Pubblichiamo in anteprima l’introduzione del libro “La macchina del saccheggio – Signori della guerra, trafficanti, magnati dell’industria e il furto sistematico delle risorse africane” di Tom Burgis (Francesco Brioschi Editore) in libreria dal 17 settembre. L’opera del giornalista investigativo del Financial Times è inserita nella “Collana Reportage“. [Redazione Micromega]
Di fronte alla Borsa di New York, in quello che il cartello di informazioni turistiche chiama il “crocevia finanziario del mondo intero”, l’imponente facciata in pietra del civico 23 di Wall Street evoca il potere del proprietario della banca che avrebbe dovuto ospitare quando era stata costruita, nel 1913: J. P. Morgan, il titano del capitalismo americano. L’esterno è stato parecchio sfruttato da Hollywood – figura come Borsa di Gotham City nel film del 2012 Il cavaliere oscuro – Il ritorno – ma quando andai a vederlo alla fine del 2013 il tappeto rosso era sporco e impregnato della pioggerellina che soffiava dall’Atlantico. Attraverso il sudicio vetro della cancellata di metallo chiusa, nell’interno sventrato dove un tempo splendeva un enorme lampadario si vedevano solo alcuni tubi al neon, scale coperte di compensato e la luccicante scritta rossa “Uscita”.
Anche nello sfacelo, Wall Street 23 resta un simbolo dell’élite, un trofeo nel gioco altalenante del commercio globale. L’indirizzo dei suoi attuali proprietari è un ufficio al decimo piano di un grattacielo di Hong Kong. Un tempo sede di una caserma dell’esercito britannico, l’88 di Queensway è stato trasformato nelle torri a specchio di Pacific Place, che proiettano il riflesso della luce del sole sul quartiere finanziario. Il sontuoso centro commerciale al pianterreno, dove l’aria condizionata scaccia l’umidità dell’esterno, è una sfilza di boutique di grandi stilisti: Armani, Prada, Chanel, Dior. L’hotel Shangri La, che occupa i piani alti della seconda delle sette torri di Pacific Place, offre suite per 10.000 dollari a notte.
L’ufficio al decimo piano è molto più discreto. Lo stesso vale per il piccolo gruppo di uomini e donne che lo usano come sede legale per la loro rete di imprese. A chi ha cercato di studiarne l’evoluzione, sono noti, ufficiosamente, come “il Queensway Group”[1]. I loro interessi, detenuti attraverso una rete di complesse organizzazioni societarie e riservati veicoli offshore, risiedono a Mosca e Manhattan, in Corea del Nord e Indonesia. I loro interlocutori commerciali comprendono grandi aziende statali cinesi; la BP, la Total e altre compagnie petrolifere occidentali; e la Glencore, la gigantesca azienda specializzata nel commercio delle materie prime, con sede in una città svizzera. Soprattutto, però, il patrimonio e l’influenza del Queensway Group derivano dalle risorse naturali che giacciono sotto il suolo africano.
Più o meno a metà strada tra il 23 di Wall Street a New York e l’88 di Queensway a Hong Kong – a circa undicimila chilometri di distanza da ognuno –, sorge un altro grattacielo. L’edificio dorato al centro della capitale dell’Angola, Luanda, arriva a venticinque piani, e affaccia sulla baia in cui l’Atlantico lambisce le coste meridionali dell’Africa. Si chiama Cif Luanda One, ma la gente del posto lo chiama il Palazzo di Tom e Jerry per via dei fumetti che venivano proiettati sulle sue pareti esterne mentre veniva costruito nel 2008. Dentro c’è una sala da ballo, un cigar bar, e gli uffici di compagnie petrolifere straniere che sfruttano le prodigiose riserve di greggio sotto il fondale marino.
Un irremovibile guardiano sorveglia l’ingresso, sopra sventolano tre bandiere. Una è quella dell’Angola. La seconda è quella della Cina, la potenza emergente che ha generosamente coperto di strade, ponti e ferrovie l’Angola, che in cambio è arrivata a fornire uno su sette barili del petrolio importato dalla Cina per alimentare la sua folle crescita economica. La stella gialla del comunismo adorna entrambe le bandiere, ma di questi tempi le credenziali socialiste dei governanti di entrambe le nazioni stridono rispetto alle loro vertiginose ricchezze.
