di Rossella Selmini
La parola che senti pronunciare più spesso a Minneapolis, per strada, nei lunghi corridoi o negli skywalk che collegano gli edifici del campus e quelli del centro, è: sorry. Che in realtà significa “fatti più in là”, perché qui il contatto fisico è normalmente ridotto al minimo. Anche prima del Coronavirus, il social distancing era la regola. È una delle facce, sembra strano, ma è così, del Minnesota nice: una frase che definisce la cultura del posto enfatizzando la gentilezza estrema dei suoi abitanti, che si scusano mille volte, ti ringraziano altrettante, e non alzano mai la voce, basta che ti tieni a distanza. Ecco perché mi ha stupito, all’inizio, vedere i corpi dei manifestanti che in questi giorni, almeno in alcuni momenti, abbandonavano ogni cautela, dimenticavano la paura del contagio e cancellavano una tradizione centenaria di riservatezza nordeuropea che, trapiantata nelle fredde pianure del Midwest – il Minnesota è terra d’immigrazione scandinava e tedesca – si è fatta ancora più tenace.
In realtà, lo stupore è durato poco. In fondo lo sapevo che a Minneapolis esistono energie profonde e inespresse, che esiste una cultura democratica, di partecipazione e antagonista, anche se non la si vede spesso. Bisogna andarla a cercare. La si trova nella May Day Parade, la sfilata di maggio che raccoglie artisti, gruppi ambientalisti e anti-razzisti, associazioni per i diritti che sfilano per tutta la giornata in un quartiere multietnico a poca distanza da dove George Floyd è stato ucciso. L’ho vista, questa energia, nei mille gruppi che si sono organizzati spontaneamente nei condomini, nei quartieri, per sostenere Bernie Sanders nel 2016; nelle proteste scoppiate dopo i fatti di Ferguson e per altri abusi di polizia successi proprio a Minneapolis negli ultimi anni. L’ho vista, a volte, appena accennata, ma pronta a esplodere, nella frustrazione dei miei studenti, soprattutto di quelli delle minoranze etniche, sempre in difficoltà con le tasse universitarie, con i ritmi degli esami e i mille lavoretti necessari per sopravvivere in una città ricca e costosa; e che immagino oggi a sfilare nelle proteste e a tagliare le autostrade che attraversano la città.
Non mi stupisce, quindi, che tutta questa energia sia venuta allo scoperto dopo l’uccisione di George Floyd e si sia poi propagata a tante altre città americane. Quello di Floyd è solo l’ultimo e più brutale caso di omicidio commesso da poliziotti del dipartimento di polizia di Minneapolis, che ha una lunga storia di violenza e di abusi, in particolare contro gli afro-americani. Anche fermandosi agli ultimi anni, i precedenti sono tanti. Philando Castile, nero, viene ucciso durante un controllo stradale il 6 luglio 2016, nella sua auto, con la compagna al fianco e la bambina di quattro anni nel sedile posteriore. Questa volta siamo non a Minneapolis, ma in un quartiere suburbano di Saint Paul, la città gemella di Minneapolis. L’agente di polizia, accusato di omicidio di secondo grado, viene poi assolto dal Grand Jury, nonostante un video dimostrasse che Philando non stava estraendo nessuna arma: aveva semplicemente dichiarato al poliziotto che ne aveva una nel cruscotto. Ucciso senza ragione da un poliziotto nel panico.
L’anno successivo, un giovane poliziotto somalo, con già qualche precedente per comportamenti “scorretti” e abusi d’autorità, uccide Justine Ruszczyk, una donna bianca, questa volta. È il 15 luglio 2017 e la donna – che vive in un quartiere residenziale di Minneapolis – chiama la polizia perché preoccupata dalle grida di un’altra donna. Teme che stia avvenendo uno stupro o un’aggressione nel palazzo. I due poliziotti che arrivano dopo la chiamata non vedono nulla di sospetto, ma Justine esce correndo dall’ingresso dell’abitazione per avvicinarsi all’auto dei poliziotti, e viene uccisa all’istante da uno di loro che sarà poi accusato e condannato per omicidio di secondo grado. Che la vittima fosse bianca e il poliziotto nero ha forse fatto la differenza nelle conseguenze per quest’ultimo.
