di Antonio Lavorato
L’11 giugno 1980, 40 anni fa, perdeva la vita per mano ‘ndranghetista Giuseppe Valarioti, segretario della sezione del Pci di Rosarno. Aveva 30 anni ed era un professore: non solo di italiano a scuola, ma anche di riscatto sociale, dignità e lotta alle mafie. Lezioni che faremmo bene a ricordare.
Era la notte dell’11 giugno 1980 quando, ad opera della ‘ndrangheta, veniva ucciso Peppe Valarioti, segretario della sezione del Partito Comunista Italiano a Rosarno. Sono trascorsi quarant’anni.
Durante quella notte, Peppe è con i suoi compagni in un ristorante di Nicotera, nel Vibonese, per festeggiare la vittoria alle elezioni amministrative. Finita la cena esce dal locale e viene colpito dalla lupara mafiosa. Sono momenti drammatici, si passa dalla felicità per una straordinaria vittoria elettorale alla tragedia raffigurata dalla sofferenza degli ultimi istanti di vita del segretario del partito. Si scappa velocemente verso l’ospedale di Polistena, ma purtroppo durante il tragitto Peppe muore tra le braccia del suo amico fraterno Peppino Lavorato.
Aveva 30 anni Valarioti ed era un professore che dava lezioni. Non solo di italiano a scuola, ma anche sul riscatto sociale per conquistare i diritti, visto che nei comizi elettorali, senza paura, gridava che i rosarnesi non dovevano piegarsi allo strapotere della ‘ndrangheta e visto che lo stesso appello alla ribellione lo lanciava anche contro i comitati d’affari, segno del perverso intreccio politico-affaristico-mafioso, che in Calabria dominavano e continuano a dettare legge.
La sua vita si caratterizza per una precisa identità ideale coltivata fin dai primi anni di impegno politico e sociale, che lo porta a indagare e approfondire il ruolo del movimento bracciantile, protagonista nei decenni precedenti di conquiste fondamentali per i diritti delle donne e degli uomini di quella terra.
Allo stesso tempo, Peppe coltiva la passione verso la ricerca storica e archeologica come strumento fondamentale per evidenziare l’immensa storia greca da cui quella terra proviene, a dimostrazione del suo attaccamento e amore per il posto dove era nato e dove ha vissuto. Nel 1977, Peppe prende la tessera del PCI e, immediatamente dopo, diventa segretario della sezione a Rosarno. Nel 1979, viene eletto in consiglio comunale. Fu protagonista nelle lotte per il lavoro, nella Piana di Gioia Tauro, durante gli anni ’70 e partecipò attivamente alla costruzione delle “Leghe dei giovani disoccupati”.
Ricordare Peppe Valarioti, oggi, non significa soltanto valorizzare la figura di un compagno che ha dato un contributo importante nelle lotte per il lavoro e per i diritti per le popolazioni della Piana di Gioia Tauro, ma significa soprattutto mettere in evidenza l’esempio umano di una generazione, divenuta classe dirigente comunista, che ha saputo tenere la testa alta di fronte allo strapotere della ‘ndrangheta.
Peppe viene ucciso perché la ‘ndrangheta decide di colpire il suo nemico principale, perché le cosche della Piana capiscono che il Partito Comunista Italiano rappresenta l’argine invalicabile che si frappone al loro tentativo di impadronirsi delle assemblee elettive e delle istituzioni. Infiltrandosi e governando la Cosa Pubblica, infatti, le famiglie mafiose avrebbero avuto in mano un potere immenso che avrebbe permesso loro di intercettare e accumulare le ingenti risorse di denaro pubblico destinate verso quel territorio.
Il quadro che andava delineandosi, lungo il corso degli anni ’70, allettava enormemente gli interessi della ‘ndrangheta. Un’ingente massa di risorse pubbliche era destinata alla costruzione del porto di Gioia Tauro, alla trasversale che avrebbe collegato il Tirreno allo Jonio, alla diga sul Metrano e alla riconversione di insediamenti industriali presenti sul territorio provinciale. Le cosche della provincia di Reggio Calabria, all’interno di questo contesto, adottano una vera e propria scelta di assalto alle risorse pubbliche. La strategia è precisa, efficacemente studiata fin nei minimi particolari e uno degli step fondamentali è proprio quello di avere la gestione piena e incondizionata della Cosa Pubblica.
