Cesare Romiti

di Loris Campetti /
19 Agosto 2020 /

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Se n’è andato alla rispettabilissima età di 97 anni Cesare Romiti, un secolo vissuto nel capitalismo italiano da protagonista. Diego Novelli, sindaco della Torino operaia, nell’’80 gli aveva affibbiato il soprannome di sgiafela leun, schiaffeggia leoni. Per Marco Revelli era “Romiti il leninista”. Un uomo duro, determinato e insieme curioso, voleva vincere (e come se aveva vinto, contro quell’esperienza straordinaria del movimento operaio che è stato il sindacato dei consigli di fabbrica) ma non gli interessava stravincere. Rispettava l’antagonista che combatteva a nome e per conto del padrone, anzi “il” padrone, Gianni Agnelli, anche quando l’antagonista si chiamava Claudio Sabattini, segretario della Fiom negli anni del più duro scontro di classe in Italia del secondo dopoguerra. Romiti era di quella generazione del capitalismo italiano che la lotta di classe voleva vincerla sul campo di battaglia in uno scontro diretto. Durante i 35 giorni del blocco della Fiat contro i licenziamenti di massa passava le notti a girare in incognita intorno a Mirafiori per guardare i picchetti operai, i falò ai cancelli, la resistenza, la creatività, le solidarietà e le debolezze dell’avversario (avversario, non nemico aveva il vezzo di ripetere). Scoperti i punti deboli di una storia consiliare lasciata sola dai sindacati confederali – fino alla sua definitiva consegna nelle mani del vincitore – era passato all’attacco con la marcia dei cosiddetti Quarantamila che segnò la fine di un’epoca. La controrivoluzione del capitale, dopo mezzo decennio in cui non solo i padroni ma anche larga parte della sinistra predicavano contro gli eccessi dell’organizzazione operaia, “hanno preso e preteso troppo”, è ora che restituiscano un po’ di conquiste e potere. Il segretario della Cgil Luciano Lama disse a Romiti, sotto lo sguardo incredulo di Pierre Carniti: “Scriva lei il testo dell’accordo”. Lo scrisse in modo impietoso, salvo poi rimproverare chi parlava di sconfitta sindacale. Ma sapeva che di quello si trattava: una sconfitta sul campo, una capitolazione sindacale.

Vinta la battaglia di Mirafiori Romiti tentò, con alterni e alla fine scarsissimi risultati, di cambiare la cultura di una Fiat ancora a cavallo tra i salesiani e l’arma dei carabinieri, “usi a obbedir tacendo e tacendo a perire”. Non era la fedeltà la virtù cardinale ma la qualità, per ottenere la quale serviva il coinvolgimento e la collaborazione delle maestranze (così le chiamava). Nell’89, nel meeting annuale dei dirigenti, arrivò a definire l’azienda che ha diretto e, più tardi, persino presieduto, “Triste, trainata, burocratizzata” e perciò perdente nei confronti dell’offensiva giapponese nella battaglia per sbancare il mercato mondiale dell’auto. il manifesto riuscì ad avere la videocassetta di quel meeting a Marentino e ne fece uno dei suoi non frequentissimi scoop che fece scalpore, terremotò i piani alti di corso Marconi – luogo mitico, o mistico? della direzione aziendale – alla ricerca forsennata quanto inutile della quinta colonna che consegnando la cassetta aveva fatto intelligenza con il nemico – ma non fece passare notti insonni a Romiti: l’immagine che usciva delle sue critiche alla cultura Fiat era quella che gli interessava mostrare all’interno e all’esterno dell’azienda. Non gli bastava avere il potere assoluto sulle braccia, voleva conquistare il cervello dei lavoratori. Sennò la qualità per competere con i giapponesi non sarebbe mai arrivata.

Il consenso, in qualche modo, lo trovò dopo lo smantellamento dell’organizzazione operaia. Ricordo un cartello alzato da un contadino lucano il giorno dell’inaugurazione del nuovo stabilimento di Melfi, nel tripudio di una città e di una regione che sognavano di trovare nello sbarco dei piemontesi l’emancipazione da antiche povertà e schiavitù. Nel cartello c’era scritto: “Romito salutateci Agnello”. Realista e concreto, forte del sostegno di quel deus ex machina del capitalismo italiano che rispondeva al nome di Enrico Cuccia, Romiti rimase in Fiat dal ’74 fino al ’98 e se ne andò con una tutt’altro che micragnosa buonuscita in lire corrispondente agli attuali 150 milioni di euro. Una volta, nel corso della presentazione di una joint venture con Pechino, mi avvicinò e con la sua consueta cortesia rimproverò il manifesto e soprattutto me con una sbalorditiva affermazione: “Ce l’avete con la Cina, siete troppo anticomunisti”. Lo incontrai alcune volte dopo la sua uscita dalla Fiat, sempre cortese, sempre attento alle vicende politiche e industriali italiane, sempre parco dei giudizi sul suo precedente datore di lavoro, e di potere. Lo intervistai anche il giorno della morte dell’avvocato Agnelli. “Non parlo di Fiat, non è un’azienda italiana”, aveva risposto a chi gli chiedeva, per l’ennesima volta, un giudizio su Sergio Marchionne. Ma tutti sapevano, e in qualche occasione ebbe modo di dircelo apertamente sia pure soppesando parole e critiche, che quello di Marchionne non era certo il suo modello di comando. Lui la radicalità operaia l’aveva sconfitta sul campo, Marchione l’americano le aveva cancellato agibilità e rappresentanza. Sul modello americano, appunto.

Che la terra gli sia lieve.

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