L’odio e l’«amore» di Trump

di Tommaso Di Francesco /
9 Settembre 2020 /

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Official portrait of President Donald J. Trump, Friday, October 6, 2017. (Official White House photo by Shealah Craighead)

Sulle macerie fumanti di due irrisolte crisi internazionali, i Balcani con il nodo Serbia-Kosovo e il Medio Oriente con la tragedia della Palestina, Donald Trump in prossimità delle decisive e inquietanti presidenziali Usa di novembre costruisce la propria credibilità interna e internazionale.

Parliamo del set cinematografico che è andato in onda venerdì scorso nella Sala Ovale della Casa bianca: al centro del tavolo imponente Trump più tronfio del solito, ai lati due tavolini aggiunti, per il presidente serbo Aleksandar Vucic e per il premer kosovaro-albanese Avdullah Hoti – l’unico leader presentabile in pubblico, viste le accuse della Corte dell’Aja per crimini di guerra al presidente della repubblica Hashim Thaqi e a molti ex leader delle milizie dell’Uck; e a sorpresa in collegamento telefonico il premier israeliano Benjamin Netanyahu.

Forse bastava quello per capire che ci si trovava di fronte al secondo capitolo, ad una pericolosa estensione nei Balcani dell’«accordo del secolo» tra Emirati arabi e Israele in funzione anti-Iran e anti-Turchia, e anche stavolta, com’è avvenuto, al seppellimento della questione palestinese. Non sono mancate le parole beffarde di Trump sui risultati del vertice: «Una svolta, un grande accordo di pace»; e a suggello del teatrino: «Ora, lì dove c’era odio, c’è amore». E di odio Trump se ne intende, visto come lo aizza in patria contro i Black Lives Matter.

Eppure il risultato vero non c’è stato, vale a dire l’impossibile riconoscimento da parte della Serbia dello Stato del Kosovo, visto che Belgrado anche a Washington ha detto no a quella indipendenza proclamata in modo unilaterale nel 2008 e con aperto sostegno degli Stati uniti, nel disprezzo degli accordi di pace che nel giugno 1999 posero fine alla guerra di bombardamenti aerei della Nato. E tanto meno è uscita una parola sull’improbabile «scambio di territori» su cui pure Trump ha lavorato (la serba Valle di Presevo a maggioranza albanese da scambiare con il Kosovo e il nord kosovaro dell’area di Mitrovica a maggioranza serba, alla Serbia).

La sostanza dell’accordo è soltanto di natura economica, con progetti infrastrutturali, un modesto investimento americano e una normalizzazione degli scambi. Certo importante, visto che la leadership kosovaro-albanese da più di due anni ha imposto unilateralmente, contro l’atteggiamento di Belgrado volto a contrastare nelle sedi Onu l’arrivo del nuovo Stato, dazi doganali del 100%; quindi si ripristina la condizione quo ante, con la Serbia che, nonostante la guerra e il dopoguerra di contro-pulizia etnica nei confronti dei serbi rimasti in Kosovo, resta il primo paese di import-export per Pristina.

Ma con questo «accordo» Belgrado sembra voltare le spalle alla Russia e soprattutto alla Cina, con la quale ha definito progetti innovativi, a partire dal 5G, che ora accetta di cancellare. Comunque niente di più sulla crisi serbo-kosovaro: lì la guerra non è ancora finita e basterebbe guardare uno dei tanti carri armati della Nato che stazionano davanti ai monasteri serbi insidiati da nuove iniziative internazionali e locali in aree dove l’odio per i serbi è sempre acceso. Come del resto irrisolta è l’intera crisi dei Balcani.

