Molti istituti e centri di ricerca denunciano come la pandemia che sta sconvolgendo tutto il sistema di relazioni nei e tra i paesi stia provocando la più grave crisi economico-sociale dalla seconda guerra mondiale. La nostra Coldiretti stima che in autunno potrebbero essere quattro milioni gli italiani (e stranieri presenti sul nostro territorio) ad aver letteralmente bisogno di sfamarsi.
In più il 38% degli italiani, cioè circa 24 milioni di cittadini, ha risorse residue per resistere tre mesi, poi non avrà più soldi per pagare spese essenziali come cibo e riscaldamento, mentre il 40%, denuncia Banca d’Italia, avrà problemi a continuare a pagare il mutuo o l’affitto di casa.
Anche in Europa le previsioni sono tutt’altro che rosee: la fascia di popolazione marginale stimata prima del Covid, il cosiddetto indice di deprivazione materiale al 5,6% (e scusate se è poco), balza al 12-15% con punte maggiori nei paesi più deboli: Bulgaria (19,9%) e Grecia (15,9%).
E’ una situazione che potrebbe diventare esplosiva e se ciò in Italia non è avvenuto finora è sostanzialmente perché il lockdown in una certa misura ha “livellato” le situazioni e i comportamenti: tutti chiusi in casa, ferme quasi tutte le attività, tranne quelle essenziali. Hanno funzionato abbastanza le risposte d’emergenza: bonus spesa, cassa integrazione in deroga (quando è arrivata, purtroppo non sempre e non ugualmente dappertutto) centri di soccorso, Chiese, Caritas, cucine popolari, iniziative di gruppi spontanei, soprattutto di giovani.
Ora che invece l’epidemia, in parte e temporaneamente sta dando tregua (ma non così in altri posti del mondo ed anche in Europa), ora che si sta riattivando il circuito dell’economia, si cominciano a vedere gli enormi danni che questo flagello ha prodotto.
Tanti negozi restano chiusi, attività artigiane, piccole economie collegate al commercio e ai consumi, attività di servizio alle imprese sono sottoposte a una decurtazione di fatturato a volte letale, tale cioè che non si riesce a riprendere, perché qualunque attività economica ha bisogno di mezzi per attivarsi, siano essi clienti o fornitori o banche che erogano anticipazioni, sappiamo quanto è stato difficile far giungere veramente anche i prestiti garantiti di 25mila euro che il governo ha stanziato fin da marzo.
Oltre poi alle risorse materiali, quel che manca o può mancare è anche la forza morale per riprendere delle attività che magari si fondano già su grosso sforzo personale: la fiducia nel futuro è una molla molto importante per superare le difficoltà, se manca è veramente dura.
Mentre svolgiamo queste considerazioni, non possiamo altresì tralasciare di rilevare quanto pesi sulla nostra economia il fattore del cosiddetto “sommerso”, che è tutt’uno con la diffusa evasione fiscale e contributiva. L’Italia resta il paese d’Europa con la più elevata pressione fiscale e contemporaneamente quello con la maggiore evasione che poi dà luogo a una forte diffusione del lavoro nero.
Non è secondario ai fini di un calcolo esatto dei fenomeni d’impoverimento poter conoscere la reale incidenza del lavoro non regolare. Forse se potessimo apprenderlo e conteggiarlo, scopriremmo che non tutto ciò che appare è veramente tale. Ci sono ampie zone in particolare al Sud ma non solo, anzi in alcune aree del Nord è addirittura più forte: il fenomeno dell’evasione è diffuso oltre ogni limite. Alla fine dei conti si calcola in circa cento miliardi annui.
Ovviamente occorre distinguere tra diversi tipi di evasione ed elusione: un conto è stabilire, senza una ragione produttiva, sedi fiscali in paesi con tassazioni più convenienti, creare in paradisi fiscali società anonime collegate a infinite scatole vuote, usare in modo illegale le transazioni internazionali, provocare bancarotte fraudolente, tutti reati commessi da società e gruppi in doppiopetto.
Altro è l’evasione cosiddetta “minore” dei commercianti al minuto, di chi esegue lavori artigiani completamente a nero, di professionisti che hanno l’allergia a rilasciare la ricevuta fiscale per la visita e la consulenza, poi quelli che con artifici ignobili sottraggono dalle buste paga dei propri dipendenti parte del salario che è formalmente registrato. Alla fine non si sa quali pesino di più, ma sicuramente stiamo parlando di una cifra che rappresenta un quarto del Pil nazionale annuo, in altre parole 4-500 miliardi di euro di economia nascosta.
Ecco, la lotta alla povertà vecchia e nuova a parer mio non potrà dare risultati concreti se non anche contrastando e riducendo quella quota così rilevante di economia sommersa e di evasione fiscale, perché ciò servirà a irrobustire il sistema e rendere anche il paese più giusto, alla fine anche a diminuirla la pressione fiscale.
Fintanto che proseguirà questo Stato del laissez faire, e che tutti gli organi preposti al controllo di legalità e quelli preposti alla formazione di una coscienza collettiva non faranno il proprio dovere efficacemente, resterà un Paese di serie B.
Penso in estrema sintesi che un programma serio per combattere l’impoverimento crescente debba basarsi su tre tipi di azioni:
1) implementare l’assistenza anche domiciliare a chi ha bisogno di sostenersi e di curarsi;
2) contrastare tutte le forme di precariato facendo emergere il lavoro nero;
3) implementare lo sviluppo di forme diffuse di economia locale circolare, anche attraverso l’autogestione, la cooperazione e l’associazionismo tra piccoli operatori economici, al fine di far crescere la forza e la qualità imprenditoriale.
Questo articolo è stato pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 27 luglio 2020