Il caso. Secondo il rapporto Caritas 2020 la pandemia ha messo in ginocchio in Italia i giovani e le famiglie senza più lavoro. Boom di richieste, prese in carico oltre 450mila persone, una su due ha chiesto aiuto per la prima volta. Ecco l’identikit della nuova povertà: colpisce donne, minori, partite Iva e precari. La denuncia il caos del Welfare nell’emergenza: il «paradosso» dei bonus categoriali che moltiplicano gli esclusi. Il “reddito di cittadinanza” va riformato in senso universalistico e senza condizioni
La quarantena generalizzata tra l’11 marzo e il 18 maggio 2020 ha prodotto 445 mila nuovi poveri assoluti in più che si aggiungono agli oltre 4 milioni e 600 mila del 2019. Il primo effetto emerso della crisi sociale innescata dal «lockdown» per bloccare la prima ondata dei contagi del Covid ha colpito in particolare le donne escluse da un’occupazione stabile; i giovani precari tra i 18 e i 34 anni; i minori penalizzati dalla povertà materiale delle famiglie, dalla chiusura delle scuole e dal conseguente contraccolpo relazionale e cognitivo; le partite Iva che hanno subito un calo del reddito e, per più di un terzo, hanno perduto la metà del reddito familiare. Una caratteristica comune ai nuovi poveri è non avere risorse finanziarie liquide sufficienti per fare sopravvivere più di tre mesi la propria famiglia. La quota ha superato il 50% tra i disoccupati e i lavoratori dipendenti con contratto a termine. Tra le categorie più colpite c’è anche il ceto medio già impoverito nel piccolo commercio, nelle professioni e nei servizi alle persone.
IL PRIMO censimento sugli effetti sociali della pandemia è stato realizzato sulle persone che si sono rivolte ai centri di ascolto diocesani e parrocchiali della Caritas. I risultati sono stati raccolta nel rapporto 2020 sulla povertà in Italia «Gli anticorpi della solidarietà» pubblicato ieri dalla Caritas in occasione della giornata mondiale della lotta contro la povertà. In prospettiva, i «nuovi poveri» della società virale aumenteranno a causa della perdita del lavoro e della chiusura delle attività che seguirà al blocco dei licenziamenti e alla cessazione dei contratti a termine che rappresentano l’unica forma di lavoro contrattuale in crescita anche grazie al Jobs Act di Renzi e del Pd. La proletarizzazione oggi sta aggredendo ancora di più le partite Iva, i precari e gli intermittenti che non beneficiano più di una protezione sociale voluta dal governo ma durata appena tre mesi. Da molte parti è stato chiesto di includerli in un’annunciata riforma degli ammortizzatori sociali su base universalistica. In questa direzione vanno anche le richieste di un’estensione del cosiddetto «reddito di cittadinanza» senza vincoli né condizionalità. Giunti al settimo mese della pandemia, mentre si profila una crisi sociale pluriennale, l’esecutivo mantiene le carte coperte. L’unica intenzione emersa sembra quella di condizionare il «reddito di cittadinanza» alle politiche «attive» di un lavoro che non c’è e, se c’è, è povero. Lo prevede anche l’ambigua e pericolosa legge del 2018 che ingabbia i poveri in un vero dilemma del prigioniero.
NEI MESI SUCCESSIVI alla prima emergenza, si legge nel rapporto, si è aggravato il «lavoro povero» osservato nell’ultimo decennio. È cresciuta l’oscillazione tra il «dentro» (la cittadella del lavoro precario subordinato) e il «fuori» (la terra di nessuno senza tutele sociali). In un’economia dei bassi salari e della crescita senza occupazione fissa basata sulla precarietà di massa abitativa, sanitaria e relazionale l’impatto sociale della nuova crisi sta rafforzando la trappola della precarietà in cui si entra ma da cui non si esce più.
LE CRITICHE del rapporto Caritas al Welfare emergenziale durante il primo «lockdown» sono calzanti. L’esecutivo ha creato il «paradosso di misure emergenziali che generano esclusione e favoriscono gli “affiliati” al sistema di protezione e assistenza sociale, invece di coinvolgere nella maniera più ampia e inclusiva i destinatari dei sostegni». Un simile paradosso è l’effetto della moltiplicazione dei sussidi (i bonus per le partite Iva iscritte all’Inps e ad altre categorie di lavoratori indipendenti e intermittenti) e dei sussidi (il «reddito di emergenza» che ha duplicato temporaneamente il cosiddetto «reddito di cittadinanza»). Insieme, questi elementi, hanno rafforzato una politica tradizionale in Italia, quella della segmentazione della povertà in categorie create per governare i poveri e respingere nell’invisibilità milioni di altri. Solo a Roma, la Caritas sostiene che sono stati forse il 20% dei lavoratori, in particolare gli stranieri e nel sommerso, ad essere stati estromessi da tutto. Non si contano coloro che hanno rinunciato a fare richiesta di un sussidio occasionale perché intimoriti, scoraggiati e esclusi dalla burocrazia emersa anche nella sconcertante macchinosità con la quale l’Inps ha pagato le casse integrazioni straordinarie.
IL RECORD di richieste di aiuto alla Caritas, accompagnato da un aumento dei volontari under 34, è stato causato proprio dalla programmatica volontà politica di non fare riforme universalistiche e disperdere miliardi di euro, per di più abusando della retorica sul «nessuno resterà indietro». In questo quadro la solidarietà interpersonale è stata usata dalla politica istituzionale per rimediare all’assenza della giustizia sociale.
***Un «reddito di cittadinanza» da riformare
Anche se ha raggiunto 3,1 milioni di persone il cosiddetto «reddito di cittadinanza» (un sussidio di povertà condizionata teoricamente all’obbligo di una «politica attiva del lavoro») esclude milioni di poveri e di lavoratori precari e poveri. Si sono moltiplicati gli appelli alla riforma strutturale. Il Basic Income Network Italia (Bin) chiede la sua estensione e l’eliminazione delle condizionalità. Le 36 associazioni della rete «Alleanza contro la povertà» hanno chiesto, tra l’altro, l’incremento del sostegno per le famiglie con figli, l’estensione agli stranieri extra-comunitari residenti esclusi, il rafforzamento dei servizi sociali. Le Acli hanno rinnovato queste richieste. Ieri il presidente di Confindustria Carlo Bonomi ha riproposto l’interpretazione classista di questa misura e ne ha chiesto l’abolizione. E ha polemizzato con la ministra del lavoro Catalfo sull’assunzione «di 11.200 navigator». Per il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, invece, «Se non avessimo avuto il reddito ci saremmo ritrovati davanti a una rivolta sociale, perché la fame crea rabbia». Per il capo politico del M5S Vito Crimi «il reddito va portato a pieno regime, ma tornare indietro è fuori discussione».
Questo articolo è stato pubblicato su Il manifesto il 19 ottobre 2020