Il caso che ha provocato però le maggiori proteste è avvenuto nel novembre 2015, quando un altro giovane afro-americano, Jamar Clark, viene ucciso dalla polizia in circostanze che resteranno poco chiare, anche se numerose prove sembrano confermare ancora una volta un omicidio senza motivo. Jamar è il classico “usual suspect”. Ha qualche precedente penale, compresa un’accusa di minacce di violenza alla sua ex ragazza. L’omicidio avviene fuori da un appartamento dove il giovane e altre persone vengono coinvolte in un diverbio. Secondo la versione della polizia, Jamar, steso al suolo dai poliziotti, avrebbe cercato di sfilare l’arma a quello che lo trattiene. Viene ucciso a bruciapelo dall’altro poliziotto presente. Alcuni testimoni sostengono invece che l’omicidio sia avvenuto mentre Jamar era ammanettato e inerme al suolo. I due poliziotti coinvolti non vennero accusati di nessun reato, nonostante le prove contrastanti e le proteste di Black Lives Matter, che proseguirono nella città – e si estesero ad altre città del paese – per quasi tre settimane, ma di cui in Italia si parlò poco. E ancora: Thurman Blevins, un altro nero ucciso due anni fa – alcuni ricorderanno il video in cui chiede “per favore non sparatemi, per favore lasciatemi solo” –, un altro omicidio, questa volta di un appartenente alla comunità Hmong della città, a dicembre scorso.
E potremmo andare ancora indietro nel tempo, trovando tanti altri episodi. Chi non conosce bene gli Stati Uniti può rimanere sconcertato dal fatto che questi eventi succedano così frequentemente anche a Minneapolis. Una città che negli anni Sessanta e Settanta ha accolto una immigrazione afro-americana consistente, attirata dalla sua fama progressista, dal suo sistema di welfare relativamente migliore rispetto ad altre città americane, e che ha spesso dimostrato una notevole capacità di accoglienza di gruppi consistenti di immigrati internazionali, prima asiatici ed etiopi e poi somali, grazie soprattutto all’attivismo delle chiese locali.
La situazione degli afro-americani qui, tuttavia, non è sostanzialmente diversa da quella del resto dell’America. La segregazione spaziale persiste dall’inizio del secolo scorso, e quella sociale ed economica tende ad aggravarsi. Le ricerche dei geografi e storici del progetto interdisciplinare Mapping Prejudice ci raccontano come anche a Minneapolis siano stati utilizzati abbondantemente, all’inizio del secolo scorso, i meccanismi dei racial covenant, che consentivano di bloccare agli afroamericani l’accesso alle abitazioni, o di costruirsene una, in determinati quartieri della città. Un meccanismo infernale che è all’origine della feroce segregazione spaziale delle città americane e che non ha risparmiato Minneapolis. Nonostante le battaglie per l’accesso indiscriminato alle abitazioni abbiano da tempo eliminato questi dispositivi razziali, lo spazio urbano della città ne è rimasto profondamente segnato.
Prima del Coronavirus, il tasso di disoccupazione degli afro-americani nelle Twin Cities era oltre il doppio di quello dei bianchi: il dieci per cento rispetto al quattro per cento. Tutti gli altri indicatori sociali ed economici confermano il divario razziale: nel salario e nell’accesso all’educazione in particolare. Sappiamo che oggi gli effetti del Coronavirus sulle minoranze afro-americane sono stati e sono più pesanti, in termini di contagi e di morti, rispetto ai bianchi, e vi sono pochi dubbi che la crisi economica del paese avrà un impatto maggiore sulle prime rispetto ai secondi. Come nel resto del paese, inoltre, gli afro-americani sono molto più soggetti a controlli, arresti e condanne. Tra il 2008 e il 2018 la popolazione carceraria nera nel Minnesota è cresciuta del tredici per cento, mentre quella bianca è diminuita del due per cento, con un tasso di incarcerazione del trentaquattro per cento a fronte di una presenza nella popolazione adulta del Minnesota di solo il sei per cento (Aclu 2019).
A questi dati, tutto sommato non diversi da altre realtà americane, si accompagnano alcune peculiarità locali. Paradossalmente, una delle città americane considerate più progressiste e vivibili ha anche un corpo di polizia che si distingue da tempo per attitudini particolarmente violente. Nonostante i due capi della polizia siano stati prima una donna e oggi un nero – che anni fa ha citato in giudizio la stessa polizia che oggi dirige per avere tollerato il razzismo al suo interno –, nonostante la tradizione democratica di cui si è detto e i sindaci liberal che si sono susseguiti, i casi di omicidi, abusi e discriminazioni fanno parte della storia della città. Uno degli attori principali di questa storia del Minnesota così poco nice è il potentissimo sindacato di polizia, creato durante il mandato del sindaco repubblicano Charles A. Stenvig negli anni Settanta. Ogni tentativo di riforma dei sindaci democratici e degli altri comandanti della polizia che si sono succeduti nei decenni successivi sono per lo più naufragati di fronte allo scudo protettivo costruito da questo sindacato, che ancora oggi garantisce l’impunità ai tanti poliziotti accusati di comportamenti scorretti, discriminatori, quando non di violenze e omicidi. L’attuale capo di questo sindacato, Bob Kroll, non esita a definire “terroristi” i musulmani, porta la scritta “white power” sul suo giubbotto da motociclista, e in questi giorni ha definito Floyd “un criminale”, lasciando intendere che si è meritato quello che è successo. Il potere dei sindacati di polizia, a Minneapolis come a New York, è un prodotto della storia razzista del paese e un elemento fondamentale per capire quello che succede oggi.
