di Luigino Bruni
Lo smart working e la scuola a distanza hanno allargato le nostre opportunità, ma aumentato le diseguaglianze, ridotto la socialità e la creatività del lavoro
Che cosa abbiamo imparato in questi due mesi sul lavoro e sulla scuola? Le cose positive sono sotto gli occhi di tutti, e non sono poche. Scoprire che molte cose che prima facevamo solo ‘in presenza’ si possono fare anche da casa, è stato emozionante e incoraggiante. Lo smart working ha allargato le nostre opportunità, ha arricchito il nostro set di offerta lavorativa, ha ridotto l’inquinamento e il traffico di cui non abbiamo certo alcuna nostalgia. Abbiamo parlato e collaborato con persone lontane che non avremmo mai raggiunto senza questi nuovi strumenti.
Dei limiti e dei danni di queste innovazioni si parla, invece, meno. Il primo di essi ha a che fare con il rapporto tra l’insegnamento a distanza e la diseguaglianza. Chi, come me, sta facendo molte lezioni online, anche usando le piattaforme più evolute, si è accorto che gli studenti più abili e motivati partecipano e apprendono, quelli meno motivati e con qualche problema pregresso di apprendimento fanno invece molta fatica. È molto difficile capire da casa che cosa accade dietro uno schermo con telecamera disattivata perché, dicono, ‘non funziona’. In aula un docente attento guarda, capisce, motiva, sprona; fare tutto questo online, soprattutto con aule numerose, è molto, molto più difficile. Per non parlare dei bambini e dei ragazzi figli di immigrati di prima generazione, che dopo questi mesi rischiano seriamente di regredire alla conoscenza della lingua italiana che avevano nel 2019. Il virus lascerà una scuola – non solo un’economia – più diseguale; e questa è davvero una brutta notizia, perché le diseguaglianze nell’infanzia e nell’adolescenza si moltiplicano nella vita adulta.
Sui ragazzi e ragazze in lockdown c’è ancora molto da dire. Siamo rimasti tutti sorpresi positivamente da come hanno resistito alla clausura domestica. Sono stati più virtuosi di quanto, quasi tutti, pensavamo all’inizio. E dobbiamo esserne molto grati. Ma, se vogliamo essere anche onesti (e un poco ‘politicamente scorretti’), sappiamo che c’è anche un lato meno luminoso della medaglia. I ragazzi e le ragazze hanno resistito a casa anche perché gran parte di essi erano già confinati nelle camere da ben prima della pandemia. Da anni i nostri adolescenti (e ormai anche i bambini) hanno rinunciato a molte ore all’aria aperta e ai giochi comunitari ‘in presenza’ perché troppo sedotti e incantati dagli smartphone e dai loro meravigliosi passatempo solitari. Stavano già molto bene nelle loro camerette da soli, e così hanno sofferto meno per la mancanza del gioco con gli amici. Giocavano già molto poco insieme, dopo la scuola, e hanno continuato a non giocare. Si ‘incontravano’ già dentro le loro macchine e hanno continuato a incontrarsi così. Vent’anni fa avrebbero sofferto molto di più per non uscire di casa, perché il paese dei balocchi era fuori, perché il sogno dei sogni era giocare con gli amici.
Nel Novecento abbiamo generato miracoli economici e civili perché abbiamo imparato a cooperare giocando insieme, molte ore tutti i giorni, e poi abbiamo ‘continuato a giocare’ lavorando insieme. La quotidiana lotta dei genitori per provare a ridurre il numero di ore che i fi- gli trascorrono incollati ai telefoni si è necessariamente rilassata molto durante la pandemia. Anche per questa ragione la chiusura della scuola è un fatto grave sebbene necessario, perché era la principale (a volte quasi l’unica) attività veramente sociale e comunitaria dei nostri ragazzi e ragazze; chiudendola abbiamo perso formazione e apprendimento, ma abbiamo anche perso abilità relazionale e comunitaria. Quando finirà l’emergenza sarà ancora più difficile far uscire tanti ragazzi e ragazze dalle loro stanze – lo stiamo già vedendo. La didattica online, nonostante tutti gli sforzi, sta aumentando il confinamento solitario dei nostri figli.
