“Siamo stati abbandonati, non abbiamo avuto informazioni sulla diffusione del covid, la settimana scorsa ci hanno detto che alcune persone all’interno della tendopoli erano positive al test, ma non ci hanno detto chi erano, né li hanno separati dagli altri, ora dicono che i positivi potrebbero essere aumentati”. Mor Dembélé è un bracciante della Costa d’Avorio, vive da anni nella tendopoli di San Ferdinando, nella provincia di Reggio Calabria, e racconta una situazione esplosiva, dopo che la settimana scorsa uno dei ghetti più famosi d’Italia è stato dichiarato zona rossa da un’ordinanza regionale.
Nella notte tra il 16 e il 17 ottobre ci sono state proteste degli abitanti della tendopoli – in cui vivono circa 250 persone – che rifiutavano la decisione della regione di chiudere l’area in seguito all’individuazione di quattordici casi positivi su trenta tamponi effettuati. “Abbiamo passato sei mesi senza lavorare e ora ci dicono che non possiamo uscire ed entrare dalla tendopoli, il che corrisponde a un’ulteriore sospensione del lavoro nel momento in cui sta cominciando il raccolto. Nel frattempo non ci hanno dato mascherine, non ci hanno dato informazioni, ci hanno impedito di fare assemblee: è una situazione davvero pesante sia dal punto di vista sanitario sia da quello economico”, continua Dembélé, residente in Italia dal 2011.
Senza reddito
Aggiunge Dembélé che gli immigrati all’interno della tendopoli hanno paura di contagiarsi e inoltre temono di perdere del tutto il lavoro all’inizio della stagione del raccolto degli agrumi. “Gli imprenditori della piana non stanno dando lavoro agli africani perché si è sparsa la voce che portiamo il contagio”. Il vicepresidente della giunta regionale della Calabria, Nino Spirlì, che svolge le funzioni del presidente dopo la morte della governatrice Jole Santelli, il 17 ottobre ha emesso un’ordinanza con la quale ha dichiarato zona rossa la tendopoli di San Ferdinando.
Ad allarmare la giunta regionale sono le condizioni igienico-sanitarie dell’area che hanno determinato un’incidenza del 50 per cento di positivi tra i trenta sottoposti a test in una popolazione di più di duecento persone. Il 13 ottobre la regione aveva dichiarato zona rossa anche il campo di container nella zona industriale di Rosarno e le restrizioni sono state estese fino al 26 ottobre. Nel campo erano stati individuati venti positivi, isolati in tende montate in una zona adiacente al campo. La zona rossa nella tendopoli invece dovrebbe essere in vigore fino al 27 ottobre. “Abbiamo allestito sei tende per l’isolamento dei positivi”, afferma Fabio Costa, responsabile della tendopoli di San Ferdinando. “Ma i bagni rimangono in comune e non riusciamo ad assicurare un isolamento vero e proprio”, sottolinea. Ora la situazione sembra di nuovo calma, ma per giorni i braccianti hanno rifiutato il cibo distribuito dalla Caritas e hanno chiesto di poter uscire e andare a lavorare nei campi.
“L’istituzione della zona rossa dal punto di vista sociale mette in ginocchio dei lavoratori che, senza contratto, non possono avere nessun tipo di tutela”, spiega Ilaria Zambelli, operatrice di Medici per i diritti umani (Medu). Già a luglio l’ong aveva pubblicato il rapporto La pandemia di Rosarno, in cui ha raccolto dati e testimonianze sulla condizione critica dei braccianti agricoli durante l’epidemia, denunciando lo sfruttamento a cui sono sottoposti oltre alla mancanza di strutture per fare la quarantena e di un piano pandemico generale. “Nella tendopoli non sono state predisposte strutture per l’isolamento dei contagiati che si trovano a vivere in tende da campo, con l’inverno alle porte e con un possibile peggioramento delle loro condizioni di salute date dal freddo incombente e dalle basse temperature dei giorni scorsi”, continua l’operatrice.
“I servizi igienici sono condivisi, le persone positive devono essere subito spostate in luoghi idonei alla quarantena”, afferma Zambelli. Secondo le stime dell’Osservatorio Placido Rizzotto, sarebbero tra i 400mila e i 430mila i lavoratori agricoli in Italia che ogni anno sono irregolarmente impiegati dai caporali e gestiti in regime di dipendenza nell’ambito delle loro attività lavorative quotidiane. Di questi, più di 132mila sono impiegati in condizione di grave vulnerabilità sociale e forte sofferenza occupazionale, tanto da essere esposti, come rilevato per esempio nell’agro pontino laziale e in Calabria, a gravi patologie e al rischio quotidiano di perdere la vita a causa di incidenti sul lavoro.
