di Emilio Rebecchi
Due scene si sono impresse nella mia mente negli ultimi giorni. Una è quella di sanitari che trasportano qualcuno (uomo, donna) colpito da corona virus. La scena avviene in Cina, in una immensa città che neppure sapevo esistesse (l’ignoranza non ha limite), ed è una scena molto angosciante. La seconda è recentissima. Un’infermiera e una dottoressa vengono intervistate durante uno speciale del tg1. Siamo, mi sembra, a Cremona. Sono affrante per il lavoro che debbono svolgere. Il lavoro è troppo. Non hanno i mezzi necessari. La gente muore. Forse dovranno scegliere fra chi continuare a curare e chi lasciar morire. E alla domanda del giornalista se abbiano paura, sì urlano disperate. Sì. Sono immagini di guerra, anche se ufficialmente viviamo in pace, e forse, per alcuni, nel migliore dei mondi possibili.
Nella memoria mi tornano antichi ricordi, sia della seconda guerra mondiale e del seguente periodo, detto del dopoguerra (perché sono ormai piuttosto anziano), sia degli anni Settanta, quando partecipavo insieme ad altri, alle inchieste sulla salute nei luoghi di lavoro. In realtà un periodo molto duro, ma fecondo. Dapprima partecipai ad una ricerca sul lavoro a domicilio a San Giovanni in Persiceto, poi cominciai a lavorare coi consigli di fabbrica. Il nostro metodo era fondato sulla ricerca sul campo. Il gruppo operaio omogeneo era il protagonista. La validazione consensuale il risultato di un incontro (a volte anche burrascoso) fra tecnici (soprattutto medici e operatori sanitari) e operai. E anche braccianti, impiegati, molto raramente dirigenti nel lavoro pubblico e in alcune cooperative.
Si valutavano le condizioni di salute e i fattori di rischio. Si cercavano correlazioni ragionevoli fra le une e gli altri. La bronchite dipende di più dal consumo di sigarette, o dai fumi e particelle presenti nell’ambiente di lavoro? Era questo uno dei più banali esempi; il datore di lavoro attribuiva alle sigarette e tendeva a negare gli effetti di fumi e polveri. Viceversa i lavoratori.
Così per i rumori e i danni all’udito, la discoteca o la fabbrica? Così per l’illuminazione e i danni alla vista. Così per i ritmi, per la fatica fisica e mentale. E via dicendo. La ricerca delle cause di danno alla salute era stringente, vecchie nozioni venivano messe in discussione, anche il confronto con la medicina tradizionale raggiungeva momenti aspri; il medico di fabbrica, il medico internista e talora anche gli specialisti, non erano subito disposti a mettere in discussione le convinzioni tradizionali; i vecchi trattati di medicina, che dei luoghi di lavoro sapevano poco o nulla, rappresentavano una solida base su cui attestarsi per rifiutare una realtà per molti aspetti nuova.
L’avvelenamento delle campagne e delle città cominciava a palesarsi in tutta la sua drammaticità, ma gli effetti benefici dell’industrialismo, il grande miglioramento del tenore di vita erano sotto gli occhi di tutti. Quella minoranza che denunciava i possibili, e molto spesso reali danni alla salute (si considerino i danni da cromo, da amianto, da aniline, da radiazioni, da onde, e una lunghissima fila che segue fino ad oggi) era vista con diffidenza, quando non con sospetto.
I lavoratori, i gruppi omogenei, i consigli di fabbrica, in quegli anni portarono avanti con decisione l’affermazione, quasi una parola d’ordine, che la salute non era in vendita. La salute non è in vendita.
Molti contratti dovettero prendere atto in modo concreto di questa volontà dei lavoratori, e in primis degli operai, con misure di bonifica e miglioramento degli ambienti di lavoro, e con misure di controllo sui ritmi, sulla fatica fisica e mentale, sul benessere. Fu un’epoca che vide quindi un grande sviluppo della democrazia reale, e che contribuì, a mio giudizio, alle iniziative per le vicende politiche e parlamentari che portarono poi nel 1978, mi pare, alla riforma psichiatrica. Due conquiste storiche, che tutto il mondo ha guardato con interesse, ha discusso, e, almeno in parte ha condiviso.
