Un movimento nell’avamposto della globalizzazione

7 Luglio 2020 /

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di Davide Marodin, Emiliano Zanelli

Un attivista di Hong Kong descrive le lotte sociali sorte in una delle punte di diamante del capitale globale. Una storia che va letta oltre la riduttiva dimensione geopolitica.

Questa intervista nasce in occasione dell’applicazione della Security Law, voluta dal governo cinese per tentare di avere ragione del movimento che ha attraversato Hong Kong per un anno, a partire dalla primavera del 2019. Ci eravamo inizialmente rivolti a Ralf Ruckus, mediatore e interprete tra i più attivi delle lotte sociali e politiche della Cina meridionale per il pubblico europeo. Le domande che gli abbiamo posto sono state a loro volta discusse con un attivista di Hong Kong che ha preferito rimanere anonimo e presentarsi così: «Sono un attivista coinvolto nei movimenti sociali di Hong Kong da diversi anni, e fin dall’inizio nel movimento attuale, con una posizione di sinistra e una visione critica di alcune delle forme e degli obiettivi del movimento».

L’ondata di proteste che ha avuto luogo tra il 2019 e oggi – prima, durante e dopo la pandemia – non è che l’ultima, e maggiore, di quelle sollevate dagli abitanti di Hong Kong negli ultimi due decenni. La scintilla è stata il tentativo di introdurre una legge per agevolare l’estradizione di «criminali» da Hong Kong alla Cina continentale: ciò ha spinto milioni di persone a partecipare alle grosse manifestazioni dell’estate scorsa, in proporzioni inedite per la storia dei movimenti del Porto Profumato; la violenta repressione che le ha colpite ha contribuito alla radicalizzazione e all’estensione del movimento, che oggi presenta numerose anime e orientamenti e si trova di fronte a un passaggio decisivo del suo percorso. Nell’ultimo mese, infatti, gli Stati uniti – che avevano costituito un ambiguo punto di riferimento per alcune frange del movimento – hanno ritirato lo statuto speciale di Hong Kong, considerando la città ormai parte della Cina a tutti gli effetti in virtù delle conseguenze della Security Law e della volontà cinese di accelerare il processo di annessione che dovrebbe giungere a termine nel 2047. Ma il movimento di Hong Kong non può essere letto solo all’interno del conflitto tra Cina e Usa. Una volta sottratto a una visione strettamente geopolitica, anzi, rivela tutta la complessità, le faglie e le contraddizioni che lo animano, a partire dal fatto che un avamposto del capitalismo globale è allo stesso tempo il teatro di lotte sociali tra le più radicali sorte negli ultimi anni. È anche per la nitidezza di questo contrasto, forse, che l’eco di quanto accadeva a Hong Kong nella seconda metà del 2019 ha trovato orecchie attente pressoché in ogni parte del mondo in cui nello stesso periodo si sono viste sollevazioni e rivolte: dal Cile alla Francia, dal Libano all’Iraq – altrettanti tentativi di dare forma a quella revolution of our time evocata dai manifestanti nelle strade di Hong Kong.

Il governo statunitense ha recentemente ordinato la rimozione dello statuto speciale di Hong Kong, a causa della nuova security law voluta da Pechino. Come ha reagito il movimento a questo annuncio? C’è stata una radicalizzazione tra i manifestanti? Qual è adesso lo spazio per chi ha posizioni pro-americane?

Sul piano locale le risposte alla decisione del governo Usa sono state varie. Ci sono alcuni che hanno salutato positivamente questa decisione, con lo slogan «se bruciamo, brucerete con noi». La distruzione reciproca è presa in considerazione, dato che la gente crede che se lo statuto speciale di Hong Kong – che permette alla Cina di evadere le tariffe doganali – non sarà mantenuto, se verranno vietati l’import nel settore high-tech e la possibilità di ricevere investimenti di capitali stranieri, il governo cinese dovrà fare fronte anche a una crisi economica e politica. Questa idea scaturisce anche dalla frustrazione dovuta al fatto che il movimento di protesta l’anno scorso non è stato in grado di mettere sotto pressione i governi di Cina e Hong Kong, e ora non può che vedere un intensificarsi della repressione (arresti, persecuzione dei manifestanti, la ristrutturazione delle attuali istituzioni di governo per «richiedere» una lealtà più forte allo stato cinese, l’educazione nazionale e le nuove unità delle forze di polizia). La gente si aspetta che solo gli altri stati possano alterare il corso degli eventi, con sanzioni ecc. In ogni caso alcuni temono per le prospettive economiche di Hong Kong – il che si riflette in alcune risposte dell’area liberale dei Pan-Democratici – e vorrebbero evitare di incorrere in sanzioni. Le posizioni pro-americane (ed esplicitamente pro-destra) ci sono sempre state, ma rappresentano solo fazioni minori del movimento. In generale penso che solo un piccolo gruppo di manifestanti di sinistra abbia sviluppato una solidarietà più larga nei confronti di altri movimenti di protesta: i manifestanti politicizzatisi più recentemente hanno una comprensione della geopolitica molto ristretta. Quindi la mossa del governo Usa è ben recepita a Hong Kong, anche se chi la supporta non è necessariamente pro-Trump.

