E’ opinione di molti osservatori che la crisi del progetto comunitario risieda nel fatto che le élite europee dominanti abbiano da tempo abbracciato l’ideologia neoliberista, che è valsa a motivarle a riporre ogni fiducia nella realizzazione del progetto europeo sulle scelte strategiche di fondo adottate dai settori economici dominanti.
Tali settori, operanti secondo la logica del libero mercato e orientati esclusivamente alla soddisfazione dei loro interessi, sono però, alla lunga, entrati in conflitto con le aspettative dei cittadini, la cui soddisfazione era stata sancita nei Trattati costitutivi della Comunità europea. Non casualmente, quella che viene definita come la crisi dell’Unione ha evidenziato difficoltà di sopravvivenza dello spirito europeo che di unitario ha ormai solo la moneta e la politica volta a conservarne la stabilità del potere d’acquisto.
La crisi dell’Europa nasce pertanto con l’ideologia neoliberista, che considera il ruolo delle istituzioni europee un ostacolo al funzionamento dei mercati, perché sin dalla firma dei Trattati originari sono state orientate ad attuare politiche tese a fare dell’Europa un’area avanzata sul piano delle soddisfazione dei diritti civili e un sistema sociale aperto alla crescente democratizzazione del processo di scelta delle decisioni collettive.
In particolare, secondo i sostenitori del progetto europeo, dopo la costituzione del mercato unico interno e la firma del Trattato di Maastricht, l’obiettivo centrale delle istituzioni europee sarebbe stato solo quello di potenziare l’economia attraverso il libero mercato; obiettivo che avrebbe costantemente accompagnato il pensiero europeo dominante nei decenni successivi, cosicché la creazione del mercato unico interno, l’adozione della moneta unica e la decisione di salvaguardarne la stabilità con la rinuncia al ricorso ad opportuni meccanismi di aggiustamento valutario, si è lasciato che la prosecuzione del processo di unificazione politica dell’Europa fosse la conseguenza del funzionamento spontaneo dei mercati.
Ma l’impossibilità di aggiustare le perduranti e crescenti differenze strutturali tra i sistemi economici nazionali aderenti all’eurozona ha dato origine ad effetti negativi che, a livello di opinione pubblica, ha favorito una generalizzata disaffezione dei cittadini europei rispetto all’attuazione del progetto comunitario e lo smarrimento da parte degli stessi cittadini del “senso di coinvolgimento – come afferma Colin Crouch, in “L’Europa oltre il neoliberismo” (Il Mulino, n. 1/2019) – in un insieme, in un progetto grande e originale”, che è stato poi la causa della decisione del Regno Unito di uscire dall’Europa.
Con la Brexit, secondo Crouch, è emersa palese una disaffezione dal progetto europeo determinata per lo più da motivazioni che non avevano alcun rapporto con le idealità che avevano giustificato l’adesione ad un “progetto grande e originale”, qual è stato appunto il progetto di creare un’unione politica dei Paesi occidentali del Vecchio Continente. La Brexit, infatti, sarebbe stata motivata, da un lato, dalla nostalgia diffusasi fra molti cittadini inglesi (dopo la difficile situazione economica maturata con la grande crisi del 2007/2008) di poter tornare, una volta fuori dall’Europa, all’improbabile ricupero dei fasti imperiali del passato e, dall’altro lato, dall’illusione di poter realizzare una condizione di isolamento che mettesse il Regno Unito al riparo dall’”invasione” di soggetti stranieri.
