Jonathan Evison racconta come la working class sopravviva con l’ironia nell’era di Trump

22 Maggio 2020 /

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di Guido Caldiron
 
L’intervista. Parla lo scrittore statunitense, ex musicista punk e autore del romanzo «Il giardiniere», pubblicato da Sem. Il protagonista, Mike Muñoz ha 22 anni, ama i libri e l’arte topiaria, tira avanti tra lavori sottopagati e buffe disavventure. «Volevo svegliare il moribondo sogno americano, prenderlo per il collo e tirargli dell’acqua in faccia».
 
Mike Muñoz non aveva ancora dieci anni quando suo padre, poco prima di andarsene lasciandolo con un fratello disabile a cui badare e una madre costretta a lavorare dalla mattina alla sera per tirare avanti, stufo di sentirsi chiedere quando lo avrebbe portato a Disneyland, lo caricò sul malandato pick-up di famiglia e lo condusse nell’area industriale della città. Sorseggiando una birra appoggiato a una rete metallica che delimitava una spianata di cemento, guardò il figlio, in lacrime per la delusione, e gli disse: «Sembra proprio che se ne siano andati. Forza, leviamoci di torno».
Ora Mike ha 23 anni, un lavoro di giardiniere in cui riesce a esprimere la propria creatività, modellando alberi e siepi come fossero statue, anche se il più delle volte ha a che fare con dei ricchi arroganti che pretendono che raccolga le cacche dei loro cani dai prati, e una passione per ogni tipo di romanzi che recupera nella biblioteca cittadina. Vive in una riserva indiana, ma solo perché lì le case costano meno, nell’estremo nord-ovest del Paese, con mamma, fratello e un inquilino afroamericano che abita nel loro garage e la cui unica occupazione è comporre colonne sonore per le cassette porno anni 80.
Di fronte a lavori sottopagati, problemi di ogni sorta e qualche segnale di razzismo, ha pur sempre un nome messicano, Mike non cede al pessimismo e, mentre racconta ai lettori le sue disavventure talvolta più buffe che drammatiche, continua a coltivare il sogno di diventare scrittore. Le vite che Jonathan Evison, ex musicista punk e autore di cinque romanzi – da uno dei quali è stato tratto il film Altruisti si diventa – descrive con empatica ironia ne Il giardiniere (Sem, pp. 332, euro 17), non sono quelle dei «marginali», ma di persone che vivono in una costante incertezza malgrado lavorino e possano permettersi una casa: quasi un ritratto di una parte consistente della società americana, spesso oggi la più colpita dalla pandemia.
«Il giardiniere» racconta la realtà quotidiana di milioni di persone che fanno i conti con la sfida per la sopravvivenza pur lavorando. È un ritratto della condizione di classe in America?
Senza dubbio. Proprio la pandemia ha messo in evidenza il fatto che una percentuale molto grande di americani vive di giorno in giorno solo grazie allo stipendio, senza poter contare su risparmi o altri tipi di risorse: quello che prendono, ammesso che basti, deve servire per tutto il mese e non avanza niente. Sono cresciuto con una madre single costretta a fare due lavori per mantenerci e quindi vivere sempre al limite mi ha accompagnato da sempre. Per questo volevo scrivere un romanzo della working class che non ne prendesse necessariamente le parti, non forzasse gli elementi politici della vicenda – che sono del resto fin troppo evidenti -, non cercasse di nobilitare la povertà ma offrisse piuttosto una descrizione reale di queste vite lasciando che i personaggi facessero il resto.
Il protagonista è consapevole delle proprie difficoltà, ma riesce ad affrontare tutto con una certa dose di ironia. Come fa?
Può contare su un acuto senso dell’umorismo perché ne ha bisogno. La condizione della povertà può essere davvero soffocante e l’umorismo è forse il meccanismo di difesa più grande che l’umanità sia riuscita a creare. Più si affonda nel dolore, è più la capacità di ridere è intensa e necessaria. L’umorismo migliore è sempre radicato nel dolore.
Di fronte alla crisi del sogno americano, resa evidente dalla sua stessa condizione, Mike sembra volerne reinventare uno intorno all’amore per i libri e l’arte topiaria. È possibile?
Quando avevo otto anni decisi che volevo fare il romanziere e guadagnarmi da vivere scrivendo libri. Ci sono voluti decenni perché riuscissi a realizzarlo, ma negli ultimi quindici anni posso dire di aver vissuto fino in fondo il mio sogno. Ritengo che tutto sia ancora possibile in America. Il problema è che per le persone che sono emarginate dal punto di vista sociale e economico ci vorranno molta più fatica e tempo per arrivarci rispetto agli altri. Con questo romanzo volevo svegliare il moribondo sogno americano, afferrarlo per il colletto e spruzzargli un po’ d’acqua in faccia. O meglio, inventarne uno nuovo, slegato dai principi del capitalismo, della politica dell’identità o di qualsiasi altra misura concreta se non la volontà umana di inventare noi stessi come meglio desideriamo.
Ha un padre messicano, vive in una riserva indiana e quello che diventerà il compagno della madre è un nero. Non è un caso che di Mike ci abbia raccontato tutto questo: assomiglia al volto della povertà in America?
