di Giorgio Moroni
Da diversi mesi volevo scrivere di una rivoluzione strisciante che interessa l’organizzazione del lavoro, in realtà è un nuovo paradigma che prende forma a partire dallo sganciamento del lavoro dal luogo (dal “posto di lavoro”) e dal tempo (dalla “giornata contrattuale”). Ora ci troviamo di fronte, improvvisamente, alle prove tecniche di una grande rivoluzione dall’alto, mondiale come una “guerra mondiale”, che trasforma agevolmente e senza resistenze i modi di vita, introduce nuove forme di disciplinamento sociale, e porta anche simbolicamente alla ribalta una trasformazionale epocale del lavoro rendendola – da timidamente sperimentale che era – obbligatoria e ineluttabile.
Alcune premesse sono inevitabili, visto il contesto nel quale si è immersi e all’interno del quale la riflessione deve pur continuare a svilupparsi imperturbabilmente. L’oggetto di studio non è il coronavirus: quindi non vengono presi in considerazione temi quali la validità, l’opportunità o l’inevitabilità delle misure adottate in questo paese come negli altri per fronteggiare la pandemia, perché non sono in grado di farlo, ed è molto probabile che oggi nessuno lo sia (la sensazione prevalente è che molti brancolino nel buio senza ammetterlo e che la discussione difficilmente si elevi da quella pur legittima della pausa caffè). Né è qui di interesse approfondire i danni collaterali della infezione, in particolare la rivoltante rinascita di sentimenti nazionalistici evocati per alimentare e glorificare una resistenza “italiana” (per il momento) al virus, o l’ottusa comunicazione con invito a “starsene a casa” rivolto a tutti ma in presenza di una elevata percentuale di popolazione che, fino allo scattare del lockdown, ha continuato a decine di milioni al giorno a uscire per andare a lavorare, e infine la psicosi mortifera di massa gabellata per senso di responsabilità a sostegno della ricorrente ricerca di untori. Così come non vengono qui toccati argomenti quali i nuovi dispositivi di governo nello stato di eccezione, come l’uso disinvolto della decretazione – ivi incluso quella di più infimo grado come il DPCM -, oppure l’esibizione in tempo reale dei numeri dei contagiati e dei morti e la minaccia delle ammende per i contravventori, allo scopo di incutere terrore e ottenere incondizionata obbedienza – tutti argomenti che dovranno comunque farci riflettere, a pandemia rientrata, su questa prima e assoluta epifania di una “economia di guerra” senza la guerra; e per lo più mondiale. Sono tanti i temi che è necessario tralasciare, sia pur a fatica e con fastidio mentre cerchiamo di salvarci con l’isolamento, per andare dritti al punto -ci si tornerà quando l’analisi potrà tornare a cimentarsi con questa svolta storica, non necessariamente l’unica o l’ultima dell’epoca in cui siamo entrati.
Il punto su cui vogliamo insistere è un altro. Il capitale, il modo di produzione capitalistico, è già all’opera dentro il virus e oltre il virus. Il virus come un “cigno nero” ha generato una crisi mondiale, di cui il capitale non è stato né causa né motivo, perché sia esclusa sin dall’inizio qualsiasi fuorviante ipotesi complottistica (questo anche e soprattutto se dovesse emergere a seguito di qualche inchiesta un qualche laboratorio di guerra batteriologica o virale gestito da terroristi o agenti segreti); e affinché inquinamento e polveri sottili, nonché le big farms con i loro allevamenti intensivi, rimangano opportunamente sullo sfondo, dove devono stare, più propriamente considerate come co-fattori. Ma il general intellect del capitale, o se vogliamo il suo “comitato di affari”, è già all’opera per valorizzare gli aspetti “igienici” di questa crisi, per far sì che anche questa crisi – possibilmente con miglior efficacia delle precedenti – possa essere usata per superare lo stallo dei processi di valorizzazione di capitale, per individuare come insomma si possa, per stare dentro la metafora digitale, approfittare di questo generale reset per riavviare un programma da tempo frozen o crashed (“impallato”).
