Ignacio Taibo II: letteratura di impegno e genere

28 Giugno 2020 /

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di Barbara Garlaschelli

Per parlare di letteratura di genere e impegno sociale ho voluto prendere come punto di riferimento uno degli autori che non solo amo di più ma che ho avuto la fortuna di incontrare qualche volta, soprattutto quando passava alla Libreria del Giallo di Milano, dove non si limitava a presentare i suoi libri, ma con la proprietaria della Sherlockiana (così era nota la Libreria), Tecla Dozio, trascorreva con noi, amici e lettori, molte ore chiacchierando di tutto: Paco Ignacio Taibo II. Negli anni credo di aver letto ogni suo libro tradotto in italiano, da quelli pubblicati da Luigi Bernardi (sulla cui figura vorrei tornare prossimamente) per Granata Press, in avanti.

La cosa che mi ha sempre colpita di Taibo II, autore di chiara fama internazionale, eclettico nella scrittura, conoscitore della Storia, uomo coltissimo, è stata la semplicità con la quale si è rapportato con chiunque, soprattutto con i suoi lettori. Questo modo di essere non è solo un fattore caratteriale ma deriva anche dalla sua formazione sociale, politica, culturale.

Di origine spagnola, fu costretto ad abbandonare la terra d’origine durante la dittatura di Franco per rifugiarsi a Città del Messico.

Ha iniziato a scrivere un racconto nel 1974 a 25 anni, pubblicato l’anno dopo. E da lì non ha più smesso, passando dalla narrativa noir, a libri di storia, a raccolte di racconti.

Affiancata alla passione per la narrativa, c’è sempre stata l’esigenza di indagare la Storia con la esse maiuscola e collocare le sue, di storie, all’interno di questo “contenitore” più grande e complesso. Come lui stesso ha dichiarato più volte, è probabile che questa passione sia legata all’ambito familiare, dal momento che suo padre Paco Ignacio Taibo I e il bisnonno, Ignacio Lavilla, erano scrittori, giornalisti e storici.

In gioventù, per molti anni, vive la politica come militanza, come impegno “fisico”, quotidiano che, dopo avergli spremuto molte energie e regalato grandi delusioni, lo spinge ad avvicinarsi alla scrittura, alla quale dedicherà tutto il tempo possibile. Scrivere resta il suo modo per partecipare nel mondo anche da un punto di vista politico e sociale e potersi occupare con la ricerca anche storica dei temi che lo hanno appassionato negli anni giovanili – giustizia sociale, rapporto con il Potere  – tanto più che negli anni Settanta ha fatto lavori che lo hanno tenuto in un contatto profondo con la realtà, essendo stato sindacalista e giornalista per la radio e la televisione.

Ricordo che una volta, durante uno degli incontri alla Sherlockiana, negli anni Novanta (durante i quali, giovane esordiente nel mondo della letteratura e nello specifico in quella noir, quando mi capitava di incontrare quelli che ritenevo giganti, prendevo appunti come un’alunna diligente), affermò che la letteratura era un modo per fare politica e che per lui non avrebbe potuto essere diverso. Un modo che sceglie altri mezzi e strategie “più libere e creative” rispetto alla militanza sindacale ma che ha lo stesso valore e forse una capacità più profonda di arrivare alla gente. Storie che non devono essere concepite come un insieme di dogmi da trasmettere. “La letteratura”, disse (e credo lo abbia rilasciato in varie interviste), “è un messaggio che vola nell’aria e si posa accanto all’orecchio di qualcuno raccontandogli una storia.” Il racconto che arriva al lettore però subisce sempre una trasformazione sia in chi legge sia in chi scrive. Perché la narrativa, come sosteneva Oreste Del Buono, “è sempre scelta, e tutte le volte che si sceglie si rinuncia all’imparzialità”. Le parole non sono mai neutre; sono un atto di responsabilità. Sono decidere da che parte stare anche nella narrazione.

Il processo di trasformazione indotto dalla scrittura di Taibo II, e di molti altri autori molto legati al sociale e con un passato – e un presente – politico importante, non è quello di trasmettere “messaggi” ma di essere in grado, proprio attraverso la storia che narrano, di provocare nel lettore una riflessione, un pensiero, un’occasione per guardare il mondo da un punto di vista dal quale, magari, non lo si aveva mai osservato prima. Ed è un modo di far nascere dubbi che possano mettere in moto la curiosità, la voglia di capire ciò che ci circonda, le relazioni, le emozioni e le dinamiche che ci muovono.

