Che cosa direste voi, se vedeste proiettato da qualche parte di vostro gradimento, un film non ospedaliero il cui incipit è una folgorante scena iniziale in cui quella che in qualche modo si rivelerà protagonista della storia, viene costretta a indossare una di quelle mascherine chirurgiche ormai diventate nostro abituale accessorio, della serie “non uscire senza”? Vi chiedereste certamente se sia un documentario cronachistico dei nostri tribolati giorni, un instant movie fortunosamente girato ai tempi del lockdown o frettolosamente assemblato alle prime avvisaglie di liberazione oppure se si tratti di una di quelle opere gotico-profetiche vagamente horror che lungi dall’ammaestrarci vogliono peraltro scoraggiarci da qualsiasi idea di futuro possibile.
Ebbene, in qualche modo Buio, la vera sorpresa tutta italiana cinematografica del momento – insieme a pochissime altre cose tra cui bisogna come già scritto annoverare Gli anni amari di Andrea Adriatico che si proietta ininterrottamente dal 2 luglio in una sala romana e al nostrano bellissimo documentario storico di Paolo Soglia e Lorenzo K. Stanzani, The forgotten front…, che ha inaugurato il cinema in piazza contingentato di quest’anno – in qualche modo non è naturalmente nulla di tutto questo, anche se porta nella sua peculiare storia dal concepimento alle proiezioni vere e proprie un po’ di tutto questo spirito dei tempi.
Anche nella vicenda di Buio, possiamo rintracciare un’ascendenza bolognese, ma prima di arrivare a questo, sarà opportuno provare a chiarire la natura del nostro oggetto di discorso.
A metà tra cinema di genere e cinema di autore, o meglio ibridazione a mio avviso molto riuscita tra le due pseudo categorie, possiamo già intanto dirci che Buio si presenta come opera prima italiana in modo singolare, dribblando completamente lo scoglio dell’intimismo povero in presa diretta dal quartiere, come un prodotto internazionale, nella sua accezione migliore. Certamente esportabile, proponibile, vendibile e anche leggibile in molti modi diversi per il suo statuto di “favola”cui è vano aggiungere gli aggettivi in voga come noir o distopica: chi ha mai creduto infatti che una qualunque anche delle più apparentemente innocenti favole classiche non sia sovraccarica di rimandi freudiani, di passaggi scabrosi, di perversioni di ogni fatta? Pertanto la storia di Buio si colloca intanto in uno spazio d’azione sempre molto delimitato, porzionato in qualche modo, visto per “celle” e dialettico tra la claustrofobia di un dentro carcerario, ma non ascrivibile ad una geografia precisa, trattandosi di una casa gialla con qualche pretesa di villino decadente, immersa in una vegetazione altrettanto generica e un fuori appunto minaccioso da cui si può solo fuggire a mezzo di sentiero scosceso come da convenzione. Un fuori per la principessa prigioniera che non avrà assolutamente le sembianze del palazzo del principe ma di un supermercato discount di periferia che potrebbe essere ovunque.
Buio è infatti costruito a partire dal brivido sottile di paura, vergogna, assoggettamento, piacere inconfessabile che proviamo nei sogni quando tutto è noto e nel contempo estraneo, non identificabile, fuori da un tempo, una cronologia definibile. Tre sorelle dai poetici e significativi nomi per contrappasso, Stella, Luce, Aria, dato che proprio questi elementi naturali vengono loro negati, vivono segregate nella casa gialla in regolata autarchia governata dalla maggiore Stella, un’adolescente percettiva, coraggiosa, analitica, in lotta coi fantasmi nostalgici e pastellosi di un’infanzia orbata della presenza della bellissima madre forse morta, forse fuggita, chissà, presenza assenza che si ripresenta ricorrentemente associata psicanaliticamente all’acqua di un lago, o agli spruzzi di sangue sul muro di una cucina, in cui il frigo spesso è vuoto e i pasti sono ingegnosa invenzione.
Buio, negli interni a luce fioca e finestre sprangate, che ci rimandano ohimè a tante vicende cronachistiche di orchi e sepolte vive, del resto castighi capitali assegnati notoriamente alle Donne ribelli della classicità, rielabora intelligentemente ambientazioni e costumi a metà tra Giro di vite, un film di Amenabar o Lanthimos e una saga disfunzionale di Wes Anderson, evocato specialmente nella composizione prossemica del terzetto di sorelle simile sovente ad uno scatto polaroid e che le vede disposte in gradazione di nuance del bikini e di età e altezza. Le fanciulle di questa fiaba che tanto riguarda la natura della femminilità e in cui il sangue pericoloso è, come del resto simbolicamente e socialmente è, quello mestruale , rappresentano leggiadramente infanzia, pubertà, adolescenza in complicata relazione con un padre sociopatico–mostro, addobbato alla Blade runner, che esce all’esterno a procacciare cibo in un mondo devastato e raccontato come letale persino nei suoi elementi naturali, tanto da giustificare come doverosa persino la proibizione della luce del sole dalle finestre.