La terza bandiera non appartiene a una nazione ma alla società che ha costruito la torre. Su sfondo bianco, campeggiano tre lettere grigie: Cif, che stanno per China International Fund, uno dei bracci più visibili del misterioso network multinazionale del Queensway Group. Messe insieme, le tre bandiere rappresentano il vessillo di un nuovo genere di impero.
Nel 2008 accettai un incarico di corrispondente per il «Financial Times» a Johannesburg. Era un momento esplosivo, o almeno lo era stato. I prezzi per le materie prime che il Sudafrica e i suoi vicini possiedono in abbondanza erano inesorabilmente cresciuti dall’inizio del millennio, a causa dell’appetito vorace che stavano sviluppando per queste risorse la Cina, l’India e le altre economie a crescita rapida. Negli anni Novanta il prezzo medio per un’oncia di platino era di 470 dollari.[2] Una tonnellata di rame valeva 2600 dollari, un barile di greggio 22. Nel 2008 il prezzo del platino si era triplicato, raggiungendo i 1500 dollari, e il rame costava due volte e mezzo di più, 6800 dollari. Il petrolio era più che quadruplicato, 95 dollari al barile, e un giorno del luglio 2008 raggiunse i 147. A quel punto, però, il sistema bancario americano saltò in aria. Le onde d’urto si diffusero nell’economia globale, e i prezzi delle materie grezze crollarono. Dirigenti d’azienda, ministri e minatori licenziati rimasero a guardare inorriditi mentre l’imprudenza di lontani banchieri metteva a rischio i profitti derivanti dalle risorse che erano la linfa vitale dell’economia africana. La Cina e gli altri, tuttavia, continuavano a crescere. Nel giro di un paio d’anni i prezzi delle materie prime tornarono ai livelli precedenti alla crisi. Il boom riprese.
Per un anno solcai l’Africa meridionale, documentando elezioni, colpi di Stato e processi per corruzione, i tentativi di alleviare la povertà e le fortune delle gigantesche società minerarie con sede a Johannesburg. Nel 2009 mi trasferii a Lagos, dove avrei passato due anni a scrivere della polveriera dell’Africa Occidentale.
Le teorie sulle cause della miseria e della conflittualità del continente si sprecano, e spesso trattano i 900 milioni di persone e 48 nazioni dell’Africa nera, la regione a sud del deserto del Sahara, come un blocco omogeneo.[3] Il colonialismo aveva distrutto l’Africa, affermavano alcuni teorici, e i suoi danni erano stati aggravati dai diktat della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale; altri consideravano gli africani incapaci di governarsi da soli, per un eccesso di “tribalismo” e una propensione atavica alla corruzione e alla violenza. Poi c’erano quelli che pensavano che l’Africa non stesse andando poi così male, ma che i giornalisti in cerca di notizie sensazionali e le associazioni benefiche che cercavano di toccare i sentimenti dei donatori distorcessero la sua immagine. Le ricette erano variegate e contraddittorie quanto le diagnosi: tagliare le spese governative per consentire alle imprese private di prosperare; concentrarsi sulla riforma dell’esercito, la promozione del “buon governo” o l’emancipazione delle donne; bombardare il continente con aiuti internazionali; o aprire di forza i mercati africani per trascinare il continente nell’economia globale.
Mentre la parte ricca del mondo lottava contro la recessione, opinionisti, investitori ed esperti di sviluppo cominciarono a dichiarare che l’Africa, per contrasto, era in ascesa. Gli indicatori commerciali suggerivano che, grazie alla rivoluzione economica indotta dal boom delle materie prime, una classe media in espansione stava sostituendo la propensione africana al conflitto con un consumo sfrenato di telefoni cellulari e whisky pregiato. Ma queste analisi ottimistiche erano giustificate solo in alcune sacche del continente. Mentre visitavo il Delta del Niger, il cuore dell’industria petrolifera nigeriana, o i campi di battaglia ricchi di minerali del Congo orientale, mi convincevo che il tesoro di risorse naturali dell’Africa non sarebbe stato la sua salvezza, ma che rappresentasse al contrario la sua condanna.