Divertire e inquietare il lettore, questi sono i desideri di Taibo II e della maggior parte degli autori che hanno scelto o si sono ritrovati a scrivere letteratura di genere. Divertire e inquietare rappresentano i punti fondamentali attorno a cui ruota la loro espressività creativa e la volontà di raccontare la cronaca, la realtà nella quale siamo immersi. “La letteratura di genere porta a sporcarti le mani”, ha ripetuto più volte Carlo Lucarelli, noto non solo per i suoi libri ma forse ancora di più per le sue trasmissioni televisive dal taglio decisamente narrativo che si occupano, per la maggior parte, di indagini investigative tra i di fatti più spinosi della cronaca del nostro Paese. Delitti risolti e irrisolti; delitti legati alla politica o al quotidiano.

Perché la realtà – e lo vediamo ogni giorno – se vuole essere raccontata richiede un’indagine che non ti può lasciare lindo e puro. Non puoi raccontare una storia che ha a che fare con un’esecuzione mafiosa senza che lo sporco ti rimanga addosso; oppure delle violenze subite dalle donne ogni giorno nel mondo, e che spesso sfociano in omicidi, rimanendo neutrale e con la coscienza non scossa.

Mescolare le parole ai fatti, cercare non solo di rispondere alle domande “Chi?” “Come?” ma anche a “Perché?”. Molto spesso il perché è legato alle radici della cultura, a una deformazione della visione di ciò che rappresentano i rapporti umani e sociali.

Ricordo che quando si discuteva di impegno sociale e narrativa di genere, per molti anni accusata di essere solo narrativa “mordi e fuggi”, anzi che non rientrava neanche nel tempio della letteratura, Taibo II sosteneva che il giallo, il noir – e vorrei aggiungere anche la fantascienza – rappresentavano uno dei modi migliori per fare letteratura perché permettevano, e lo fanno tutt’ora, di svelare la parte oscura della società, sia che si tratti di indagare in una storia quotidiana che sezionare un avvenimento che coinvolge un intero Paese o il mondo.

La letteratura di genere infrange i tabù della violenza, mettendo in discussione l’ordine; il “bene”; le abitudini tradizionali; le convinzioni radicate in una società – per esempio che la famiglia sia il luogo della serenità e della sicurezza, per citarne una. Con la sua cruda analisi dei fatti rivela le profonde contraddizioni che regnano nelle relazioni umane, nella società stessa. Porta disordine là dove prima vigeva l’ordine; mostra ciò che spesso non vogliamo vedere, ossia che ciò che è bene e ciò che è male molto spesso non hanno nulla a che vedere con la verità e la giustizia, e che la linea che li separa è molto più sottile e fragile di quanto ci piaccia illuderci.

Ecco, forse in un certo senso la letteratura di genere infrange le illusioni.

Le parole che ho ascoltato e letto di Paco Ignacio Taibo II, rispetto a ciò che è la narrazione poliziesca, equivalgono a quelle che gli autori di tutto il mondo e di tutti i generi sostengono: un buon romanzo è un buon romanzo. Ciò non dipende dalla definizione che gli si vuole assegnare ma dal modo in cui un libro è scritto e da ciò che racconta.

In modo provocatorio, ma non poi tanto, Taibo II diceva: “Delitto e castigo è un buon romanzo? È un poliziesco? Secondo me sì, per altri invece no.” È così importante porre un’etichetta? (Se non si è un editore). No, secondo lui non lo è. E non lo è secondo moltissimi autori, stranieri e non.

Perché come sostiene Paul Auster: “I libri nascono dall’ignoranza, e se continuano a vivere dopo essere stati scritti, lo fanno solo nella misura in cui sfuggono alla comprensione.” Quindi alla capacità di classificarli; all’esigenza di farli rientrare per forza in una categoria dalla quale, in modo inevitabile e vitale, un buon romanzo fugge.

Sovvertire le regole; concentrarsi sulle parole, sul loro suono e la loro forma, attingere dalla realtà per restituirla non uguale a se stessa ma attraversata dall’immaginazione di chi scrive e di chi legge. Reinventare il mondo, restituire dignità ai fatti peggiori attraverso la scrittura.

Paco Ignacio Taibo II ha attinto a tutto questo viaggiando attraverso la Storia e regalando vicende e personaggi che diventano senza tempo, pur se collocati in momenti storici precisi. Storie che contengono altre storie, non messaggi ma caleidoscopici mondi che continuano a mutare e che, se si è fortunati, non riusciremo mai a ingabbiare, diventando universali e patrimonio di tutti.

Questo articolo è stato pubblicato su Le parole e le cose il 25 giugno 2020

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