La lotta dei prigionieri politici mapuche continua in condizioni sempre più estreme, dopo la firma del machi Celestino Córdova di un accordo con il governo lo scorso 18 agosto, che gli ha permesso di lasciare lo sciopero della fame dopo 107 giorni. Gli altri 26 detenuti hanno continuato lo sciopero, e dal carcere di Angol hanno portato avanti una chiara rivendicazione, sostenuta da quelli delle carceri di Lebu e Temuco: l’applicazione della Convenzione 169 dell’ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro) che contempla i diritti delle popoli indigeni e tribali, e che il Cile ha ratificato nel 2008 dopo anni di lotta politica. Questo trattato internazionale, già firmato e regolamentato in molti paesi dell’America Latina ben prima che in Cile, prende in considerazione gli usi e costumi dei popoli originari e definisce che, in caso di sanzioni penali, “devono essere prese in considerazione le loro caratteristiche economiche, sociali, economiche e culturali” e “la preferenza deve essere data a tipi di sanzione diversi dalla reclusione” (art. 10).
I prigionieri di Angol hanno iniziato lo sciopero della sete, che si somma ai quasi quattro mesi di sciopero della fame, lo scorso 24 agosto, allo scadere senza risposte dei 12 giorni fissati dal ministro della Giustizia Hernán Larraín per risolvere le loro richieste. Gradualmente si sono uniti allo sciopero della sete anche diversi prigionieri del carcere di Lebu, e molti di loro oggi si trovano in condizioni di salute critiche: da giovedì 27 sono ricoverati in ospedale tutti gli otto scioperanti di Angol e tre del carcere di Lebu.
“Quello che rivendicano principalmente è che si rispetti l’applicazione della Convenzione 169 per i prigionieri politici. Questo non viene esplicitato nell’accordo firmato dal machi Córdova” chiarisce Juan Pichún Collonao, lonko della comunità di Temulemu e portavoce dei prigionieri politici di Temuco, la terza delle carceri dell’Araucanía che hanno aderito allo sciopero in solidarietà con il machi Celestino Córdova. Come spiega il lonko Pichún, dopo l’accordo firmato dal machi tre dei detenuti di Temuco hanno potuto richiedere e ottenere un cambio di misura cautelare dalla detenzione preventiva a domiciliare, che è stata concessa a un terzo della popolazione carceraria dall’inizio della pandemia, ma finora a nessun detenuto mapuche.
D’altra parte, il tavolo di dialogo svoltosi mercoledì 26 agosto tra il ministro Larraín e i portavoce dei prigionieri politici mapuche non ha fatto molti progressi. Rodrigo Curipan, werken dei prigionieri del carcere di Angol, ha spiegato alla stampa che “sono stati fatti progressi nella volontà di creare un tavolo politico di alto livello per regolamentare la Convenzione 169, ma non si è potuto lasciare lo sciopero”. Perché questo accada sarebbe necessario modificare le misure cautelari dei prigionieri, sia quelli che si trovano in carcere preventivo sia quelli che sono condannati, in modo che possano accedere ai Centri di istruzione e lavoro, come risolto negli 8 punti del documento firmato dal machi Celestino Córdova e come sarebbe contemplato nel quadro della Convenzione 169. A questo proposito, il ministro Larraín ha definito intransigenti i prigionieri di Angol, ha dichiarato che le loro richieste “vanno oltre le norme legali esistenti”, mentre invitava i prigionieri a porre fine allo sciopero di fame, sostenendo che “nessuna vita può essere messa a rischio per richieste indebite”. Il 30 agosto i Carabineros cileni hanno fatto irruzione nel carcere di Lebu per portare gli ultimi prigionieri politici mapuche lì detenuti all’ospedale con l’obiettivo di imporgli l’alimentazione forzata.
Se da un lato il governo gioca con il tempo e con la vita degli scioperanti, seminando l’angoscia nelle loro famiglie e comunità e rinviando ancora una volta la possibilità di un accordo in un contesto estremamente delicato, dall’altro lato il tratto con i camionisti, in sciopero a tempo indeterminato da giovedì 27 agosto, è permissivo e conciliante. Il reclamo del sindacato CNTC (Confederación Nacional de Transporte de Carga de Chile) – che non è supportato dai due maggiori sindacati di camionisti, il CNDC e il Chile Transportes – chiede una maggiore sicurezza per i proprietari dei camion che stanno subendo l’incendio dei loro veicoli nella Regione dell’Araucanía. Le pretese del sindacato dei camionisti si estendono fino all’approvazione di 13 leggi già presentate nel Congresso, tra le quali vi è la controversa “legge anti-incappucciati” redatta durante i mesi della rivolta in Cile, il rafforzamento di tutte le forze di polizia e dell’intelligence e pene più severe per i crimini contro la proprietà o relativi al traffico di droga o terroristici. Il sindacato dei camionisti ha ottenuto una grande presenza mediatica nelle ultime settimane, diversi incontri alla Moneda e l’impegno pubblico di Piñera, che il 13 agosto ha presentato un disegno di legge volto a inasprire le pene per chi commette attacchi incendiari contro veicoli a motore.