Le aree di intervento del capitale, in questo fermo immagine che coglie una versione del suo sembiante che da tempo non era così antropomorfica, ovvero così rozza, senza i tradizionali cappelli a cilindro ma con teste diverse per il taglio o la foggia dei capelli, sono due. La prima, è quella – tradizionale – del ricorso massiccio all’indebitamento. L’”economia di virus” si avvale già di una politica monetaria compiacente, a giudicare dalle sempre più strabilianti manovre finanziarie varate, riservandosi di programmare gradualmente la selezione delle attività eligible, quelle su cui investire perché con un coefficiente di “marginalità” superiore, iniettandovi nuovo combustibile; assicurandosi inoltre il consenso sociale attraverso nuove modalità emergenziali di welfare (soldi in tasca, come nel Trump show). Tutti ci ritroveremo in contesti economici e sociali completamente nuovi, alla cui progettazione e realizzazione non avremo partecipato se non come testimoni passivi o meglio sudditi. Con l’”economia di virus”, in una di quelle situazioni di emergenza assoluta che più gli sono congeniali, il capitale riscoprirà la propria vocazione novecentesca alla pianificazione, scrollandosi di dosso le incertezze quotidiane e le rischiose volatilità della fase finanziaria. Ma di questo non voglio e non posso occuparmi perché è superiore alle mie forze, salvo osservare che, in fondo, qui non c’è nulla di particolarmente nuovo o sorprendente, ferma l’usuale potenza e la possibile efficacia del deal; e che il nuovo ed estremo piano del capitale – in quella che comunque si configurerà come una fase di passaggio a una nuova epoca – si troverà di fronte una umanità sconvolta, tendenzialmente disciplinata dalle regole obbligate dell’emergenza totale e assuefatta alla loro fedele osservanza; così, almeno, all’inizio.
La seconda area di intervento riguarda il lavoro, e questa volta nel ritorno all’antico c’è la novità. Poco dopo la seconda metà del secolo scorso in tutto l’occidente capitalistico le lotte operaie con la loro dinamica rivendicativa avevano estenuato e destrutturato il fordismo portando a una espansione delle garanzie del welfare oltre i limiti della compatibilità e rendendo critico il conseguimento del profitto a partire dalla fabbrica tradizionale. La conseguente ricerca del margine, di nuove forme di accumulazione fuori della fabbrica, attraverso i processi di globalizzazione della produzione governati negli ultimi decenni dal capitale finanziario, al di fuori di ogni razionalità economica, si è sostanzialmente avviata verso il fallimento, e ora è il fattore lavoro che può tornare al centro dell’interesse. Al termine di un lungo periodo in cui solo lo spaventoso sfruttamento del lavoro delle periferie del mondo (periferie tali rispetto a quello “occidentale”) ha garantito remunerazione al capitale investito, si torna a investire centralmente sul lavoro. Di quale lavoro stiamo parlando? Dopo che le macchine hanno assorbito gran parte del lavoro manuale, anche ampie porzioni di questo sono state digitalizzate, mentre il residuo lavoro manuale non digitalizzabile (quello edile e stradale, oppure quello dei trasporti, o quello relativo alla manutenzione dei corpi incluso le consegne a domicilio, ad esempio) è stato fortemente coinvolto dai processi migratori e si avvale quindi di una forza lavoro di riserva tuttora ricattabile e comprimibile. Il lavoro cognitivo, che aveva la sua premessa nella crisi del regime di accumulazione fordista/industriale e si è autonomamente affermato nel progressivo esaurirsi della razionalità economica del capitale, nella crisi del rapporto tra profitto e ricchezza sociale, impone oggi la sua modalità all’intera società attraverso il lavoro agile o smart, attraverso lo smart-working.
Da tempo alcune società di servizi, spesso multinazionali, si erano dotate delle tecnologie necessarie per introdurre gradualmente forme di smart-working al proprio interno, imponendo ai propri manager obiettivi di avviamento a tale modalità di tutti i dipendenti fino ad almeno una settimana lavorativa per mese. Forse è opportuno a questo punto uscire da un equivoco. Lo smart-working non è il telelavoro – come quello disciplinato dalla normativa vigente in Italia, ad esempio. Il presupposto dello smart-working non è infatti che si lavori a casa esattamente come se si fosse in ufficio, quindi con gli stessi orari dell’ufficio. Con lo smart-working, applicabile indifferentemente a dipendenti consulenti o “partite iva”, cambia completamente lo scenario e la prestazione si svincola dall’orario per articolarsi nell’obiettivo di impresa, nella produzione di ricavi. Smart working è infatti una filosofia manageriale che si fonda su un rovesciamento della prospettiva: alle persone viene “restituita” flessibilità ed autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare, in cambio della responsabilizzazione sui risultati. La fase preliminare ed essenziale del nuovo corso è quindi il goal setting, l’individuazione – a inizio anno – degli obiettivi da ottenere nell’anno lavorativo; possono essere obiettivi economici legati al raggiungimento di un budget ma più spesso sono obiettivi gestionali, dalla smaterializzazione dei documenti cartacei, alla digitalizzazione dei processi amministrativi, alla creazione di prodotti, all’efficienza di nuovi processi distributivi, al customer care, ecc. L’accettazione di obiettivi comporta evidentemente l’introduzione di forme crescenti di retribuzione variabile il cui volume può arrivare a eguagliare o superare il salario base e la remunerazione fissa. Questi obiettivi saranno prevalentemente slegati dalla presenza di un orario di lavoro, o meglio lo saranno solo nel caso in cui lo smart-worker svolga servizio di assistenza al pubblico, e in questo caso non potrà che esserci una rigorosa turnazione. Ma in tutti gli altri casi il raggiungimento della performance sarà ottenuto a prescindere dall’esistenza di un orario di lavoro. Anzi, l’accettazione di obiettivi necessariamente sfidanti, considerata la prospettiva del bonus, induce a oltrepassare la dimensione classica della giornata lavorativa, quella contrattuale, lavorando dalle prime ore dell’alba e talvolta fino a notte; e spesso anche nei giorni festivi. La lavorazione a cottimo, sostanzialmente scomparsa nell’industria manifatturiera, ricompare, magicamente riproposta al lavoro cognitivo di massa e da lì torna a pervadere la società.