Da più di vent’anni gli economisti cercano di individuare il motivo per cui le risorse naturali generano tanto caos. “Paradossalmente,” hanno scritto nel 2007 Macartan Humphreys, Jeffrey Sachs e Joseph Stiglitz della Columbia University, “nonostante le prospettive di ricchezza e opportunità che accompagnano la scoperta e l’estrazione del petrolio e di altre materie prime, queste ricchezze impediscono fin troppo spesso di promuovere uno sviluppo equilibrato e sostenibile”[4]. Gli analisti dello studio di consulenza McKinsey hanno calcolato che il 69 per cento della popolazione in povertà estrema vive in nazioni in cui il petrolio, il gas e i minerali svolgono un ruolo fondamentale nell’economia, e che negli stessi paesi il reddito medio è notevolmente inferiore alla media globale[5]. Il solo numero delle persone che vivono in quelli che, quanto a risorse naturali, sono tra gli Stati più ricchi del pianeta, è sconcertante. Secondo la Banca mondiale, la proporzione della popolazione in povertà assoluta, calcolata in base alle persone che vivono con 1,25 dollari al giorno e corretta in base a quello che la misera somma permette di comprare in ogni nazione, è del 68 per cento in Nigeria e del 43 per cento in Angola, rispettivamente il primo e il secondo produttore africano di petrolio e gas. In Zambia e in Congo, il cui confine condiviso taglia in due la Copperbelt africana, il tasso di povertà estrema è rispettivamente del 75 e dell’88 per cento. Per dare un termine di paragone, questa condizione è vissuta dal 33 per cento degli indiani, dal 12 per cento dei cinesi, dallo 0,7 per cento dei messicani e dallo 0,1 per cento dei polacchi.
Il fenomeno che gli economisti chiamano la “maledizione delle risorse” non offre certo una spiegazione universale per l’esistenza della guerra o della fame, in Africa così come altrove: la corruzione e la violenza interetnica colpiscono anche i paesi del continente in cui le industrie delle materie prime costituiscono una parte relativamente insignificante dell’economia, come il Kenya. Né ogni paese ricco di risorse deve subire per forza questo triste destino: basta pensare alla Norvegia. Spesso, però, nei paesi in cui le industrie estrattive, che comprendono il settore petrolifero e minerario, dominano l’economia succedono cose spiacevoli. Il resto delle attività economiche subisce una distorsione, a causa dell’afflusso di dollari dovuto all’esportazione delle materie prime. Le entrate che il governo ricava dalle risorse nazionali non sono guadagnate: per estrarre greggio o minerali, gli Stati si limitano ad autorizzare società straniere. Questo genere di reddito viene considerato una “rendita” e non produce una gestione oculata: crea soltanto una riserva di denaro a disposizione di chi controlla lo Stato. Nei casi estremi, il contratto tra governanti e governati si spezza perché la classe dirigente non ha bisogno di tassare la popolazione per finanziarsi, e quindi non deve cercare il suo consenso.
Sentendo di non avere obblighi nei confronti della popolazione, il regime foraggiato dalle materie prime tende a spendere il reddito nazionale in cose che servono i suoi interessi: l’investimento nell’istruzione scende in picchiata, mentre la spesa militare aumenta[6]. Nell’industria delle risorse, la corruzione è endemica. La cleptocrazia, o il “governo dei ladri”, prospera. Una volta ottenuto il potere, l’incentivo a separarsene è minimo. Un’economia basata su un fondo centrale di redditi generati dalle risorse è una ricetta per una politica autocratica. I quattro governanti rimasti in carica più a lungo nella storia – Teodoro Obiang Nguema della Guinea Equatoriale, José Eduardo dos Santos dell’Angola, Robert Mugabe dello Zimbabwe e Paul Biya del Camerun – presiedono ognuno uno Stato africano ricco di petrolio e di minerali. Facendo la somma, sono stati al potere per 136 anni.
Dagli oligarchi russi del petrolio ai conquistadores che secoli fa saccheggiarono l’argento e l’oro dell’America Latina, i redditi provenienti dalle risorse naturali concentrano la ricchezza e il potere nelle mani di pochi. Danno origine a quello che Said Djinnit, un politico algerino che, come più importante funzionario dell’Onu in Africa Occidentale, ha fatto da mediatore in una successione di colpi di Stato, chiama “una lotta per la sopravvivenza al livello più alto”[7]. La sopravvivenza significa aggiudicarsi quel patrimonio. Spesso implica che altri debbano morire.
