure è un atto civile. E morale.
Questo articolot è stato pubblicato su Il manifesto il 30 ottobre 2020