I mammasantissima e i loro sodali erano consapevoli del momento cruciale che quella fase storica rappresentava. Non era più sufficiente conservare il controllo del territorio, non bastava più la leva della forza militare in grado di incutere il timore che ha sempre condizionato le scelte di libertà dell’imprenditoria sana e laboriosa. Bisognava infiltrarsi nei governi del territorio, fino a determinarne le scelte. E bisognava farlo fino al punto di avere nelle assemblee elettive propri diretti rappresentanti.
Ciò avrebbe consentito di proiettare sull’economia reale e sulle relazioni sociali il potere di scelta e di governo delle autonomie territoriali, indirizzando e pilotando a proprio piacimento gare d’appalto, affidamenti, strumenti urbanistici, piani commerciali, politiche per l’ambiente e consumo violento del territorio a discapito di ogni sicurezza e tutela ambientale. Un’accumulazione di ricchezza enorme che ha reso la ‘ndrangheta in grado di sedersi ai tavoli mondiali del traffico internazionale di droga, fino a diventare oggi una delle forze dominanti in grado di spostare masse finanziarie di denaro da un continente ad un altro utilizzando la finanza come strumento di ulteriore accumulazione di ricchezza.
La ‘ndrangheta si faceva forza anche per la sostanziale permeabilità allo scambio politico-affaristico-mafioso di forze politiche che erano colluse con essa eleggendo, nelle proprie liste, candidati espressione di quell’intreccio e utilizzando il bisogno di reddito e di lavoro delle classi sociali meno abbienti per operare in modo strumentale e clientelare sul territorio. Da questo punto di vista, emblematico e memorabile fu l’episodio della posa della prima pietra per la costruzione del 5° centro siderurgico alla presenza di Andreotti. Quello fu il classico esempio di una politica che, priva di ogni scrupolo, sfruttava i bisogni sociali per fare promesse strumentali e clientelari.
Ecco, la realizzazione di questa strategia trovava un solo vero ostacolo di fronte a sé. Quello rappresentato dal movimento civile e sociale che il Partito Comunista Italiano aveva costruito grazie a un meticoloso lavoro di radicamento sociale e di insediamento al fianco delle cittadine e dei cittadini succubi della politica di privazione del diritto a uno sviluppo che potesse garantire lavoro e reddito a tutti.
Il contesto storico in cui si materializza l’omicidio di Peppe è quello caratterizzato da una durissima contrapposizione tra la ‘ndrangheta e il potere che rappresenta e i comunisti. Una contrapposizione nata e consolidatasi nei decenni precedenti per l’impegno sociale del PCI al fianco dei braccianti. Lotte bracciantili che hanno segnato profondamente il tessuto sociale e culturale di quella realtà e che hanno rappresentato le fondamenta per la costruzione di un movimento più ampio che, senza alcun timore, fronteggiava i padroni e i poteri forti per conquistare diritti assolutamente indisponibili. Alla testa di questo straordinario movimento che coinvolgeva tutte le generazioni e che vedeva uno straordinario protagonismo delle donne, c’erano i comunisti di Rosarno, c’era il gruppo dirigente comunista della federazione di Reggio Calabria, c’era la Camera del Lavoro.
E Peppe Valarioti, all’interno di questo movimento, ha saputo cogliere il senso più profondo del livello della sfida, dimostrando capacità straordinarie e vedute di ampio respiro. Infatti, lui seppe vedere nella questione giovanile la chiave di volta per portare a casa una vittoria determinante contro lo strapotere della ‘ndrangheta. Capì che il terreno su cui portare la sfida doveva essere quello relativo alle cause di fondo che determinavano la devianza giovanile e che sfociavano nella disponibilità a rendersi attivi e partecipi alle richieste di arruolamento da parte delle cosche.