Alcuni membri del governo cinese hanno cominciato a parlare di una nuova «guerra fredda» che vedrebbe la Cina e gli Usa sui due lati opposti. Più che come una reale minaccia, potremmo vederla come un tentativo di rimodellare i conflitti sociali interni tanto alla Cina quanto agli Usa nella forma di un’opposizione geopolitica esterna?

Da parte del governo cinese, la lotta di Hong Kong viene dipinta come una minaccia alla sicurezza nazionale – o ritraendo il movimento di Hong Kong come l’opera di infiltrati stranieri (argomento ripreso da un recente documentario di propaganda della TV nazionale cinese) o direttamente come un movimento di indipendenza. La mia sensazione è che lo stato cinese provi a prevenire un potenziale supporto al movimento di Hong Kong proveniente dalla Cina continentale. Ancora all’inizio delle proteste, in Cina c’è stato un blocco dell’informazione. Lo stato è poi passato a una retorica anti-violenza e in seguito anti-indipendenza e anti-intervento straniero. Quindi sembra esserci un graduale spostamento della politica ufficiale verso un controllo del flusso di informazioni che riguardano il movimento.

Nel corso dell’anno passato abbiamo visto come l’«identità hongkonghese» sia stata rimodellata dalla lotta politica, da processi radicali di autorganizzazione e da una violenta repressione. Cosa significa ora questa identità per il movimento? Nei confronti delle lotte progressiste della città, essa rappresenta un limite, o pone un confine?

Possiamo datare la discussione sull’identità hongkonghese» come un punto fermo di mobilitazione nei confronti di una identità nazionale cinese, frutto della combinazione di sviluppo economico senza diritti politici, al movimento degli anni 2000 contro gli sgomberi e contro lo sviluppo sfrenato. L’identità «locale» di Hong Kong venne costruita più o meno dentro una cornice politica orientata a sinistra che prova sfidare il tentativo del sistema capitalista globale o nazionale di spossessare lo spazio urbano. Le cose sono piuttosto cambiate negli anni Dieci, quando è diventata molto più visibile un’articolazione destrorsa dell’identità di Hong Kong», specialmente se posta in relazione con la discussione del controllo dei confini – «meno turisti e migranti dalla Cina» – e anche con la crescente influenza del governo cinese e del business cinese a Hong Kong. La domanda su ciò che può essere definito come parte di una «identità hongkonghese» è diventata un terreno contestato fin dalla nascita del movimento. Non c’è alcun dubbio sul fatto che l’identificazione collettiva degli abitanti di Hong Kong abbia costituito la forza che ha reso possibile la mobilitazione di massa vista durante il movimento. Diversi gruppi marginalizzati, come i migranti dalla Cina e da nazioni dell’Asia meridionale (ad esempio i lavoratori domestici di origine straniera), hanno lottato attivamente per avere spazio dentro l’«essere hongkonghesi», mostrando di supportare il movimento e di prendervi parte. Con la maggiore repressione messa in campo dal governo cinese e da quello di Hong Kong, e con una generale insoddisfazione nei confronti dello stato, il grido di autodeterminazione nei termini di una «nazione» e anche la ricerca dell’indipendenza» dallo stato-nazione cinese sta diventando più forte. Il movimento indipendentista è stato apparentemente marginalizzato o ha giocato un ruolo piuttosto piccolo all’inizio del movimento. Accanto a questo, nel movimento continua a essere presente una politica anti-cinese e anti-migranti, così come a Hong Kong in generale.

Qual è il ruolo della storia coloniale di Hong Kong dentro il movimento? Quando guardiamo a Hong Kong, ha senso usare concetti tradizionali come quelli di imperialismo, decolonizzazione, indipendenza?

Se guardiamo alla soluzione del modello «un paese, due sistemi» e alla Basic Law, queste hanno congelato l’efficiente infrastruttura coloniale di Hong Kong, che consente al capitalismo globale di fiorire nella città e che il governo del Partito comunista cinese continua a utilizzare: la divisione del potere con i capitalisti e con le classi professionali tramite il sistema di elezioni parziali, un potere centralizzato per il governo, tasse basse e deregulation per i ricchi, pochi investimenti pubblici – fatta eccezione per un programma di alloggi pubblici e servizi medici che sono sotto  minaccia di una privatizzazione – e una relativa libertà, se comparata alla Cina. Allo stesso tempo, quando la Basic Law è stata redatta nei primi anni Ottanta c’era la diffusa convinzione che lo spazio politico cinese si sarebbe «aperto» in seguito alla liberalizzazione economica. Nel movimento ci sono voci che criticano la Basic law e il modello «un paese, due sistemi» poiché vengono visti come un accordo tra il governo cinese e quello britannico, senza rappresentanza del popolo di Hong Kong, e come uno strumento per rafforzare le disuguaglianze sociali ed economiche che esistono nella città. Mentre allo stato attuale la domanda per un ritorno al governo coloniale è ancora molto marginale, è vero che nell’opinione pubblica c’è stata nostalgia nei confronti della golden age di Hong Kong durante l’epoca coloniale tra gli anni Settanta e gli anni Novanta, che vide un rapido sviluppo economico e una crescita degli investimenti pubblici negli alloggi, nel sistema sanitario e in altri programmi di welfare. Quindi l’eredità di quel periodo eccezionale, l’era coloniale, è diventata un punto di riferimento per le persone, adesso che lamentano una crescita del costo della vita, degli alloggi, e una diminuzione dell’importanza di Hong Kong come centro del capitalismo globale.