Come viene reso possibile e accettabile il passaggio a nuove forme alienanti di cottimo? Si dà luogo inizialmente a forme di dissuasione dalla permanenza dell’obsoleta “forma ufficio” attraverso l’introduzione di open space con scrivanie spersonalizzate precedute dall’obbligo di utilizzare modalità lavorative completamente paperless e di portarsi il pc a casa. Scompaiono quindi le vecchie scrivanie con foto e ninnoli personali, e ogni giorno sarà una scrivania nuova e diversa, senza che questo possa restituire al lavoro quella patetica attrazione costituita dal proprio “banco” con oggetti e pratiche personali, oppure dalla cerimonia del caffè e delle battute post-partita con il collega a fianco. Segue l’invito esplicito a “starsene a casa” (proprio così, e oggi dobbiamo dire: un invito ante litteram) per almeno enne giorni nel corso della settimana, sottolineando i vantaggi della serenità – niente stress pendolare da viaggio in andata e di ritorno -, del tempo risparmiato (quello per raggiungere il luogo di lavoro), del risparmio economico (ancora il viaggio, ma anche la baby sitter in qualche caso), e infine del miglioramento del work-life balance, che la soluzione proposta presenta. Questa presentazione induce il lavoratore a pensare che nella proposta di “non presentarsi sul luogo di lavoro”, nella scomparsa del cartellino, non si nasconda la volontà di emarginarlo e alla lunga di ristrutturarlo o tagliarlo; anche perché parte del bonus è proprio legato alla quantità di lavoro effettuato in modalità smart. Così facendo gli uffici si svuotano costantemente di almeno un terzo dei posti di lavoro, e in tale prospettiva i locali vengono velocemente ristrutturati perché non possano accogliere più di due terzi degli addetti, con questo tagliando i ponti alle proprie spalle circa il ritorno al canone lavorativo precedente; mentre il resto dello spazio viene destinato a sale riunioni. È evidente che questa soluzione consente di per sé risparmi sui costi di affitto dei locali, in caso di trasloco, ma non è questa la ragione prevalente della nuova strategia.
Già le prime statistiche sulle ore di utilizzo del pc connesso al server aziendale nonché la quantità e la qualità del lavoro prestato mostrano impennate record della percentuale di produttività, con riferimento al tempo di lavoro in modalità smart. Scompare il tasso di assenteismo, scompare l’assenza per malattie. Lo smart-working è attivabile con flessibilità, e quindi in presenza di un malessere un lavoratore commuta facilmente una potenziale assenza per malattia con la richiesta di una o più giornate di smart-working in cui il lavoro sarà ugualmente erogato. Perché nulla cambia agli effetti della prestazione, del raggiungimento del goal, il cui ottenimento va perseguito a prescindere dalle assenze per malattie, che si sia “in mutua” o meno. Lo smart-worker si avvia quindi a diventare progressivamente un manager, più esattamente un micro-manager, un manager di sé stesso. Il suo obiettivo di vita, perché nello smart-working la giornata lavorativa si estende fino a coincidere con quella esistenziale, integra e rispecchia quello dell’azienda. Egli è parte cosciente del ciclo complessivo pur senza alcuna facoltà e capacità di determinarlo, mentre il controllo sulle condizioni della produzione, da parte del top-management, è implicitamente garantito dalle nuove regole di ingaggio. Il lavoro cognitivo, a lungo considerato, da imprenditori e manager, come poco produttivo, attraverso l’uso estremo della digitalizzazione applicato al cottimo, è trasformato in una nuova leva di ricchezza. Ecco che ci troviamo quindi in quella situazione in cui nella produzione il principale capitale fisso diviene l’uomo stesso. Il suo surplus comportamentale è estratto e messo a valore. L’incremento della produttività raggiunge livelli tali da preoccupare il top management circa la resistenza e a inviare warning ai propri dipendenti con raccomandazioni a seguire delle regole quali quella di individuare un orario lavoro, vestirsi come se si andasse al lavoro, prevedere delle pause. Esaminata da un punto di vista operaistico, questa è la suprema diavoleria del capitale cognitivo. Laddove esisteva il cartellino da timbrare rigorosamente e il controllo dei tempi, ora abbiamo l’invito a lavorare da casa, a restare a casa, a non venire in ufficio. La dotazione di devices molto evoluti, collegati ai server aziendali, consente di lavorare da remoto (da casa) come e meglio, oltre che di più, che in ufficio. Inoltre, la maniacale e meticolosa cibernetizzazione di ogni funzione provoca la scomparsa del decisore, sia intermedio che apicale: a decidere è la procedura o il manuale, mentre i top manager ormai decidono solo le operazioni straordinarie.