In realtà ci sono anche moltissimi poveri bianchi. Ma le «persone di colore» hanno di fronte a sé una serie ulteriore di ostacoli e svantaggi che vanno al di là del solo dato economico. Come essere un ragazzo nero e farsi trascinare per strada da un poliziotto. Un genere di incontro che potrebbe risultare fatale. Si tratta di qualcosa con cui non ho mai avuto a che fare in prima persona, ma ho un numero sufficiente di amici neri per i quali invece è una sorta di terribile abitudine. Il risultato è che vivono secondo un insieme di standard diversi dagli altri.
Come il protagonista, anche lei ha fatto ogni sorta di lavoro mentre cercava di affermarsi come scrittore. Quanto c’è di quelle esperienze nel libro?
Ho iniziato a lavorare da ragazzino occupando i tavoli di un ristorante di Seattle dove mia sorella faceva la cameriera. Per gran parte della mia vita ho servito le persone in un modo o nell’altro. Dopo il diploma ho trovato lavoro in dozzine di posti diversi. Nessuno era particolarmente glamour, ma tutti rigorosamente sottopagati. Sono stato via via controllore dei contatori del gas, badante, selezionatore di pomodori marci, responsabile di tele-vendite di occhiali da sole, addetto ai ricambi per auto… Tra tutti quei lavori assurdi il mio preferito era di gran lunga il giardiniere. Dovevo diserbare le aiuole, potare le siepi, falciare i prati e spargere il concime: tutti compiti che si prestavano a un mix inebriante di concentrazione e astrazione, lo stato perfetto di equilibrio mentale per l’autore di romanzi che fino a quel momento erano rimasti inediti.
L’America di Mike è anche quella che ha eletto Trump. Al suo interno sembrano convivere però due paesi che hanno poco in comune. Come stanno le cose?
Il Paese non è mai stata più diviso quanto a visione del mondo e filosofia di vita. Rabbrividisco pensando che Trump possa essere rieletto o rubare le elezioni di novembre. Lo zoccolo duro dei suoi sostenitori vuole solo bruciare l’intero sistema. Il problema è che la maggior parte di loro non capisce neppure come funzioni, o possa in caso essere perfezionato il sistema stesso. Sono solo reazionari. Non hanno alcun tipo di visione per l’America, sono solo alla ricerca di ciò che percepiscono come una vendetta. E questo stato d’animo è un vaso di Pandora da cui potrà uscire qualunque cosa.
Come se la passano i ragazzi che ha descritto nel libro durante la pandemia? Si ha l’impressione che possano essere le prime vittime, sul piano della salute come del lavoro, del virus.
Ammetto di generalizzare parecchio, ma dal mio osservatorio – vale a dire quello di qualcuno che oggi ha la pancia piena e sta ben al riparo -, ho l’impressione che molti giovani, pur essendo colpiti dalla pandemia in termini economici non sembrano prendere troppo sul serio la minaccia. Oppure sono semplicemente costretti a lavorare contro ogni buon senso. O forse per capire meglio cosa accade dovrei tornare per strada…
Nei suoi romanzi, accanto all’ironia, emerge l’interesse per una forma narrativa classica e quasi la ricerca di una «saga» della vita quotidiana.
Molti romanzieri arrivano direttamente dai corsi universitari di scrittura e hanno poca esperienza della vita, almeno fuori delle aule. Personalmente amo la narrativa della working class. Ecco perché mi piace Dickens che ci salvò dal romanzo vittoriano, che in genere si occupava dei ricchi e dei proprietari terrieri. Dickens ha scritto sulla povertà, sul lavoro minorile e sui settori emarginati della società vittoriana. Gli scrittori americani che amo hanno lo stesso Dna dell’autore di Oliver Twist: Twain, Steinbeck, Norris; le loro simpatie andavano ai lavoratori.
Mike divora un libro dietro l’altro e fa dell’ironia su molti autori famosi, da Hamsun a Céline, in particolare sul modo in cui trattano i temi della vita quotidiana. È lo spirito dell’ex punk che riemerge in lei?
Trovavo divertente che leggendo La fame di Hamsun Mike pensasse, come avrei fatto io alla sua età, che le persone povere e affamate che conosceva non erano poi così interrati alla propria crescita filosofica, quanto a dei grandi cheeseburger fumanti. Da ragazzo volevo leggere cose che parlavano di un mondo che assomigliava al mio, a quello di una famiglia di lavoratori che faticava ad arrivare alla fine del mese. Le persone intorno a me arrancavano dentro a un sistema truccato che non gli offriva alcuna chance solo perché non avevano soldi.
Gli Usa stanno cambiando profondamente, come cambia la letteratura del Paese?
L’America è alle prese con una massiccia reinvenzione e penso che questo renderà affascinanti anche i romanzi dei prossimi anni. Qual è la nostra identità nazionale ora che non siamo più alla guida dell’ordine mondiale? Qual è il nostro nuovo idealismo? Emerson e Whitman parlavano dell’«esperimento americano» e io penso che quell’esperimento abbia ancora senso e che la letteratura americana sia pronta per un grande ritorno.
Questo articolo è stato pubblicato su Ilmanifesto il 21 maggio 2020

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