Il mercato immobiliare di Hong Kong è in una situazione disperata, i grandi capitali sono a stento tassati, la diseguaglianza economica è alta e anzi sta diventando sempre maggiore. Quanto è stato grande il ruolo giocato dalle diseguaglianze sociali nell’ondata di lotte di quest’anno? Possiamo vedere la lotta «anti-cinese» degli abitanti di Hong Kong anche come una lotta contro l’upper class di Hong Kong? 

Penso che ci sia una diffusa insoddisfazione rispetto alla polarizzazione economica e alle diseguaglianze di Hong Kong. Ma penso che la scelta di non considerare queste istanze nelle rivendicazioni più importanti del movimento sia stata deliberata. Da un lato ciò è dovuto al fatto che il governo, nel mezzo delle proteste dell’anno scorso, ha sostenuto che il movimento era il risultato di un «profondo problema strutturale». Le cosiddette politiche di aggiustamento proposte dal governo l’anno scorso non hanno cambiato nessuna di quelle strutture economiche e politiche che hanno portato alla diseguaglianza. E in risposta a queste argomentazioni, molti manifestanti hanno scelto di focalizzarsi su «rivendicazioni politiche», cioè che riguardassero il suffragio universale e la riforma del sistema politico di rappresentanza. Dall’altro lato, ciò dipende dal fatto che i militanti di sinistra sono stati pesantemente attaccati negli anni precedenti, a partire dal 2012. Il principio di non dividere il movimento ha in parte significato che alcune rivendicazioni sono state poste in termini vaghi, così da includere persone di diverse posizioni politiche. Penso che la upper class di Hong Kong si sia allineata al governo cinese – e quella di mantenere un’alleanza con l’upper class di Hong Kong è stata anche una scelta del governo cinese.

Spesso sembra che focalizzarsi sull’identità politica di Hong Kong impedisca di discutere questioni sociali ed economiche come il welfare, gli alloggi, le condizioni di lavoro e di vita. Qual è secondo te il legame tra queste differenti istanze? E che punti di vista troviamo tra i manifestanti?

Nel movimento esistono posizioni diverse. I liberali rappresentati da partiti politici come il Democratic Party e il Civic Party hanno supportato le politiche condotte in merito a queste questioni economiche e sociali, oppure non stati del tutto critici al riguardo. Loro sarebbero per preservare la «Hong Kong way of life» e il ruolo di Hong Kong nel capitalismo globale, e vedono l’ultima mossa del governo cinese e il giro di vite della repressione come una minaccia alla libertà di Hong Kong e forse anche al suo potenziale economico. Ci sono anche manifestanti che condividono prospettive simili. Organizzazioni come Demosisto o politici come Chu Hoi-dick sostengono che la partecipazione politica di larga scala e la democratizzazione – cioè ottenere una democrazia rappresentativa – permetteranno cambiamenti nell’attuale struttura economica, perché l’attuale status quo non può essere cambiato senza cambiamenti della struttura politica (il Legislative Council, che è controllato dall’élite pro-Pechino e che favorisce pesantemente i ricchi). Tra i localisti possiamo trovare una retorica anti-migranti: ritengono che i problemi sociali ed economici siano il risultato del crescente numero di migranti provenienti dalla Cina. Hanno visioni differenti riguardo a chi possa essere definito o considerato e accettato come un «hongkonghese» – dalle visioni più culturali e identitarie che sostengono che solo coloro che condividono un retroterra culturale comune, e anche il luogo di nascita, possono essere accettati, fino a coloro che fanno riferimento alla teoria del nazionalismo civico. Nonostante le differenze, l’identità emergente di Hong Kong è un forte fattore di mobilitazione per questi differenti campi politici, che i nemici siano i ricchi, il Partito Comunista Cinese, il governo di Hong Kong o i migranti. È interessante che forme di lotta diverse dalle proteste di piazza, come gli scioperi e l’attivismo sindacale, abbiamo cominciato a emergere insieme al movimento. Alcuni sindacati costituitisi recentemente si vedono non solo come un mezzo per organizzare lavoratori e lavoratrici nel movimento anti-estradizione, ma hanno anche iniziato a prendere in considerazione le istanze che i lavoratori e le lavoratrici si trovano a fronteggiare nel loro settore – fino a questo momento il sindacato di chi lavora nei media è stato uno dei più forti. Last but not least, ci sono anche posizioni di sinistra, marginali, che sono critiche sia nei confronti dell’ordinamento economico e sociale, sia della democrazia rappresentativa.

Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin Italia il 4 luglio 2020

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