La maledizione delle risorse non è un’esclusiva dell’Africa, ma colpisce al massimo della virulenza in un continente che è al tempo stesso il più povero del mondo, e, probabilmente, il più ricco.
L’Africa rappresenta il 13 per cento della popolazione mondiale e solo il 2 per cento del prodotto interno lordo cumulativo, ma è depositaria del 15 per cento delle riserve di petrolio greggio del pianeta, del 40 per cento dell’oro e dell’80 per cento del platino; ed è probabile che queste siano stime al ribasso, perché nel continente sono state fatte prospezioni meno capillari che negli altri[8]. In Africa si trovano le miniere di diamanti più ricche, oltre a depositi importanti di uranio, rame, minerale di ferro, bauxite (il minerale usato per produrre l’alluminio), e praticamente ogni altro frutto della geologia vulcanica. Secondo una stima, l’Africa contiene circa un terzo degli idrocarburi e delle risorse minerarie del mondo[9].
Gli stranieri spesso pensano che l’Africa sia un grande tubo di drenaggio per la filantropia, un continente che scialacqua aiuti senza costrutto e in cambio contribuisce in misura minima all’economia globale. Ma se si studia più da vicino l’industria delle materie prime, il rapporto tra l’Africa e il resto del mondo assume un aspetto molto diverso. Nel 2010 le esportazioni di combustibile e minerali dall’Africa valevano 333 miliardi di dollari, più di sette volte gli aiuti che viaggiavano nella direzione opposta (e questo prima di considerare le enormi somme sottratte al continente dalla corruzione e dalle frodi fiscali)[10]. Eppure la disparità tra la vita nei luoghi in cui queste risorse vengono estratte e i luoghi in cui vengono consumate ci offre un’indicazione sulle sedi in cui vengono rastrellati i benefici del settore petrolifero e minerario, e sul motivo per cui la maggior parte degli africani stenta a campare. Per una donna che muore di parto in Francia, ne muoiono cento nella nazione desertica del Niger, una fonte primaria dell’uranio che alimenta l’economia a energia nucleare della Francia. Il finlandese o sudcoreano medio può aspettarsi di vivere fino a ottant’anni, nutrito da economie le cui aziende di maggior valore sono, rispettivamente, Nokia e Samsung, i due maggiori produttori mondiali di telefoni cellulari. Di contro, se ti capita di nascere nella Repubblica Democratica del Congo, sede di alcuni dei depositi più ricchi del pianeta dei minerali essenziali per la produzione delle batterie dei telefonini, sarai fortunato se superi i cinquanta.
I carichi di petrolio e minerali africani vanno da un posto all’altro, soprattutto verso il Nordamerica, l’Europa, e, in misura sempre maggiore, la Cina, ma in linea di massima le risorse naturali del continente fluiscono verso un mercato globale i cui prezzi vengono fissati da operatori con base a Londra, New York e Hong Kong. Se il Sudafrica esporta meno oro, la Nigeria meno petrolio o il Congo meno rame, il prezzo sale per tutti. Le rotte commerciali si modificano: negli ultimi anni, per esempio, la produzione aumentata di gas da argille negli Stati Uniti ha ridotto l’importazione di petrolio nigeriano, e il greggio si dirige piuttosto verso l’Asia. Ma sulla base della proporzione della fornitura mondiale totale, se riempite quattordici volte il serbatoio della vostra auto, uno dei pieni sarà stato raffinato a partire dal greggio africano[11]. Allo stesso modo, in un telefonino su cinque c’è una scheggia di tantalio originaria degli aspri terreni del Congo orientale.