Altri cittadini britannici, tuttavia, e tra loro molti intellettuali, non hanno mancato di mostrare, in quanto dotati di uno sguardo più complessivo, di essere consapevoli dell’importanza – sottolinea Crouch – di un diverso ruolo della Gran Bretagna nel mondo di oggi. Ciò è comprovato dal fatto che, dopo il referendum col quale è stata decisa l’uscita del Regno Unito dall’Europa, ci siano state in alcune parti del Paese manifestazioni molto partecipate, “durante le quali centinaia di migliaia di persone hanno espresso il loro smarrimento, derivante dalla perdita di visione di un Paese europeo con rapporti positivi con i suoi vicini”; manifestazioni che, per Crouch, non sarebbero state motivate da ragioni economiche e commerciali e dall’immigrazione di soggetti stranieri, ma da visioni diverse dell’identità britannica.
Ma come è possibile – si chiede l’autore – che le istituzioni dell’Europa burocratica, dominate dai tecnici ed ispirate all’ideologia neoliberista, non abbiano avvertito l’urgenza di rilanciare un’idea di Europa che andasse oltre le sole preoccupazioni economiche, commerciali e monetarie? I rapporti tra i Paesi non possono essere governati sulla base della soluzione di problemi di natura esclusivamente tecnica; occorre anche tener conto dei sentimenti dei cittadini. Ciò che è accaduto in Gran Bretagna deve necessariamente indurre le istituzioni comunitarie a ripensare “lo scopo del progetto europeo e il suo posto nei cuori dei cittadini”, per comprendere che il ritorno all’isolamento dei Paesi membri dell’Unione può suscitare emozioni non sempre positive e favorire la nascita e il consolidarsi di movimenti politici contrari alle idealità delle quali le istituzioni comunitarie dovrebbero essere portatrici.
I movimenti contrari alle idealità che stanno a fondamento del progetto europeo, oggi presenti in tutti Paesi comunitari, “sanno bene – continua Crouch – come sfruttare le emozioni e proporre ideali più o meno condivisibili”, nonostante le “visioni passatiste” del nazionalismo e della xenofobia di cui essi sono portatori, e che sono all’origine delle conseguenze distruttive che hanno colpito il Vecchio Continente nel corso del Novecento. Le istituzioni comunitarie non possono illudersi di poter difendere il progetto europeo continuando a proporre agli Stati membri solo “più mercato”, così come sostiene l’ideologia neoliberista.
Ciò non significa che l’ideologia neoliberista sia in assoluto responsabile dei limiti delle politiche attuate dalle istituzioni comunitarie in difesa dell’idea di un’ Europa unita, in quanto tale ideologia neoliberale non sempre è rifiutata dal movimenti nazionalisti. Ci sono sovranismi di destra, che si oppongono al neoliberismo, ma anche sovranismi di sinistra, che ugualmente sono ad esso contrari; accanto a queste forme di sovranismo, di destra e di sinistra, esistono anche movimenti che, pur non essendo portatori in linea di principio di idee sovraniste, sulla base di una “certa concezione della giustizia sociale” interpretano – secondo Crouch – il neoliberismo come una forza globalista negativa, per cui sono motivati a considerare la crisi dell’idea di Europa unita come un semplice aspetto della globalizzazione.
A rendere più complicato il quadro delle forze politiche presenti nell’area europea è l’esistenza di sovranismi aperti, entro certi limiti, a coltivare idee proprie del neolibersimo, come accade – a parere di Crouch – con la Lega in Italia (promotrice dell’introduzione della “flat tax”) e il movimento sovranista ungherese di Viktor Orban (che tende a limitare i diritti dei lavoratori, per rendere più liberi i mercati).
Se si tiene conto dei variegati atteggiamenti dei movimenti sovranisti nei confronti del neoliberismo non si può interpretare – sostiene Crouch – la loro diffusione “come una semplice reazione nei confronti di politiche neoliberali”, bensì come conseguenza del fatto che le istituzioni europee hanno perso il sostegno “dell’affetto dei cittadini”; ciò in quanto questi ultimi possono “amare istituzioni formali e remote” solo quando si rendono conto che da esse dipendono decisioni concrete che toccano la loro vita, migliorandola, oltre che sul piano economico, anche sul piano dell’ideale di sentirsi parte di una comunità solidale.