Soprattutto in Bosnia Erzegovina dove la pace di Dayton è sempre più periclitante, lasciando spazio allo scontro tra interessi musulmano-bosniaci, mire croate nell’Herceg-Bosna a Mostar, e strategie nazionaliste dell’Entità serba; così come la nascita del nuovo Stato della Macedonia del Nord se risolve per ora la tensione con la Grecia, lascia sospeso il nodo della minoranza albanese che non nasconde l’obiettivo, proprio di Pristina e rinfocolato da Tirana, della Grande Albania; mentre è in fibrillazione perfino il Montenegro da poco membro della Nato, ma dove viene sconfitto nelle elezioni il malavitoso padre padrone Milo Djukanovic. Altro che «amore».

In realtà, pesante come un macigno il «di più» dal vertice alla Casa bianca è arrivato: la creazione delle relazioni diplomatiche tra Tel Aviv e Pristina che – primo paese musulmano – sposterà la sua ambasciata a Gerusalemme avendo in cambio da Israele il riconoscimento dello Stato kosovaro-albanese, e Belgrado – primo paese europeo, scompaginando così le decisioni di molti altri Paesi contrari dell’Ue – farà altrettanto entro il luglio del 2021. Come del resto ha già fatto Trump con la decisione di spostare la sua ambasciata. E questo nel disprezzo delle Risoluzioni delle Nazioni unite che dicono, nell’ottica dei due Stati, che Gerusalemme è città internazionale sotto egida Onu fino ad una soluzione negoziata, oltre che Città Santa per tre religioni. Netanyahu gongola.

I palestinesi, sotto occupazione militare, senza diritti e senza terra, ancora nei campi profughi della Nakba, con un Muro che li divide e ruba terra, con la miriade di colonie israeliane insediate e protette dal potente esercito israeliano – colonie che impediscono ormai la continuità territoriale di uno Stato palestinese, per di più divisi al loro interno, vengono ancora una volta sacrificati sull’altare della realpolitik dell’arroganza del più forte. Tanto non c’è nulla da temere, i palestinesi non esistono: sono un non-popolo.

Perché Trump fa tutto questo senza contraddizioni interne e senza auspicabili reazioni internazionali? La Ue tace e sulle presidenziali Usa va liscio come l’olio: Biden ha detto che non rimetterà in discussione lo spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, per non alienarsi il voto della potente comunità ebraica americana. Siamo lontani dal discorso di Obama al Cairo del 2009, quando dichiarava di sentire il «dolore dei palestinesi senza terra e diritti». Da quel discorso in poi nulla è stato fatto per modificare la condizione dei palestinesi. Di questo approfitta Trump. Così come si avvale del disastro balcanico che hanno pensato di risolvere con le guerre «umanitarie» .

Nei Balcani tutti gli scellerati e sanguinari nazionalismi interni sono stati il grimaldello complice della nascente Unione europea, con i riconoscimenti di indipendenze basate su proclamazioni etniche che hanno aiutato la dissoluzione della Federazione jugoslava. Poi è arrivato l’intervento «salvifico» della Nato che di fatto si è insediato nell’area del Sud-est Europa in attuazione della strategia dell’allargamento a Est, con una miriade di basi, in primo luogo quella di Camp Bondsteel che fa del Kosovo un buco con una base americana intorno.

Ora l’area vedrà con l’«accordo» della Casa bianca un temibile ritorno di fiamma delle già presenti ma sottese contrapposizioni mediorientali: nella regione è scontro aperto tra interessi di Arabia saudita e Turchia. Ha di che riflettere chi – come Massimo D’Alema – è stato protagonista di un intervento militare della Nato nei Balcani, ma allo stesso tempo ha a cuore la questione palestinese. Trump eredita quella terra bruciata, la sua subalternità, le rovine, l’abbandono precedente e li gestisce nella sua «visione». Lì l’Occidente ha creato solo servitù militari: siamo alla etero-determinazione dei popoli. Altro che pace. Ora aspettiamo solo che erigano a Pristina una statua in bronzo per Trump più alta di quella di 5 metri già eretta per Bill Clinton a ringraziamento della guerra «umanitaria».

Questo articolo è stato pubblicato su Il manifesto 7 settembre 2020

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