Togliere le giovani generazioni da questa situazione di debolezza, recuperarle a una vita civile e socialmente sostenibile, affrontare il tema del lavoro e, conseguentemente, affrancarle dal bisogno. Questa era la sfida. E questa sfida la colse e la portò avanti coltivando il loro coinvolgimento e la loro partecipazione, sempre più massiccia, alle manifestazioni incentrate su piattaforme che avevano al centro i temi della democrazia, dei diritti, del lavoro.
Questo scenario culminò nell’intensa e durissima campagna elettorale del 1980 per le elezioni provinciali e regionali. Furono settimane e giorni caratterizzati da uno scontro diretto. I comunisti che, quartiere per quartiere, casa per casa, andavano a chiedere il voto per liberare quella terra dal dominio delle famiglie della ‘ndrangheta e dall’intreccio tra mala politica e affari loschi e la manovalanza che girava per intimorire donne e uomini di quei quartieri. I comunisti che sviluppavano la propaganda politica di denuncia sociale con i mezzi a disposizione e la ‘ndrangheta che capovolgeva i manifesti affissi, segnale diretto e indiscutibile di minacce. I comunisti che nei comizi denunciavano gli abusi, le illegalità e il condizionamento criminale e la ‘ndrangheta che colpisce incendiando la macchina di Peppino Lavorato e tentando di dare fuoco alla sezione del PCI (attentato che per fortuna non ha prodotto l’effetto desiderato).
Una campagna elettorale che, nel suo culmine, può essere sintetizzata dalle parole che dal palco in modo chiaro Peppe aveva pronunciato durante un comizio: “Se vogliono intimidirci si sbagliano di grosso. I comunisti non si piegheranno mai”.
L’esito di quel voto, a Rosarno, dimostrò che la ‘ndrangheta poteva essere messa all’angolo. Il prezzo pagato fu altissimo. Assolutamente indescrivibile per la sua famiglia e per le compagne e i compagni che avevano sposato, con lui, una causa di straordinaria intensità sociale. Con Peppe e grazie a Peppe, crebbe e si consolidò una classe dirigente in grado di costruire una vera alternativa al potere mafioso e di corrispondere ai bisogni dei giovani e delle fasce sociali più povere. Quelle idee furono un grande patrimonio che camminò su gambe solide e portarono i progressisti a vincere e a conquistare il comune, liberandolo da ogni condizionamento mafioso, nel corso degli anni Novanta.
È mia convinzione suffragata da autorevoli opinioni che, nonostante gli esiti giudiziari, a volere quell’omicidio furono i vertici della ‘ndrangheta della Piana di Gioia Tauro. Non si poteva accettare, senza una reazione sanguinaria, una sconfitta così cocente e importante a Rosarno. Avrebbe minato la forza intimidatrice e, quindi, la credibilità costruita sul territorio e nelle istituzioni grazie a collusioni ben consolidate.
Oggi, ricordare Peppe a quarant’anni dalla morte, deve voler dire apprendere la lezione di chi, con il suo esempio, ha costruito le condizioni per dare corpo e anima a un’alternativa sociale al dominio delle mafie. L’approccio meticoloso, l’analisi, lo studio delle dinamiche sociali ed economiche sono state le leve che hanno dato vita a un grande movimento di massa e alla convinzione collettiva che la libertà è il miglior viatico per il riconoscimento dei diritti fondamentali delle persone e delle classi più disagiate.
Questa lezione, dovrebbe essere oggetto di attenzione per la sinistra di oggi. Perché ricostruire una sinistra oggi non è possibile se non si torna tra la gente e con la gente che vive i drammi quotidiani di un sistema sociale iniquo. In Calabria, poi, la sinistra dovrebbe rifondarsi intorno a una nuova idea che ponga al centro la madre di tutte le battaglie: e cioè liberare questa terra dall’oppressione derivante dall’intreccio tra ‘ndrangheta e massoneria deviata.
Questo aritcolo è stato pubblicato su Sbilanciamoci l’11 giugno 2020