Questo padre aguzzino è in realtà come un perfetto prototipo o archetipo della cultura patriarcale ed esige al suo ritorno anche i rituali languorosi del riposo del guerriero e della sadica selezione della favorita tra le figlie–ancelle. Riuscire più che verbalmente con un gioco di sguardi e una sapiente sequenzialità di azioni impercettibili ora rallentate ora accelerate a restituire efficacemente e credibilmente la gamma complessa e variegata e soprattutto oltrechè contraddittoria, anche in continua evoluzione delle reazioni delle figlie, è uno dei meriti del film più evidenti e che ci mette subito sulla pista della regista donna.
Merita infatti un racconto nel racconto, tutto l’iter di questa produzione indipendente , scaturita dallo stesso team di lavoro che ha confezionato tre stagioni della serie televisiva Non uccidere e che in questo caso vede alla regia e al suo debutto nel lungometraggio, Emanuela Rossi, marchigiana di nascita, presto poi, cittadina nomade per motivi di lavoro, ora di stanza a Roma, ma di formazione tutta bolognese, targata Dams cinema.
Abbiamo incontrato Rossi in occasione della suggestiva tappa fermana appunto di questo tour di prime proiezioni prevalentemente svoltesi in spazi all’aperto in giro per l’Italia, in cui la nostra regista si è sottoposta di buon grado e con l’amabilità che le è propria, al fuoco di fila di curiosità dal pubblico che, specialmente nella nutrita componente femminile, estremamente variegata ma motivatissima ha mostrato e ne sono stata testimone, non solo di gradire ma di comprendere benissimo la finezza psicologica della sceneggiatura e di condividere il fatto, senza spoilerare troppo, che, la violenza sta soprattutto nelle cose nelle relazioni e nelle forme di pensiero, unitamente al fatto che forse in un film diretto da un uomo gli esiti finali sarebbero stati ben diversi.
Attacco, tra le numerose domande che mi si affollano in mente, con la questione delle mascherine che sbalordisce sempre gli spettatori.
“In realtà” mi dice Rossi “forse in particolare da quando sono diventata madre, coltivo una certa attenzione per i temi ambientali, anzi, forse una certa ossessione per il discorso del surriscaldamento del pianeta e coltivavo da molto tempo l’idea di scrivere un soggetto cinematografico (ndr.il film ha già vinto riconoscimenti per la sceneggiatura), che ne potesse trattare. Mi sono chiesta cosa accadrebbe se il fuori fosse al collasso e una prima semplice mossa evocativa era proprio quella delle mascherine””
“Nel contempo, volevo giocare con l’ambiguità nel senso che però, senza stare a inventarmi discorsi salvifici o palingenetici, penso che, esattamente come sta avvenendo ora , sia molto pericoloso per le Donne farsi comunque rinchiudere in casa. Quindi questa è diventata una chiave attrattiva del film, cioè l’interrogarsi costante sul grosso tema della percezione del pericolo, del vero e falso, anche se in questo caso le ragazze possono solo vedere cassette di aerobica e sentire vecchi vinili del padre, tutto il contrario del bombardamento mediatico su un adolescente di oggi. Hanno solo orologi per scandire il tempo delle attese, l’attesa del maschile soprattutto e nessun altro device. Eppure non riescono a farsi un’idea chiara né della loro storia biografica, né della verità dell’altrove da loro”
“L’altra cosa che volevo giocarmi era il fatto che la cosiddetta narrazione distopica prevede oltre alla brutalità di certe situazioni o alla crudeltà programmaticamente manichea dell’impianto teorico-contenutistico, anche uno stile di racconto duro e sgradevole per chi guarda. Sto pensando a un certo Hanecke o Von Trier: per carità, grandi registi che adoro e di cui mi sono nutrita, ma che in qualche modo secondo me non rispondono più ai bisogni del pubblico contemporaneo, cosi duramente provato nelle sue certezze persino estetiche da essere magari stufo dell’eleganza del bianco e nero cinephile. Nel contempo volevo un impatto sui più giovani abituati al linguaggio delle serie televisive ed evitare la melassa buonista”
“Naturale dunque che alla fine oltre il genere c’è la storia di formazione, che se ci pensi è la madre di tutte le storie. L’elaborazione e la scrittura sono state molto lunghe, il discorso della produzione anche, ma alla fine ho preso atto del fatto che in Italia è molto difficile proporsi e dire non è un film d’autore canonico, ma neppure un film di genere vero e proprio significa rendersi la vita difficile. Cosi, ho pensato alla nostra produzione indipendente con il team che conoscevo fattivamente già dalla serie tv che mi ha insegnato tanto e che mi avrebbe garantita la libertà di cui avevo bisogno per un esordio tanto accarezzato”.