Nell’epoca industriale il tempo diviene moneta di scambio, ma l’organizzazione del lavoro è dominata e preordinata da fattori scientifici di divisione del lavoro che lo rendono totalmente prevedibile nella dimensione e nella qualità. Di qui sono arrivate le ore massime lavorabili, le pause e le feste, gli straordinari; l’organizzazione sorveglia e presidia le attività del lavoratore ma allo stesso tempo lo solleva da ogni responsabilità circa l’obiettivo finale. Nei modelli di smart-working, il tempo si fa liquido, come lo spazio, è condiviso tra organizzazione e “risorsa”, ma il suo gestore assoluto è lo smart-worker, è lui che mette in atto le azioni necessarie per raggiungere l’obiettivo, di cui è responsabile. Salta conseguentemente la segregazione fordista tra tempo di lavoro e di non lavoro, che peraltro non era presente nei sistemi rurali e artigianali precedenti alla rivoluzione industriale. Nella modalità smart spazio e tempo collassano, e la percezione del lavoratore è quella di riuscire a essere presente in contesti diversi e in un tempo che approssima continuamente il presente. Le tecnologie della connessione hanno prodotto un sistema di relazioni in grado di trascendere le due dimensioni, e smart è lavorare in tempi e luoghi diversi. Lentamente lo smart-worker si rende conto di operare in un contesto organizzativo mutato nei suoi fondamenti, muovendosi alla ricerca di un bilanciamento tra le richieste organizzative e le proprie abilità e attitudini personali: così la esperienza lavorativa sfocerà in una nuova definizione di sé, e la sua identità personale verrà costruita attraverso la dimensione professionale. Egli praticando il proprio ruolo lo ricrea continuamente (job crafting) e, schiavo del budget, incarna l’ideale dell’impresa. Come è già stato detto più volte, lungi dall’entrare nell’era della “fine del lavoro”, siamo in presenza dell’’era del “lavoro senza fine”, dove alla sempre più totale separazione dei corpi corrisponde l’attività sempre più interconnessa dei cervelli.
Milioni e milioni di lavoratori cognitivi in tutto il pianeta stanno massicciamente per entrare in questo nuovo mondo, che al momento non viene percepito così distopico o meglio orribile, come può apparire ictu oculi al vecchio operaista. Perché l’esperimento strisciante è diventato, attraverso l’emergenza del virus, rivoluzione. Oggi lo smart-working è salvifico, protegge dall’infezione, fa intravedere risparmi energetici, guarisce dall’assuefazione ai viaggi in automobile, dall’ossessione del possesso di un’auto, riduce l’inquinamento, riporta alla dimensione suggestiva del laboratorio artigianale aumentata dalla potenza della connessione. E oggi il lavoro “ai domiciliari” si diffonde in modo inarrestabile; all’alba del dopo pandemia, della prima pandemia interconnessa e mondiale, nulla sarà come prima; e il “nuovo mondo”, disciplinare e smart assieme, cercherà di imporsi come il migliore e l’unico dei mondi possibili, portando agli estremi i propri benefici fino a trasformarli nei suoi limiti; serve urgentemente un nuovo paradigma della critica.
Questo articolo è stato pubblicato su Effimera il 26 marzo 2020
Foto: Martha Rhosler House Beautiful, Bringing the War Home, 1967–1972