Il 5 luglio del 2016 a Fermo un cittadino nigeriano venne ucciso per strada da un uomo legato ad ambienti di estrema destra. Ciò che è avvenuto in questi 4 anni è lo specchio del razzismo nel nostro paese
Il 5 luglio 2016, esattamente quattro anni fa, un cittadino nigeriano trentaseienne di nome Emmanuel Chidi Namdi, migrante in attesa del permesso di soggiorno e ospitato presso la Comunità di Capodarco di Fermo, finisce in coma. Un fermano legato agli ambienti dell’estrema destra locale (curva dello stadio compresa), rivolge insulti di natura razzista alla moglie del coetaneo migrante, il quale reagisce: ne nasce una colluttazione. Emmanuel muore il giorno seguente. Le vicende mediatiche che si scatenano in seguito, rendono il fatto ancora più agghiacciante. Una fetta della popolazione della città di Fermo – componenti di quella che Renzo De Felice, e dopo di lui Alessandro Leogrande (proprio nel raccontare questa vicenda), chiamarono «zona grigia» – pur garantendo la propria indole non razzista, si chiuse a riccio attorno al figlio della propria terra, arrivando in sostanza a declassare questo episodio, banalizzandolo e giustificando la colluttazione con argomenti che spesso sentiamo nei media mainstream. Al sindaco di Fermo, Paolo Calcinaro, bastano pochi giorni per sostenere che sia Emmanuel che il suo omicida Amedeo Mancini fossero entrambi delle vittime. «È un figlio nostro, quello», è la frase riecheggiata in troppe vie della città.
Nel corso delle indagini, escono poi testimonianze improbabili. Le perizie stabilirono che Emmanuel non fosse mai entrato in contatto – né brandendolo, né venendone colpito – con un palo metallico della segnaletica stradale (che secondo alcuni sarebbe stato utilizzato come arma), ma vennero travisate a più riprese dai giornali locali. Si parlò addirittura di affiliazione alla Mafia nigeriana. Notizia smentita a stretto giro, ma tanto bastò a concentrare ancor di più l’attenzione mediatica sulla provincia fermana, e a fomentare la reazione sdegnata, o la parallela ostentata reticenza, di una parte della cittadinanza. Addirittura, nonostante il procedimento riguardante l’assassino di Emmanuel si sia chiuso nel gennaio 2017 con un patteggiamento e una pena di 4 anni per omicidio preterintenzionale con aggravante razzista, determinate testate locali hanno continuato a dare versioni differenti della vicenda, parlando persino di assoluzione.
Anche Chimiary, la vedova di Emmanuel, ha subito lo stesso trattamento, ed è stata presto dimenticata. A seguito della vicenda, una petizione su change.org raccolse oltre 25mile firme per chiedere che le venisse concessa la cittadinanza italiana. Nel novembre 2016, la giunta regionale si prodigò per assegnarle il Picchio d’Oro, la massima onorificenza marchigiana. Alla fine non se ne fece nulla, per un «errore amministrativo», fu specificato. Oggi Chimiary non è più a Fermo. Di lei, in città, si sono perse le tracce. Chi ne ha seguito le vicende più da vicino, dice che fu trasferita in un nuovo Sprar (Servizio per richiedenti asilo e rifugiati), in Abruzzo. Lei, che nella fuga dall’organizzazione terroristica nigeriana Boko Haram (che ne aveva ucciso i genitori, e quelli di Emmanuel) aveva perso il figlio che aveva in grembo, e che qui, dove aveva cercato riparo, ha perso il marito e ha sentito su di sé gli occhi indagatori e giudicanti di un’intera città, è una vittima anche della reazione della nostra società a quell’omicidio.
La vicenda del 5 luglio non è stata un fatto isolato nella stessa cittadina marchigiana, ma l’epilogo di una serie di episodi inquietanti, dalle scritte razziste sui muri della mensa della Caritas, all’imprenditore che uccise con due colpi di fucile alla schiena due lavoratori kosovari che erano andati a richiedere uno stipendio che da mesi non arrivava. Vi era poi stata un’aggressione contro due ragazzi eritrei sempre a opera di persone dell’ambiente degli ultras della Fermana. In ultimo c’era stata la vicenda delle bombe piazzate davanti alle chiese di sacerdoti impegnati nell’accoglienza. E anche di fronte a questi fatti la reazione della città era stata, in buona parte, nulla.
