Homo homini virus? Spazio urbano e disuguaglianze in tempo di pandemia

11 Giugno 2020 /

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di Niccolò Bellanca
Nel ragionare sugli scenari post-pandemia, ciò che accadrà nelle città è decisivo. Non soltanto perché il 55% della popolazione planetaria è urbanizzato; né soltanto perché dalle città proviene il 75% del PIL globale, ottenuto consumando più di due terzi dell’energia e provocando il 70% delle emissioni inquinanti.[1] Ma anche e soprattutto perché nei contesti urbani è più facile, relativamente a contesti nazionali o sovranazionali, impostare e condurre grandi battaglie a favore dell’eguaglianza.
Questa tesi non è banale e, per (provare a) dimostrarla, occorrerebbe scrivere un intero libro.[2] Qui essa sarà saggiata lungo due tappe espositive: nella prima, illustreremo che cosa è successo nel corso della pandemia; nella seconda, valuteremo la portata di alcune idee e sperimentazioni sociali, che in anni recenti hanno cercato di realizzare forme radicali di rigenerazione urbana.
Le misure di “distanziamento sociale”, o meglio di “isolamento spaziale”, sono state il modo più diffuso per contenere il contagio virale. Ma se, assecondando questo approccio, ognuno di noi deve allontanarsi dagli altri, in quanto gli altri possono contaminarlo, il contesto più pericoloso dal quale fuggire è quello in cui massimamente si addensano le relazioni intersoggettive: la città. La ragione è apparentemente ovvia: accatastare le persone l’una sopra l’altra in palazzi e uffici, e imballarle in bus e vagoni della metropolitana, crea un terreno fertile ideale per le malattie trasmissibili.[3] In termini di filosofia sociale, la pandemia è stata quindi affrontata con il criterio per cui Homo homini virus (l’uomo è veleno per l’uomo): la forma d’intervento più appropriata, per “svelenire” la società, consiste nello spezzare o almeno nel sospendere i nessi tra le persone, e tra le persone e i luoghi di vita.
In effetti, non è però ovvio che la densità della popolazione contribuisca al proliferare della pandemia. Occorre infatti distinguere tra il sovraffollamento all’interno degli edifici e dei mezzi di trasporto, e la concentrazione negli spazi esterni (piazze, strade, parchi) condivisi da tutti i cittadini. La trasmissione del coronavirus avviene principalmente attraverso contatti stretti estesi, in particolare in spazi chiusi, dove si accumulano goccioline e aerosol. È quindi il sovraffollamento, generalmente misurato in metri quadrati per persona, che davvero conta. I luoghi ad alto rischio includono case di riposo, carceri, centri di accoglienza per migranti, funerali, matrimoni, mense, palestre, caserme, alberghi, uffici open space, chiese, ospedali, mattatoi, manifestazioni sportive, trasporti pubblici, locali notturni, aerei e navi da crociera.[4] Gran parte della lista indica luoghi su cui insistono i gruppi sociali più svantaggiati: il sovraffollamento varia strettamente con il reddito e la ricchezza (meno soldi e proprietà hai, più “stretto” stai); la disuguaglianza svolge qui un ruolo cruciale.
Mentre il rapporto tra la densità della popolazione urbana e il contagio virale non è univoco,[5] in termini generali il rapporto tra la pandemia e le città può essere colto mediante la nozione di “software urbano”, con la quale s’intende il lato immateriale (relazioni, servizi, identità) che trasforma gli spazi collettivi (piazze, strade e parchi) in luoghi pubblici (ambienti vivi, piattaforme di relazioni e contenuti). In un periodo di lockdown, gli spazi restano inalterati, mentre i luoghi muoiono: il software è bloccato, ma l’hardware si mantiene intatto. Non appena la circolazione del virus rallenta, o forse il virus stesso s’indebolisce, la città inizia a riattivare i propri luoghi. Tuttavia, la rigenerazione urbana può verificarsi come una risposta alla “emergenza sanitaria”, che lasci inalterate le caratteristiche della città, e in particolare la struttura delle disuguaglianze. Oppure può impegnarsi in percorsi di profonda discontinuità, sui quali costruire forme di egemonia politica di sinistra.