Solo così le istituzioni comunitarie possono indurre i cittadini europei a “sentirle più vicine a loro”. Le istituzioni europee, invece, non hanno agito in questo modo, limitando il loro contatto con i cittadini sulla base del convincimento, in conformità all’ideologia neoliberista, che la politica sociale sacrifichi in modo eccessivo i ritmi della crescita economica, quindi l’aumento del benessere collettivo, e che le politiche culturali e scientifiche siano troppo costose, essendo la causa prima dell’aumento della spesa pubblica.
L’errore commesso dalle istituzioni comunitarie è consistito nell’aver ignorato che il potenziamento dei mercati non poteva avvenire a discapito delle politiche sociali, culturali e scientifiche, poiché di fatto i mercati hanno bisogno delle politiche sociali; ciò che peraltro era stato intuito da Jaques Delors, allorché da Presidente della Commissione europea, dopo aver istituito il mercato unico interno, aveva previsto per una sua piena realizzazione, la necessità che fossero attuati molti interventi di natura sociale (come quelli – ricorda Crouch – volti a favorire l’attuazione di politiche per l’ampliamento dei diritti dei lavoratori), al fine di favorire “la creazione di nuovi legami tra Bruxelles e le istituzioni interne ai singoli Stati membri, come sindacati, governi, comunità scientifiche e culturali”. L’iniziativa di Delors è stata, per Crouch, un vero esempio del fatto che il successo di una riforma economica richiede più politica sociale, nonché la necessità che sia soddisfatto il bisogno di più approfonditi rapporti umani tra le istituzioni e le persone sul territorio.
I conservatori inglesi non avrebbero mai potuto accettare una politica generale quale quella suggerita da Delors per il bene del progetto europeo. Non è casuale il fatto che anche un’accesa sostenitrice del mercato unico europeo, qual è stata Margaret Thatcher, ritenesse che il sostegno del mercato e l’attuazione di politiche sociali fossero tra loro incompatibili; da neoliberale sovranista, qual era, essa non poteva accettare “rapporti diretti tra le istituzioni europee e il ‘suo’ popolo”, assumendo una posizione che è risultata il punto di partenza per la fuoriuscita del Regno Unito dall’Unione Europea.
Lo spirito della riforma Delors è stato però disatteso; per cui si è assistito all’attuazione di politiche neoliberiste europee, unicamente orientate a favorire la libertà dei mercati, senza la preoccupazione di accompagnarle con politiche sociali, non solo per contenerne le conseguenze negative, ma anche per renderne il funzionamento compatibile con la prosecuzione del processo di integrazione politica dei Paesi aderenti all’Unione. Sembra che, con il primato riservato all’attenzione per il mercato, le istituzioni europee – osserva Crouch – “abbiano dimenticato tutto il resto”.
Ma non sono solo i sovranismi e il malinteso senso del globalismo a “far male all’Europa”; vi sono anche i politici europeisti “à la carte”, ovvero quelli che, pur dichiarandosi europeisti, amano presentarsi al pubblico come i veri sostenitori degli interessi nazionali, trascurando però il pericolo che se gli elettori non percepiscono i vantaggi extraeconomici derivanti dall’appartenenza all’Unione Europea, possono fare il gioco dei sovranismi più estremi, orientandosi verso le posizioni di quei cittadini inglesi che hanno scelto di abbandonare l’Europa.
Pertanto, conclude Crouch, per il rilancio dell’idea di Europa e la neutralizzazione di tutti gli atteggiamenti scettici o contrari che i sovranismi e l’ideologia neolibersita sono valsi a diffondere contro di essa, occorre che le istituzioni europee, non solo cessino di ispirarsi alle idee neoliberiste, ma adottino nuovi contenuti per le loro politiche, tali da portare gli elettori a sentirsi veramente cittadini europei, come auspicato negli anni delle riforme di Delors.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto sardo il 2 settembre 2020