“Si è rivelata la scelta giusta perché poi tutto è andato molto molto velocemente . Poi,però, è scoppiata la pandemia, proprio quando il film doveva uscire e ci siamo chiesti cosa fare. Pensa e ripensa abbiamo deciso che sarebbe stato intelligente cominciare a far parlare del film comunque e a testarlo in qualche modo, visto che la gente stava sempre collegata. Cosi tramite questi giovanissimi smanettoni padovani di Artex e My movies.it abbiamo ideato un collegamento virtuale tra diverse piazze cinematografiche di quel circuito in modo che collegandosi al sito in modo molto semplice e pagando un piccolo ticket si vedesse la pellicola: erano certi tipi di cinema a fare promozione nei confronti di loro fidelizzati e spesso precedeva o seguiva una chiacchierata con me. Cosi è accaduto a Bologna con il circuito di Kinodromo, per esempio, ma qui ci tengo a organizzare una cosa con tutti i crismi in presenza il più presto possibile. Con l’estate ho girato una trentina di arene estive in lungo e in largo e adesso a Roma ho in programma due cose: una “fighetta”, per cosi dire, ai laghetti dell’Eur, e una proiezione gratuita invece per i ragazzi alla Biblioteca del municipio di Tor bella monaca e quella sarà una verifica interessante”.
A questo punto le chiedo se la definizione di prodotto filmico doc per questa sua opera prima, che è riuscita a girare persino qualche festival estero, le può andar bene, nel senso che si sente secondo me tutto il piacere di confezionare con sapienza artigiana, una roba che parli veramente con le immagini nella loro immediatezza peraltro accuratissima:
“Beh ho studiato con profitto e autentico appagamento tantissimo ottimo cinema negli anni bolognesi e mi sono formata molto dalla visione delle pellicole del muto e quindi riuscire a comunicare il più possibile di contenuto con l’inquadratura è la mia ambizione, in effetti. Tuttavia, la mia strada nonostante sapessi dall’infanzia che volevo fare cinema è stata lunga e tortuosa, nonostante avessi coerentemente scelto questi studi. Ho dovuto fare una parentesi, peraltro rivelatasi formativa anche quella, nelle redazioni delle riviste di moda e arredamento che tanto mi hanno insegnato sul decor, sui costumi, ho vissuto a Milano e poi a Torino per formarmi sulla sceneggiatura… Però volevo fare la regia e non avevo il coraggio di iscrivermi alla centro sperimentale. Poche donne in effetti hanno il coraggio di farlo. Quando però sono venuta finalmente a Roma le cose hanno preso il verso giusto e ho fatto dei corti, poi è arrivata la serie. Sono percorsi lunghi, incerti, precari, si sa come sia poco sistemico in Italia il sostegno alla creatività, ai giovani e conta molto provenire o meno da famiglie del settore. Io ero di base una provinciale forte solo della mia vocazione e propensione e questo qui, per una donna non sembra essere abbastanza. Conta molto anche una supposta grintosità che dovresti dimostrare. In seguito ho capito che l’autorevolezza sul set non è data da quanto strilli o vessi la troupe, o dal fatto di calzare gli anfibi, ma piuttosto da instancabilità, spirito di sacrificio, capacità di creare la squadra e soprattutto dall’arte del problem solving perché tutti dipendono in qualche modo da te e ti chiedono cose. Ovvio le Donne lo sappiano fare benissimo, però il problema è che, in generale, hanno già compagni, figli che glielo chiedono. Penso che figli e carriera siano tutt’oggi molto difficili da conciliare e dunque lo scotto da pagare è un continuo senso di colpa. Però dico alle ragazze che realizzarsi bisogna perché un figlio non c’entra nulla con una spinta forte a fare e non si sostituisce alle proprie realizzazioni”
Doveroso a questo punto chiederle del cast che vede Valerio Binasco straordinario attore teatrale nei panni del padre padrone, Francesco Genovese, ad un quasi debutto, avendo girato corti fin qui, per quel che riguarda le figure maschili, la trentacinquenne poliedrica Elettra Mallaby, nel ruolo della madre e poi naturalmente le tre carismatiche “ragazze”, Gaia Bocci, Olimpia Tosatto e naturalmente lei, Stella, ovvero Denise Tantucci, una provinciale anche lei, da quel di Fano che sarà protagonista del prossimo attesissimo film di Nanni Moretti:
“Ho fatto un normale casting a Torino e con le ragazze, una poi è in realtà una bimba di 4 anni, è stato tutto molto naturale e familiare. Denise poi è una ragazza veramente speciale. Ha soli 23 anni vanta già una certa esperienza, ma recita da quando ne aveva 14 , vive sola dall’adolescenza, è studentessa di Fisica a Milano e insomma è fuori dai clichè divistici o da rivista per teenagers. Una ragazza intensa che è una vera capatosta e che dimostra come oggi le ragazze vadano veramente dappertutto e abbiano voglia di fare di tutto”
Al termine di questa chiacchierata posso veramente sentirmi una tantum confortata. Certi contenuti, anche di genere, in quel senso di problematica, possono anche bucare gli schermi attraversando i generi e le generazioni, evitando sia i sermoni che gli ammiccamenti e raggiungere le donne e perché no, anche gli uomini, più pensosi che ciarlieri, in verità al termine della proiezione.