Alla fine, accogliendo l’indicazione del suo segretario Nicola Zingaretti, il Partito democratico (Pd) ha deciso che voterà sì al referendum costituzionale che si terrà il 20 e 21 settembre insieme alle elezioni regionali. Per come si sono messe le cose, però, il vero referendum rischia di celebrarsi sul futuro politico dello stesso Zingaretti e, sull’altro fronte, su quello del leader della Lega Matteo Salvini.
Sono loro, più di tutti, a rischiare per l’esito di un voto che si è caricato di senso politico molto oltre la posta in gioco. E questo è un mezzo paradosso, perché è davvero difficile rintracciare le reali motivazioni politiche di certe scelte che sembrano rispondere invece a esigenze di mero posizionamento sullo scacchiere della cronaca.
Così, sismografi interni al Pd da tempo segnalano la delicatezza della situazione nella quale si è infilato Zingaretti, mentre c’è chi ricama sul futuro di altri dirigenti nazionali del partito come Dario Franceschini, Stefano Bonaccini e altri. Tuttavia, senza affidarsi a voci e retroscena, basta restare a ciò che è accaduto sulla scena per raccontare una debolezza, a volte perfino un’ingenuità, che pare non trovare rimedio.
Un vicolo cieco
Com’è noto, in parlamento il Pd ha votato per tre volte contro la riforma proposta dal Movimento 5 stelle (M5s). Ora il partito di Zingaretti si è accodato ai cinquestelle per tutelare il patto di governo, senza che però il movimento mantenesse la sua promessa di modificare parallelamente la legge elettorale in senso proporzionale, con sbarramento al 5 per cento.
È finita così che il Pd si è visto costretto a sostenere le ragioni del taglio con lo stesso piglio con il quale fino a poco tempo prima aveva sostenuto la posizione opposta. Per di più, si è trovato a doverlo fare senza poter dare altre spiegazioni al paese se non quelle racchiuse nel perimetro dell’antisalvinismo che, a quanto pare, resta l’unico orizzonte politico dei democratici e del patto di potere col M5s.
Inoltre, il Pd ha espresso una posizione solo nei giorni scorsi, e dunque a campagna elettorale quasi finita. Non proprio un bello spettacolo. E anche gli ultimi annunci di nuove riforme costituzionali con annessa raccolta di firme sembrano chiaramente delle scelte di ripiego mal costruite, sia sul piano politico sia su quello della comunicazione.
La conduzione politica di questi mesi, insomma, è stata tale che se al referendum prevalessero i sì quel risultato sarebbe percepito come una vittoria soprattutto del M5s. Se invece prevalessero i no, sarebbe una disfatta per il Pd che quella posizione ha abbandonato per inseguire i cinquestelle. Detta altrimenti, comunque andrà il referendum, per Zingaretti rischia di essere un insuccesso.
La partita delle regionali
Ecco allora che un uomo chiave come Goffredo Bettini ha provato a ridefinire in corsa gli obiettivi del suo partito, chiedendo al gruppo dirigente “di impegnarsi in questi ultimi giorni sulla vera priorità che abbiamo dinnanzi: la vittoria nel voto regionale”. Bene. Il fatto è che anche sul fronte delle regionali per il Pd non c’è da stare allegri.
L’esito del voto è quasi ovunque incerto. Ma è la Toscana il centro di ogni cosa. Chi perde in Toscana rischia grosso. Il discorso vale prima di tutto per Zingaretti che, nel caso di una sconfitta del candidato presidente Eugenio Giani, vedrebbe probabilmente rimessa in discussione la sua segreteria. Ma a rischiare davvero molto, per come quella candidatura è nata, sono anche il leader di Italia viva Matteo Renzi e il M5s, la cui responsabilità sarebbe pesantemente chiamata in causa per il mancato accordo politico su un candidato unitario per la regione.
A destra lo hanno capito da tempo e significativamente è soprattutto sulla campagna elettorale per le regionali che i leader di Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega si stanno impegnando, mentre è prevedibile che in questi ultimi giorni attaccheranno ancor di più il governo sulla scuola, alimentando le polemiche sulla disorganizzazione nel gestire il rientro degli studenti in aula. Di referendum, invece, da quelle parti nessuno parla quasi più.
Molti occhi sono puntati sul Veneto per misurare il risultato personale del governatore leghista Luca Zaia
A riaprire un po’ a sorpresa il dossier referendario è stato Giancarlo Giorgetti, numero due della Lega. Lo ha fatto proprio in questi ultimi giorni di campagna elettorale per annunciare che voterà no, marcando così un’importante distanza politica da Salvini che si era schierato per il sì.
La dichiarazione di Giorgetti, peraltro, è arrivata proprio mentre le cronache davano conto degli arresti nell’ambito dell’inchiesta sulla Lombardia film commission, che vede coinvolti alcuni professionisti considerati molto vicini alla Lega. Ed è difficile immaginare che un politico accorto come Giorgetti abbia scelto a caso il momento della sua dichiarazione.
Insomma, al di là del referendum, quel dissenso sembra rappresentare l’immagine di un partito non più graniticamente compatto dietro al proprio leader.
D’altra parte, da tempo molti occhi sono puntati in direzione del Veneto, e attendono di misurare il risultato personale del governatore leghista Luca Zaia. Se fosse supportato da numeri lusinghieri più di quelli della stessa Lega, quel risultato dimostrerebbe come la leadership del partito sia diventata contendibile.
Per Salvini c’è infine la partita con Giorgia Meloni per la guida della destra. Dopo la scelta di far cadere il governo di cui nel 2019 era ministro dell’interno – passata alle cronache come crisi del Papeete – il senatore ha commesso una serie di errori che hanno favorito l’avanzata di Fratelli d’Italia nel gradimento degli elettori. Così, prima che i malumori nel partito mettano apertamente in discussione la sua segreteria, il capo della Lega deve anche mettere al sicuro la guida dell’intera coalizione.
Ed è per questo che anche per lui il voto in Toscana, e il risultato che otterrà la candidata leghista Susanna Ceccardi contro Giani, è così importante. È lì insomma che guarderanno sia Salvini sia Zingaretti per capire cosa ne sarà delle rispettive leadership. Poi, certo, ci sarà anche da valutare l’esito del referendum, quello vero, quello sul taglio dei parlamentari.
Questo articolo è stato pubblicato su Internazionale il 14 settembre 2020