Consideriamo anzitutto l’atteggiamento “emergenziale”. Esso affronta la pandemia mediante misure contingenti, ad esempio gli aggiustamenti della viabilità che concedano maggiori spazi alle piste ciclabili, che razionino l’utilizzo dei mezzi di trasporto pubblico, che riorganizzino gli orari di ingresso e uscita dal lavoro, per evitare intasamenti negli orari di punta (oltre a un prolungato ricorso al lavoro da remoto, quando possibile). Inoltre, per ridurre gli spostamenti e l’isolamento delle persone nelle fasce più deboli della popolazione, vengono introdotti incentivi alla vita di quartiere, sostenendo le attività economiche locali e i servizi pubblici decentralizzati, nonché riaprendo gradualmente parchi e strutture sportive pubbliche, da usare con criteri più restrittivi, e creando nuove aree pedonali nei quartieri con meno parchi pubblici.[6]
Lungo queste linee, ad esempio le città degli Stati Uniti hanno iniziato a prendere una nuova forma a causa della pandemia. Oakland ha chiuso 74 miglia di strada per le auto, aprendole esclusivamente a ciclisti e pedoni. New York City prevede di chiudere 100 miglia di strade per scopi simili. Seattle ha annunciato che aggiungerà 20 miglia di marciapiedi. A Cincinnati si stanno trasformando le strade in patii esterni per ristoranti, in modo da poter servire più persone senza confinarle al chiuso. Non è chiaro per quanto tempo questi cambiamenti rimarranno in vigore, ma essi aiutano a focalizzare ciò che le città potrebbero diventare se si affermasse una pianificazione urbana più lungimirante.[7]
Passiamo all’impostazione alternativa, che si propone di fronteggiare la pandemia mediante interventi che rispondano ai bisogni di oggi e a quelli, che la pandemia sta contribuendo a cambiare, di domani. In contrasto con la concezione dell’Homo homini virus, secondo cui l’isolamento spaziale dovrebbe diventare la caratteristica principale delle nostre città, essa sostiene che il contesto urbano post-pandemico dovrebbe essere ancora più connesso e più sociale.
Al riguardo, una mossa strategica fondamentale è lo sviluppo policentrico o mixed-use development. La città viene suddivisa in zone che uniscano usi residenziali, culturali, commerciali, produttivi, istituzionali e d’intrattenimento, riorganizzando la zonizzazione iperspecializzata che ha improntato la pianificazione urbana da almeno un secolo a questa parte, e che separa la funzione residenziale da tutte le altre. Grandi città come Melbourne, Ottawa, Detroit e, più recentemente, Parigi, cercano di ridurre la loro impronta di carbonio, aumentare la qualità della vita e ridurre la disuguaglianza tra cittadini del centro e delle periferie, trasformando i loro centri urbani in «città di 15 minuti». Ciò significa che i residenti possono soddisfare tutti i loro bisogni, siano essi per lavoro, shopping, salute o cultura, entro 15 minuti dalla loro porta di casa. Il progetto sostiene che sono sei le funzioni sociali di base che rendono felice un cittadino: un’abitazione dignitosa, un lavoro adeguato, la possibilità di effettuare le spese ordinarie, di ricevere cure, di fruire della cultura e del divertimento. Se questi bisogni saranno soddisfatti reinventando la prossimità urbana, i cittadini staranno meglio e saranno più disposti a impegnarsi attivamente nelle loro comunità. Per ridurre il raggio di accesso alle sei funzioni di base, occorre creare un tessuto urbano maggiormente integrato, nel quale, in ogni quartiere, i negozi si mescolino con le case, i bar con i centri sanitari, le scuole con gli edifici per uffici.[8]
Nella figura, dall’alto, in senso orario, le intestazioni recitano: istruzione, lavoro, condivisione di conoscenze e riutilizzo, shopping, ricreazione, impegno per la comunità, salute, trasporto pubblico, esercizio fisico e nutrizione