A squarciare nuovamente il velo di maya e a stravolgere la realtà della provincia – marchigiana e nazionale – arrivarono poi i fatti del 3 febbraio 2018 a Macerata, quando si verificò il vero e proprio attentato terroristico di Luca Traini. A tale avvenimento seguì la grande manifestazione antifascista del 10 febbraio, ma anche Macerata reagì in maniera simile a quella della vicina provincia. La narrazione della città era intrisa di benaltrismo: chi minimizzava l’accaduto, chi tentava di contestualizzarlo, chi addirittura solidarizzava con l’attentatore. Carancini, sindaco della città, chiese perfino che non si tenesse la manifestazione antifascista.
Sarà per il mito incrollabile degli «italiani brava gente», sarà per un’indole democristiana che pervade da sempre ogni ganglio della nostra società, ma in Italia i conti col nostro passato (fascista e coloniale) e col presente della nostra nazione, riusciamo sempre a non farli.
In Italia, il tema migratorio è sempre stato di attualità, essendo il nostro paese terra di confine e contaminazione. Dagli anni Settanta in poi, i mass media hanno sviluppato un registro comunicativo attraverso cui narrare tale fenomeno che non si è mai evoluto nel tempo. Secondo i dati raccolti dalla Ricerca nazionale su immigrazione e asilo nei media italianirealizzata dal team di ricerca del Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza Università di Roma, svolta analizzando le maggiori testate di informazione italiana nei primi sei mesi del 2008, «sul totale di 5.684 servizi di telegiornale andati in onda nel periodo di rilevazione, solo 26 servizi affrontano l’immigrazione senza legarla, al contempo, a un fatto di cronaca o al tema della sicurezza. In pratica, solo in questi servizi si affrontano tutte le altre possibili dimensioni (economia, confronto culturale, integrazione, solidarietà sociale ecc.) con cui potrebbe essere declinata l’immagine del fenomeno migratorio». Da allora la situazione non è certo andata migliorando, come spiegano Marco Binotto, Marco Bruno e Valeria Lai nel volume del 2016 Tracciare confini, il fenomeno migratorio è catalogato esclusivamente come un problema da risolvere, i fatti di cronaca sono l’elemento dominante riducendo la complessità della realtà migratoria alla sua eventualità criminale. Alimentando così sentimenti di paura e indignazione nei confronti degli immigrati.
Tutto ciò ha contribuito a dar vita a un immaginario collettivo che puntualmente riaffiora in particolari momenti di crisi economica e sociale. Il forte valore politico-elettorale legato a questo fenomeno, e la mancanza di volontà nel definire correttamente i termini della questione, hanno costruito un discorso pubblico sull’immigrazione che ha già fatto danni ingenti – lo abbiamo visto nel caso di Emmanuel come nella criminalizzazione mediatica delle Ong – e che rischia di distruggere il tessuto sociale multietnico e multiculturale che è sempre stato presente nel nostro paese.
Fortunatamente, proprio a seguito dell’uccisione di Emmanuel, nel nostro territorio sono nate delle realtà associative che vanno nella direzione opposta. A Fermo diverse organizzazioni oggi affinacano la rete Sprar e la Comunità di Capodarco guidata da Don Vinicio Albanesi, che da sempre presidiano la tematica. Casacomune, il comitato studentesco Noisette e il Comitato 5 luglio, attraverso le proprie iniziative (come la scuola di italiano per stranieri), continuano a portare avanti un lavoro importante per aiutare gli ospiti delle varie realtà e mostrano concretamente il modo in cui si possono superare le diffidenze. Spetta a noi stessi prendere coscienza della realtà circostante e attivarci, tentare di cambiare un sistema costruito sulla strategia, sempre verde, del dividi et impera, altrimenti, altro non saremo che complici.
Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin Italia il 5 luglio 2020