E poi c’è lo smart working degli adulti. Dopo l’entusiasmo per i primi webinar, nelle ultime settimane stiamo capendo che queste piattaforme di lavoro online funzionano bene per task individuali, funzionano benino per riunioni di routine, ma funzionano poco e male per riunioni dove dobbiamo trovare soluzioni nuove, per quelle che devono gestire situazioni davvero complesse e complicate. In una parola, funzionano poco e male per attivare le funzioni più qualitative dell’intelligenza collettiva, quella indispensabile per creare qualcosa di valore insieme. È la creatività il grosso tema al centro del lavoro online. Quando l’interazione avviene in presenza, le espressioni, le sfumature del viso e il tono della voce, i linguaggi facciali e del corpo, le parole non dette diventano gli input essenziali perché gli altri membri del team possano rilanciare, correggere, contraddire, sviluppare. E da lì partono le dinamiche meravigliose, e rare, dell’azione collettiva generativa. Alcune dimensioni dell’intelligenza collettiva si nutrono prevalentemente di corpo.
È la corporeità il grande tema al centro di questi cambiamenti. Nella stasi forzosa abbiamo innanzitutto capito che il corpo lo avevamo maltrattato, che avevamo corso troppo, che avevamo rispettato poco l’alternanza necessaria tra vita esterna e vita domestica – stando molto a casa abbiamo visto quanto poco c’eravamo stati finora. Poi abbiamo imparato che la presenza del corpo è più complessa di quanto non pensassimo nel 2019, e che in certi incontri si può essere presenti veramente anche se distanti fisicamente. E magari un giorno arriveremo a macchine così complesse da farci sentire, da casa, quasi come se fossimo presenti col corpo. Ma abbiamo imparato anche che per certe interazioni creative le pacche sulla spalla, la stretta di mano, il pasto insieme, l’abbraccio, sono ingredienti insostituibili.
Lo abbiamo capito con le ‘Messe online’, dove nessuna splendida omelia poteva sostituire l’assenza del ‘corpo’ dell’Eucarestia; e lo abbiamo visto, diversamente ma analogamente, in quelle riunioni da cui, mancando la res del corpo sociale, sono uscite decisioni disincarnate, poco profonde, non abbastanza vere. E poi ci siamo scoperti analfabeti nell’arte delle relazioni online. Ci abbiamo impiegato millenni a dar vita alla grammatica delle relazioni sociali; in due mesi ci siamo ritrovati in un mondo diverso, senza nessuna preparazione emotiva, simbolica, relazionale – come si evitano i conflitti su zoom? Come si risolvono? Come si comunicano l’anima e lo spirito? Finora abbiamo seguito l’istinto, ma non ha sempre funzionato bene. Non è allora difficile immaginare che se dopo la pandemia aumenteranno le riunioni da remoto (e aumenteranno), la nostra capacità creativa sarà quella più penalizzata.
Infine, nella vita sociale delle organizzazioni, molte cose davvero importanti accadono come effetto collaterale (by-product) delle riunioni ufficiali. Tutti siamo testimoni di idee essenziali e decisioni geniali che sono avvenute durante gli intervalli, mentre si prendeva un caffè, o si tornava dall’ufficio insieme in auto. C’è molta vita aziendale che accade dove e quando per la nostra intenzionalità organizzativa non dovrebbe accadere. Tutta questa ‘bellezza collaterale’ non si vede via Zoom. Non dimentichiamolo finché abbiamo ancora viva la memoria di come era il mondo pre-Covid.
Questo articolo è stato pubblicato su Avvenire il 15 maggio 2020