Una seconda mossa strategica consiste nella riorganizzazione delle infrastrutture collettive, rispetto alle esigenze, tra loro intrecciate, di spazi verdi davvero fruibili e di soddisfacenti percorsi di mobilità personale. Una megalopoli del Sud del pianeta, come Bogotá, è andata ad esempio affermando la centralità del trasporto pubblico e delle piste ciclabili. Non si è trattato soltanto di potenziare gli autobus o di aggiungere qualche chilometro di ciclovia, bensì, più radicalmente, di privilegiare lo scorrimento dei mezzi pubblici nelle strade in cui il traffico delle automobili private è congestionato, e di creare percorsi asfaltati per le bici nelle zone urbane in cui le strade carrabili non esistono o non ricevono manutenzione. È stato quindi un approccio che ha puntato a riequilibrare le disuguaglianze, dando le migliori opportunità a quelli che dispongono di minori risorse.[9]
Nella prospettiva della sostenibilità ecologica, un esempio stimolante si verifica in una città del profondo Nord come Copenaghen. Essa è diventata un contesto urbano nel quale il 25% della superfice è coperto dal verde pubblico, nessun residente impiega più di 15 minuti a piedi per raggiungere una grande area verde o blu (specchio d’acqua) e si moltiplicano i “giardini tascabili”, luoghi tra le case per fare attività fisica, rilassarsi e incontrarsi.[10] Un altro caso su cui riflettere riguarda Barcellona. Analogamente alle maggiori città d’arte italiane, la capitale della Catalogna è soffocata da un elevatissimo numero di turisti, che transitano con indifferenza dai quartieri residenziali per affollare le zone monumentali. Le esigenze dei viaggiatori temporanei e dei commercianti locali, da una parte, e quelle dei cittadini, dall’altra, sono opposte. Se prevalgono le prime, ne segue una forma di disuguaglianza, che, oltre a peggiorare la qualità della vita dei cittadini, ne spinge molti fuori dal centro urbano. L’intervento consiste nel formare aree costituite da nove isolati, intorno al cui perimetro possa scorrere il traffico veicolare, mentre all’interno le strade verticali e orizzontali restino riservate alle attività (pedonali) dei residenti. Ovviamente, si tratta di una misura che funziona soltanto se l’espulsione del traffico dai macro-isolati ha carattere sistemico, abbracciando l’intera città; in caso contrario, le aree aperte al traffico subirebbero un impatto ancora peggiore, accentuando la disuguaglianza.[11]
La terza e ultima mossa che richiamiamo, si colloca, per dir così, alla convergenza di atomi e bit: le città odierne sono composte di spazi fisici, ma assumono anche una configurazione digitale che fluisce attraverso i nostri device (smartphone, tablet, personal computer o pannelli interattivi urbani). Queste smart cities c’interessano qui per la loro valenza politica. «In passato, quando si pensava alla democrazia ci si concentrava su questioni formali di governance, mentre oggi il fuoco dell’attenzione concerne la partecipazione dei cittadini. Questo tema della partecipazione si è sempre incardinato sul design della città fisica. Ad esempio, nell’antica polis gli ateniesi utilizzavano politicamente l’emiciclo teatrale: una forma architettonica fornita di buona acustica, nonché di chiara visione degli oratori e delle reazioni del pubblico durante i dibattiti. […] Oggi, per città globali come Londra e New York, occorre capire come i cittadini possano sentirsi socialmente interconnessi, senza incontrarsi né conoscersi personalmente».[12]
Tanto lo spazio fisico degli atomi, quanto quello virtuale dei bit, non vanno concepiti come se fossero arene astrattamente universali, nelle quali ci si muove verso il bene comune. Piuttosto, per dirla con Rosalyn Deutsche, lo spazio pubblico, in assenza di significati condivisi da tutti, è un’arena plasmata dai conflitti sociali. Ma se nello spazio pubblico si svolgono continue negoziazioni sulle possibilità future, la sua dimensione digitale va organizzata come un sistema aperto, in cui sensori e monitor raccolgono big data per facilitare decisioni individuali, interazioni sociali e soprattutto l’emergere di attività non pianificate e politicamente incisive. La città odierna può diventare il luogo, assieme reale e virtuale, in cui lo spazio della democrazia (per le pratiche democratiche) e la democrazia dello spazio (le relazioni democratiche nella produzione dello spazio) sono interconnessi.[13]