Gli anni sono trascorsi, le lotte per la salute si sono affievolite, sia in Italia che nel mondo. I danni all’ambiente si sono progressivamente accentuati. Ci vuole oggi l’intervento di una ragazzina, Greta Thunberg, per ricordare ai governi la situazione difficile in cui comincia a trovarsi il nostro pianeta, a causa dello sfruttamento senza freni delle sue risorse. Si abbattono le foreste, si inquinano le acque dolci e i mari, si avvelena l’aria fino a renderla irrespirabile. Al danno alla salute degli umani si accoppia il danno al pianeta intero, e si crea così un circolo vizioso terribilmente pericoloso.
Non solo la salute ritorna ad essere venduta nei luoghi di lavoro, ma subisce sempre più danni anche nei luoghi di vita. La ricerca del profitto torna ad essere la chiave quasi esclusiva di regolazione del rapporto uomo natura con evidenti conseguenze negative sulla salute dell’uomo e della natura stessa.
In questi giorni, quando la Cina ha chiuso le attività per fermare il virus, si è rivisto il cielo azzurro sopra di lei. Poco tempo fa incendi paurosi hanno devastato l’Australia e la California,e poco prima la Siberia; i ghiacci dell’Antartide e del polo nord si sciolgono e i ghiacciai scompaiono dalle nostre Alpi; siccità e alluvioni, invasione in Africa di cavallette. Una situazione biblica, o alla Savonarola (memento mori!).
Troppo facile a questo punto, e più emotivo che razionale, pensare che anche all’origine dell’attuale epidemia i fattori ambientali e produttivi abbiano una qualche importanza. Delle domande comunque me le sono poste, e penso anche molti altri se lo siano chiesto. Perché l’epidemia di corona virus è cominciata in un’area fredda e umida altamente industrializzata ? E perché si è in seguito diffusa in altre aree fredde e umide altamente industrializzate come l’Italia e la Corea del Sud? Perché zone molto fredde e calde sono fin ad ora meno interessate? Perché il virus colpisce con effetti molto diversi? Quali fattori, oltre all’età, rendono le persone più vulnerabili? Forse fattori tossici di provenienza ambientale indeboliscono gli individui e li rendono più suscettibili? Non voglio diventare noioso e pesante. Che i ricercatori facciano con calma (ma non troppa!) il loro lavoro.
Quello che credo sia importante è un ritorno alla affermazione di quegli anni ormai lontani, e cioè che la salute non è in vendita. Ma ” la salute non è in vendita”, questa affermazione, ci obbliga a compiere una riflessione sugli avvenimenti e le scelte compiute a partire dagli anni novanta del secolo scorso, e ulteriormente sviluppate in questo ventennio. In questi anni, a mio giudizio, parallelamente alla ricerca del massimo profitto, si è progressivamente privatizzata la sanità. Un vero assalto alla diligenza, a cui hanno partecipato in tanti (gruppi industriali, assicurativi, holding specifiche e via dicendo). E anche tra i cittadini e fra gli stessi lavoratori si è diffusa l’idea (errata!, profondamente errata) che privato è meglio. Il cavallo di troia è stato quello classico: lunghe liste di attesa (non sempre oneste), interventi urgenti posticipati e via dicendo.
Accanto a questo la promessa di nuovi interventi che il pubblico non farebbe e il privato si’: le chirurgie estetiche, le diete, la medicina del benessere,e via dicendo. Per sviluppare il privato si sono tolte risorse alla sanità pubblica, non sono più stati assunti medici e personale sanitario, sono stati abbandonati interi settori decisivi per la difesa della salute, quali, ad esempio, la medicina scolastica, quella del lavoro. L’igiene pubblica si è progressivamente ristretta in personale e risorse. I medici di famiglia abbandonati a loro stessi, soffocati dalla burocrazia, privi di mezzi. La psichiatria in condizioni agoniche!
Abbandonata ogni idea di prevenzione, ogni attenzione alle necessità della medicina di urgenza, della chirurgia di urgenza, della costruzione di validi dipartimenti di emergenza (che pure erano stati progettati, e in alcune nazioni anche realizzati), dipartimenti che oggi sarebbero indispensabili, e farebbero risparmiare tante vite. Ma non voglio annoiare oltre.
Per concludere, quando questa triste epidemia sarà superata, non dovremo chiudere gli occhi e dimenticare. Dovremo al contrario riprendere la strada di uno sviluppo serio della sanità pubblica.
E il motto sia: la salute non è in vendita.