Secondo il ricercatore Marco Omizzolo “quasi un lavoratore su due, in agricoltura, durante la pandemia è stato impiegato in modo irregolare. Se in genere più di 300mila lavoratori agricoli, ovvero quasi il 30 per cento del totale, lavorano ufficialmente meno di cinquanta giornate l’anno, sebbene in realtà ne lavorino almeno il triplo, durante la pandemia il numero delle giornate di lavoro registrate dalle aziende agricole è diminuito del 20 per cento, anche se con un aumento delle ore giornaliere effettuate e non registrate e dell’intensità di lavoro”.
Per il vicesindaco di San Ferdinando, Gianluca Gaetano, la situazione esplosiva nella piana è frutto di anni di politiche sbagliate che non hanno portato ad alcuna soluzione, a cui ora si aggiunge la crisi sanitaria. “Stiamo cercando di collaborare con tutte le organizzazioni che sul campo ci hanno aiutato in questi anni, ma denunciamo anche noi l’assenza di un piano regionale per affrontare la situazione. Con i braccianti non si può solo percorrere la strada della coercizione, bisogna invece assicurargli un sostegno sul breve periodo, e sul lungo periodo la tendopoli deve essere superata”. La nuova tendopoli costituita da 64 tende è stata allestita dopo lo sgombero della baraccopoli, voluto dall’ex ministro dell’interno Matteo Salvini nel marzo 2019. Si stima che oltre alle 266 persone alloggiate nella tendopoli, circa 1.500 braccianti vivano in casali abbandonati e masserie nelle campagne della piana.
Secondo Gaetano è necessario un piano sul breve periodo con un sostegno al reddito e sul medio periodo con un fondo per l’affitto e alloggi o foresterie per i braccianti della piana: “Al momento la morte della governatrice Santelli ha creato un vuoto di potere in regione, inoltre il mito del migrante untore sta spargendo il terrore e alimentando tensioni nel territorio”. Il sindaco di San Ferdinando ha inviato una lettera al prefetto e alla regione il 20 ottobre chiedendo un incontro e proponendo il “congelamento del numero dei migranti aventi diritto a permanere all’interno della struttura; l’allontanamento dei soggetti non autorizzati o privi di titolo a dimorare nel sito; l’espulsione dei migranti responsabili di danneggiamenti e di turbamento all’ordine pubblico; l’abbattimento definitivo delle tende superflue, oltretutto gravemente ammalorate; l’avvio di tutte le azioni utili alla accoglienza diffusa sul territorio, usando le risorse finanziarie garantite dall’assessore regionale Gallo”.L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LA PUBBLICITÀabout:blank
La mancanza di accesso agli ammortizzatori sociali da parte dei lavoratori della piana, che in molti casi non hanno contratti di lavoro, ha determinato una situazione sociale ancora più acuta, secondo gli operatori di Medu. “La recente sanatoria inoltre si è dimostrata del tutto inefficace nel campo dell’agricoltura e, nello specifico, nella piana di Gioia Tauro non ha portato all’emersione di nessun lavoratore”, continua Medu. Secondo l’organizzazione era prevedibile che con l’inizio della stagione agrumicola l’arrivo di lavoratori stagionali da altre regioni italiane potesse produrre un aumento dei contagi: “Ma le autorità non hanno disposto alcun protocollo specifico”.
Per Ilaria Zambelli di Medu, ora il rischio è che i lavoratori, che temono di perdere altre giornate di lavoro, nei prossimi mesi non si rivolgano neppure alle autorità sanitarie anche in caso abbiano i sintomi del covid-19 e che diventino ancora più invisibili, contribuendo alla diffusione della malattia. Per Francesco Piobbichi di Mediterranean Hope si tratta di “un disastro annunciato, che doveva essere evitato”. Per l’operatore, ora la situazione è ancora più critica perché i braccianti, che lavorano in nero o in situazioni di grigio, sono senza reddito e si è creata una tensione che non aiuta a risolvere la questione sanitaria: “Vogliono andare a lavorare a tutti i costi e non accettano la quarantena. Per riaprire il dialogo con loro bisognerebbe pensare a una forma di reddito di quarantena. E questo non vale solo per i braccianti della piana, ma per tutti i lavoratori essenziali che se messi in lockdown rischiano di rimanere senza sussistenza”.
Questo articolo è stato pubblicato su Internazionale il 26 ottobre 2020