Concludiamo. A volte le forze che modellano le nostre città sembrano schiaccianti. È facile sentirsi marginali di fronte al potere del settore immobiliare, alla tirannia dei codici di zonizzazione, all’insipienza dei ceti politici, all’inerzia delle burocrazie e alla pura persistenza delle cose che sono già state costruite. È facile credere che il compito di modificare le città spetti alla responsabilità di autorità lontane, ed è ancora più facile scivolare in questa tentazione nel corso di un evento traumatico come la pandemia. Eppure, i casi storici che abbiamo menzionato, mostrano che i residenti di singole città, in ogni parte del pianeta, sono stati in grado di avviare ristrutturazioni radicali delle relazioni sociali, politiche ed economiche.

 

————– Note
[1] Margaretha Breil, “Città resilienti”, Equilibri, 2/2017, p.307.

[2] Due libri che si avvicinano a questo intendimento sono Mark Purcell, Recapturing Democracy. Neoliberalization and the Struggle for Alternatives Urban Futures, Routledge, London, 2008; David Harvey, Città ribelli, Il Saggiatore, Milano, 2013.

[3] Si vedano https://www.rinnovabili.it/greenbuilding/smart-city/malattie-infettive-urbanizzazione/; https://theconversation.com/outbreaks-like-coronavirus-start-in-and-spread-from-the-edges-of-cities-130666
[4] Si veda https://theconversation.com/as-coronavirus-forces-us-to-keep-our-distance-city-density-matters-less-than-internal-density-137790
[5] Il rapporto tra la densità urbana e il contagio virale, è reso problematico anche da un altro aspetto: le aree a bassa densità possono subire maggiormente le pandemie, perché hanno meno ospedali, più piccoli e poco attrezzati, e perché non sono economicamente resilienti come le grandi città. Si veda https://www.mic.com/p/what-will-cities-look-like-after-coronavirus-22892442?utm_campaign=mic&utm_content=1589397522&utm_medium=owne%E2%80%A6
[6] Rinviamo all’analisi di Richard Florida e Steven Pedigo: https://www.brookings.edu/blog/the-avenue/2020/03/24/how-our-cities-can-reopen-after-the-covid-19-pandemic/?sfns=mo; si veda inoltre Paul Chatterton, “Cambiamo le città”, Internazionale, n.1359, 22 maggio 2020.
[7] Si leggano https://theconversation.com/how-pandemics-have-changed-american-cities-often-for-the-better-137945; https://newcities.org/the-big-picture-will-covid-19-make-us-think-cities-differently/
[8] Si vedano https://www.citylab.com/environment/2020/02/paris-election-anne-hidalgo-city-planning-walks-stores-parks/606325/; https://en.wikipedia.org/wiki/New_Urbanism; https://en.wikipedia.org/wiki/Mixed-use_development
[9] Si vedano Charles Montgomery, Happy City. Transforming our Lives through Urban Design, Doubleday, Canada, 2013, capitolo 10, e l’intervento di Enrique Peñalosa, già per due volte sindaco di Bogotá, https://www.ted.com/talks/enrique_penalosa_why_buses_represent_democracy_in_action?language=it#t-27555
[10] Si vedano Jan Gehl, Life Between Buildings: Using Public Space, New York, Van Nostrand Reinhold, 1987; https://www.architetturaecosostenibile.it/architettura/progetti/jan-gehl-citta-copenhagen-857; https://ec.europa.eu/environment/europeangreencapital/wp-content/uploads/2012/07/Section-3-green-urban-areas_Copenhagen.pdf. Per una serie di casi negli Stati Uniti, si veda https://designforwalkability.squarespace.com/case-studies. Per una generalizzazione di questo approccio, David Sim, Soft City, Island Press, Washington, 2019.
[11] Si veda Marta Bausells, “Superblocks to the Rescue: Barcelona’s Plan to Give Streets Back to Residents”, The Guardian, 17 maggio 2016; Richard Sennett, Costruire e abitare, Feltrinelli, Milano, 2018, capitolo 7.
[12] Richard Sennett, “Civil Society”, in P. Sendra and R. Sennett, Designing Disorder, Verso, London, 2020, chapter 2. Su questo tema, si veda anche Teresa Hoskyns, The Empty Place: Democracy and Public Space, Routledge, London, 2014.

[13] Rosalyn Deutsche, Evictions. Art and Spatial Politics, The MIT Press, Cambridge (Mass.), 1996.

 
Questo articolo è stato pubblicato su MicroMega l’8 giugno 2020

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