L’Africa non è solo sproporzionatamente ricca di risorse naturali, ma anche sproporzionatamente dipendente da esse. Il Fondo monetario internazionale definisce una nazione “ricca di risorse” – una nazione che rischia di soccombere alla maledizione delle risorse – come una che dipende dalle materie prime per più di un quarto delle sue esportazioni. Almeno venti paesi africani rientrano in questa categoria[12]. In Europa le risorse costituiscono l’11 per cento delle esportazioni, in Asia il 12 per cento, il Nordamerica il 15 per cento, in America Latina il 42 per cento, e in Africa il 66 per cento, poco più che nelle ex repubbliche sovietiche e poco meno che in Medio Oriente[13]. Il petrolio e il gas rappresentano il 97 per cento delle esportazioni della Nigeria e il 98 per cento di quelle dell’Angola, dove il resto è costituito dai diamanti[14]. Quando, nella seconda metà del 2014, i prezzi delle materie prime hanno cominciato a crollare, gli Stati ricchi di risorse dell’Africa si sono trovati a dover riconoscere questa dipendenza: il boom aveva portato a uno spreco di spese e prestiti, e la prospettiva di un crollo verticale nelle rendite provenienti dalle materie prime ha reso i bilanci della Nigeria, dell’Angola e di altri paesi decisamente precari.
La maledizione delle risorse non è soltanto un disgraziato fenomeno economico, il prodotto di qualche forza intangibile; piuttosto, quello che si verifica negli Stati africani ricchi di materie prime è un saccheggio sistematico. Come le sue vittime, anche i suoi beneficiari hanno nomi e cognomi. Il depredamento dell’Africa meridionale è cominciato nel XIX secolo, quando le spedizioni di pionieri, inviati imperiali, minatori, mercanti e mercenari si allontanavano dalla costa per inoltrarsi nell’entroterra: il loro appetito per le risorse minerarie era stimolato dai giacimenti di oro e diamanti attorno all’avamposto che avevano fondato a Johannesburg. Lungo la costa atlantica dell’Africa i mercanti stavano già salpando con schiavi, oro e olio di palma. Entro la metà del XX secolo, il petrolio greggio si riversava fuori dalla Nigeria. Quando i colonialisti europei se ne andarono e gli Stati africani conquistarono la sovranità, i colossi dell’industria delle materie prime conservarono i loro interessi. Nonostante tutti i progressi tecnologici che hanno definito l’esordio del nuovo millennio, e la crescente consapevolezza del danno che i combustibili fossili stanno arrecando al pianeta, le materie prime che in Africa abbondano restano ingredienti essenziali dell’economia globale.
I capitani delle industrie petrolifera e mineraria, che comprendono molte delle multinazionali più ricche, non amano considerarsi parte del problema. Alcuni si considerano piuttosto parte della soluzione. “Metà del prodotto interno lordo mondiale è sostenuto dalle materie prime”, ha detto nel 2013 Andrew Mackenzie, amministratore delegato della più grande società mineraria del mondo, la BHP Billiton, a una cena per cinquecento luminari del settore al campo da cricket di Lord’s/da cricket Lord’s a Londra. “Io invece direi: tutto il prodotto interno lordo”, ha continuato. “È questo il nobile scopo della nostra attività: sostenere la crescita economica che aiuta a sollevare milioni, se non miliardi di persone dalla povertà”[15].
Estrarre non significa per forza saccheggiare; ci sono minatori, petrolieri e intere aziende la cui etica e condotta contrastano con quella dei saccheggiatori. Molte delle centinaia di manager del settore, geologi e finanzieri che ho incontrato sono davvero convinti di servire una giusta causa, e molti di loro possono promuovere con buone ragioni la tesi che, senza i loro sforzi, le cose andrebbero molto peggio. Lo stesso vale per i politici e funzionari africani che si sforzano di sfruttare le risorse naturali per sottrarre i loro compatrioti all’indigenza. Eppure il meccanismo che sta saccheggiando l’Africa è più potente di tutti loro.
Questa macchina del saccheggio è stata modernizzata. Se un tempo erano i trattati firmati sotto la minaccia delle armi a espropriare agli abitanti dell’Africa terre, oro e diamanti, oggi ci sono eserciti di avvocati che rappresentano compagnie petrolifere e minerarie con introiti annuali nell’ordine delle centinaia di miliardi di dollari a imporre le loro avide condizioni ai governi africani e a usare la frode fiscale per estorcere profitti alle nazioni povere. Al posto dei vecchi imperi ci sono reti nascoste di multinazionali, intermediari e potentati. Queste reti fondono potere statale e aziendale. Non sono allineate a nessuna nazione, ma appartengono piuttosto alle élite transnazionali fiorite nell’era della globalizzazione. Al di sopra di tutto, servono il loro stesso arricchimento.
Questo articolo è stato pubblicato su Micro Mega il 6 agosto 2020