Di fronte allo sciopero, che minaccia di lasciare senza rifornimenti il Cile nel mezzo della pandemia, il nuovo ministro dell’interno Víctor Pérez ha escluso l’utilizzo della legge di Sicurezza dello Stato e sminuito la responsabilità della CNTC, sostenendo che i blocchi stradali sono stati finora intermittenti e non hanno interrotto la circolazione. Víctor Pérez è lo stesso ministro che si è recato in Araucanía pochi giorni dopo il suo insediamento a fine luglio, promettendo la mano dura per risolvere i conflitti nella regione e affermando che “non ci sono prigionieri politici in Cile”. Dopo questa dichiarazione provocatoria, gruppi di estrema destra hanno organizzato la repressione dei comuneros mapuche che stavano occupando cinque comuni dell’Aracuania per rendere visibile la lotta dei prigionieri politici in sciopero della fame. “Sono andati a reprimere, e la polizia presente ha permesso e avallato che la nostra gente fosse aggredita” spiega il lonko Pichún, “ed è successo il giorno dopo la visita di Victor Pérez Varela. Quest’uomo – che era molto vicino a Pinochet, a Paul Schäfer – ha approvato la violazione dei diritti umani durante la dittatura, ha approvato lo stupro di bambini e donne e ha permesso la tortura a Colonia Dignidad. Oggi assume il ministero e porta con sé un intero schieramento politico, abbiamo ancora persone di estrema destra nel Wallmapu, che sono pinochetisti e che si sentono rappresentati da questo governo – perché oggi Piñera ha perso il governo, lo guida l’estrema destra – ed ecco come questi gruppi si rivitalizzano di nuovo”.
Dopo gli atti di violenza razzista contro il popolo mapuche di inizio di agosto, anche le manifestazioni di solidarietà si sono moltiplicate sia nella regione che a livello internazionale. “I latifondisti cominciavano a restare isolati, e i camionisti sono intervenuti a sostenerli per pareggiare la bilancia e porre sullo stesso piano la destra fascista e il popolo nazione mapuche. Porci sullo stesso livello serviva al governo per appoggiare la repressione, accusando i mapuche di violenti, terroristi ecc.” continua il lonko Pichún. “Inoltre, i proprietari terrieri sono stati quelli che hanno generato la situazione, quelli che finanziano: chi è andato ad attaccare la nostra gente sono stati i peoni dei latifondisti, i lavoratori delle aziende forestali. Il razzismo nella regione può esplodere, è una questione molto complicata e rischiosa, e questo purtroppo è responsabilità del governo. L’attuale governo, in particolare, ha investito molto in tecnologia all’avanguardia per reprimere il popolo mapuche, con droni, aerei, armamenti, e il territorio oggi è pieno di militari, quindi per noi è un’epoca di dittatura, anche se non viene dichiarato lo stato d’assedio, siamo sotto assedio, ma ne siamo consapevoli e non abbasseremo la guardia, lottiamo per un diritto territoriale contro le imprese forestali, contro le centrali idroelettriche, che sono i nostri principali nemici”.
Di fronte alla domanda su quale sia la proposta del popolo mapuche per arrivare a una soluzione al conflitto, il lonko Pichún conclude: “noi proponiamo che il territorio usurpato dalle forestali e dai latifondisti ci venga restituito, cerchiamo un’autonomia sufficiente per prendere le nostre decisioni su quale vita vogliamo, che non siano imposte dal modello neoliberista, in cui è inserito il Cile, le cui politiche sono basate sul mercato. Il problema è che Stati e governi hanno sempre voluto imporsi su tutti i popoli originari dell’America Latina. Quello che vogliamo è che ci sia permesso di essere liberi nei nostri territori, lì rafforziamo la nostra identità, il nostro feyentun, la nostra medicina e sviluppiamo la nostra vita. Per questo lottiamo per la terra e il territorio, contro lo sfruttamento dell’ambiente e per il diritto di accesso all’acqua”.
Questo articolo è stato pubblicato su l’America Latina il 2 settembre 2020