Ero adolescente quando, per la prima volta, vidi e ascoltai Rossana Rossanda. Stavamo in un’assemblea dell’area del giornale e del gruppo politico denominato “Il Manifesto”, precisamente nel romano cinema Jolly a pochi passi dalla Stazione Tiburtina.
“Può forse un grande partito come il Partito Comunista Italiano accusarci di metterlo in difficoltà con la nascita, alla sua sinistra, della nostra piccola organizzazione? Non credo sarebbe giusto affermarlo! Un elefante non può accusare un moscerino se non riesce a muoversi!”
Qualcosa del genere, in un pomeriggio dei primissimi anni ’70, sentii con le mie orecchie dalla sua diretta voce, una voce senza dubbio ritmata da un’abile arte oratoria. Lei aveva pure un buon intuito su cosa fare e dove stare nelle principali battaglie politiche che, dopo il big bang del ’68-’69, attraversarono la Prima Repubblica. Nei primi anni ’70 stette dalla parte dell’anarchico Pietro Valpreda, accusato innocentemente di essere il responsabile della strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969.
La cosa più rivoluzionaria che fece in vita sua fu infatti proprio quella di far candidare lo stesso Valpreda nella lista del gruppo “Il Manifesto” alle elezioni politiche del 1972. “Il Manifesto”, risultato settimo fra i partiti, ottenne solo 224 mila voti ma contribuì, a modo suo, alla campagna della sinistra rivoluzionaria contro la strage di Stato. In seguito partecipò alle lotte di massa e referendarie per difendere la legge sul divorzio e quella sull’aborto.
Nel big bang del movimento del 1977 contro le politiche economiche dell’austerità, a solo danno del proletariato, e la connessa formula governativa della “solidarietà nazionale”, rimase un po’ confusa assieme a tutta la sua specifica compagine politica. Durante il sequestro del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, nella primavera del 1978, fu in contrasto rispetto alla “linea della fermezza”, rigidamente orchestrata dai dirigenti della Dc e del Pci, e a favore della “linea della trattativa”. Tra la fine del 1980 e l’inizio del 1981, durante il sequestro del giudice D’Urso, organizzato dalle Brigate Rosse allo scopo di ottenere la chiusura del carcere speciale dell’Asinara, si comportò in modo analogo. Nella prima metà degli anni ’80, pur denunciando le torture, favorì il movimento della “dissociazione” da parte di svariati prigionieri politici della lotta armata e del sovversivismo rosso e quindi, sia pur indirettamente, favorì la successiva legge della “dissociazione” (18 febbraio 1987, n° 43), cioè una legge a sostegno dell’abiura. Per tutti gli anni ’80 e fino al 1991 sbagliò l’analisi sulla politica internazionale, prima dando giudizi positivi sulla Polonia di Walesa e poi sulla perestroika di Gorbaciov.
In seguito, nel 1993, cercò di controbilanciare la situazione con il libro-intervista all’ex brigatista rosso Mario Moretti, persona tuttora in semilibertà dopo circa 40 anni di detenzione. Sì, parlò con alcuni prigionieri politici che non avevano usufruito della legge sulla “dissociazione” ma non è questo che dimostra il suo amore per la giustizia e per la libertà. La vera Rossana Rossanda, al di là dei frequenti errori di analisi sulla politica internazionale e al di là delle apparenze, è stata quella che ti guardava negli occhi e, se avevi difficoltà a causa della repressione statuale, ti dava il consiglio giusto al momento giusto. In questo senso, mettendo la storia con i piedi per terra, possiamo affermare che lei, “la ragazza del secolo scorso” fece parte dell’album di famiglia della compagneria.
Non era lei a dover dire se ne facesse parte questa o quella componente.
Era ed è la compagneria, almeno nella sua stragrande maggioranza, a pensarlo di lei.