Altrettanto importante è non farsi troppe illusioni sulla capacità degli esponenti del partito democratico di contrastare i comportamenti razzisti, nella polizia come nel resto della società. Amy Klobuchar, candidata alle primarie democratiche, e oggi indicata come possibile vice di Biden in caso di vittoria, è stata procuratore a Minneapolis per sette anni fino al 2006. È nota in città per il suo approccio law and order e anche per avere sempre rimesso le decisioni sulle accuse ai poliziotti del dipartimento per comportamenti violenti al Grand Jury, un organismo che notoriamente tende a favorirne l’assoluzione.
Il Partito democratico, di fatto, è stato sempre complice, o testimone passivo, e non ha mai opposto una reale resistenza al razzismo strutturale, a Minneapolis come nel resto del paese. Non dimentichiamo che Bill Clinton ha emanato alcune delle leggi più dannose per le comunità afro-americane in campo penale, che hanno consentito l’applicazione del meccanismo “Three strikes and you are out” e altri dispositivi che hanno contribuito alla enorme sproporzione tra i tassi di incarcerazione dei neri rispetto ai bianchi. Da decenni i giovani afro-americani sono l’obiettivo centrale delle campagne di panico sfociate nelle “war on drug” o nelle “war on gangs” e destinatari dei meccanismi più punitivi di un sistema di giustizia penale particolarmente severo e in grado di colpire, attraverso vari meccanismi, assai più le minoranze etniche che il resto della popolazione. Neppure la presidenza Obama è stata in grado di modificare le storture di questo sistema. Al contrario, i politici e i procuratori democratici sono stati spesso in prima linea, come nel resto del mondo occidentale, nel difendere i principi della tolleranza zero e del ricorso indiscriminato della risorsa penale. Qualcuno ricorderà il Central Park Jogger case, avvenuto nel 1989, in pieno panico morale verso i giovani “superpredators” neri (così li definì il criminologo Di Iulio in un articolo che fece discutere per anni), quando cinque giovani di colore furono frettolosamente condannati per una violenta aggressione sessuale a Central Park e passarono in carcere parecchi anni, prima di venire rilasciati quando il vero autore del reato confessò. Le storie di questo genere, che non sono “errori giudiziari” ma pratiche di discriminazione razzista, sono infinite. Alcune le racconta anche Didier Fassin, nel suo bel libro Punire. Una passione contemporanea. C’è da stupirsi non delle proteste e delle rivolte di oggi, ma del fatto che non ce ne siano state di più.
Lisa Schneider, in un interessante libro del 2014 in cui compara i riot francesi con la storia di quelli americani sostiene che, a partire dalla fine degli anni Settanta i race riot sono andati diminuendo negli Usa e che ciò sarebbe avvenuto fondamentalmente perché nel paese è cresciuto un sostegno forte da parte delle associazioni anti-razziste, sfociato poi nella creazione di Black Lives Matters, il cui repertorio d’azione non è propriamente quello dei riot, e soprattutto grazie alle grandi battaglie legali portate avanti, tra gli altri, dalle Coalizioni per i diritti civili. Secondo Schneider, insomma, le battaglie nei tribunali – che spesso hanno avuto successo nel riconoscere le violazioni ai diritti e all’incolumità fisica degli afro-americani – hanno sostituito le battaglie nelle strade.
C’è da chiedersi quindi, cosa è andato storto dal 2014, quando Schneider sosteneva questa ipotesi, a oggi. La storia di Schneider è in realtà soprattutto la storia di New York, e trasforma alcune battaglie civili e giuridiche di indubbio successo, portate avanti soprattutto contro il dipartimento di polizia di New York, in una trasformazione nazionale che in realtà non è mai avvenuta. Lo stesso movimento Black Lives Matter ha perso forza in questi anni, rischiando di scadere nella ritualità celebrativa e di essere incapace di incanalare la frustrazione e la rabbia delle minoranze etniche e di una buona parte dei giovani, anche bianchi, orfani di rappresentanza politica. I risultati di tutte queste dinamiche si vedono oggi. Le battaglie sono tornate nelle strade. Perché, alla fine, è nelle strade che si vince o si perde.
Questo articolo è stato pubblicato su Napolimonitor il 04 giugno 2020