di Marianna Russo
Le nuove tecnologie hanno cambiato il lavoro, e quindi la vita delle persone. È fondamentale tornare a parlare dei rischi dell’iperconnessione sulla salute in un momento in cui tutto il lavoro è diventato digitale.
È inutile negarlo: la tecnologia ha cambiato la nostra vita e, inevitabilmente, sta trasformando anche il nostro modo di lavorare. Di per sé, non è nulla di negativo: pensiamo alle grandi potenzialità del binomio lavoro-tecnologia a partire dalla creazione di nuovi settori del mercato (ad esempio, il lavoro su piattaforme come Foodora, Just-Eat o Uber) e all’introduzione di nuove possibilità di lavoro grazie a strumenti tecnologici che consentono di svolgere la prestazione, in tutto o in parte, al di fuori dei locali aziendali, ampliando il coinvolgimento di lavoratori diversamente abili o comunque affetti da gravi condizioni di salute o impegnati nell’attività di cura di figli minori, disabili, anziani o ammalati.
È sotto gli occhi di tutti il prezioso contributo offerto dalla tecnologia al mondo del lavoro in questa grave situazione di emergenza sanitaria causata dalla pandemia da coronavirus: dalla didattica a distanza ai più svariati servizi online della pubblica amministrazione, passando per le molteplici modalità di smart working per dipendenti pubblici e privati.
Sappiamo bene, però, che non è tutto oro quello che luccica e che i lati della medaglia sono sempre due. Perciò, oltre ai pro, inevitabilmente, ci sono dei contro, cioè delle criticità che rischiano di ripercuotersi sulla salute e sul benessere del lavoratore, soprattutto in questi giorni di isolamento forzato in cui l’uso (e, talvolta, l’abuso) della tecnologia si presenta come l’unico modo per connettersi con il resto del mondo.
Tralasciando le problematiche relative agli aspetti ergonomici (ad esempio, a causa della postura assunta durante le tante ore spese davanti al computer) e ai rischi per la vista conseguenti a un uso smodato di pc, tablet e smartphone, è il caso di dedicare qualche riflessione ai cosiddetti rischi psico-sociali delle applicazioni tecnologiche al lavoro.
Il rapporto Working anytime, anywhere, redatto dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) e da Eurofound nel 2017 mostra un dato allarmante: i cosiddetti lavoratori digitali – e mai come ora ciascuno di noi potrebbe definirsi così, perché nello svolgimento quotidiano della nostra prestazione professionale adoperiamo prevalentemente, se non esclusivamente, strumenti tecnologici – lavorano di più rispetto ai dipendenti tradizionali. E per “di più” si intende sia il numero di ore dedicate al lavoro (e questo a prima vista potrebbe apparire molto strano, visto che l’uso della tecnologia dovrebbe agevolare la prestazione e, di conseguenza, ridurre i tempi di lavoro), sia l’intensità.
Si tratta di un vero e proprio campanello d’allarme: un ritmo eccessivo può comportare un overworking (superlavoro) e, quindi, un maggiore rischio da stress lavoro correlato (quel malessere fisico o psicologico causato dal fatto che le persone non si sentono in grado di superare i gap rispetto alle richieste o alle attese nei loro confronti) e dovrebbe essere messo in relazione con le statistiche sul crescente numero di lavoratori a rischio burnout.
Burnout significa letteralmente “bruciarsi” ed è un tipo specifico di disagio psicofisico connesso al lavoro, un lento processo di logoramento dovuto all’incapacità di sostenere e scaricare lo stress accumulato, che può essere accompagnato da sintomi psicosomatici, come l’insonnia, o psicologici come la depressione.
Al riguardo, uno studio condotto nel 2018 dall’Università di Yale riporta che il 20% dei lavoratori digitali risulta a serio rischio burnout. Il raffronto tra questi dati e quelli di un analogo studio svolto appena sette anni fa rivela un notevole incremento di casi. E uno degli elementi da prendere in considerazione per comprenderne la ragione è proprio l’iperconnessione.
Iperconnessione (o hyperconnectivity) è un termine coniato dai sociologi canadesi Anabel Quan-Haase e Barry Wellman per indicare la continua disponibilità che consegue all’essere costantemente raggiunti – in qualunque luogo, in qualunque momento e in qualunque modo – da ogni sorta di comunicazione relativa al lavoro: che si tratti mail, sms, telefonate, messaggi whatsapp, post su Facebook o Instagram. Non è importante il mezzo utilizzato: a essere dannosa è la continua esposizione a ogni sorta di comunicazione, e la punta dell’iceberg è l’assottigliamento del confine tra lavoro e vita privata.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha ripetutamente sottolineato la necessità di tenere separato orario di lavoro e tempo di riposo, ma la realtà ci insegna quanto ciò sia difficile: l’irruzione della tecnologia nella quotidianità crea l’occasione di frequenti interferenze, che vengono definite dagli studiosi time porosity, una sorta di osmosi tra dimensione online e offline del lavoratore. E per la lavoratrice, che generalmente gestisce maggiori responsabilità di cura, è un’impresa ancora più ardua, a maggior ragione nell’epoca del coronavirus.
La domanda è: come gestire in maniera soddisfacente il rapporto tra vita professionale, privata e familiare? Esiste il diritto a “staccare la spina” dal lavoro?
La cosiddetta “disconnessione” è la possibilità per il lavoratore di non utilizzare strumenti tecnologici e di non essere coinvolto in comunicazioni elettroniche relative al lavoro al di fuori dell’orario di servizio, senza subire conseguenze disciplinari o decurtazioni retributive. In altre parole, il dipendente, finito l’orario di servizio oppure durante le ferie, può tranquillamente spegnere il cellulare e il computer o decidere di non rispondere a telefonate e mail professionali.
In alcuni paesi europei, come ad esempio la Francia e la Spagna, la disconnessione è stata espressamente riconosciuta come “diritto” da una disposizione normativa ad hoc: qual è lo stato dell’arte in Italia?
L’art. 19 della legge n.81 del 2017 non parla di “diritto”, ma prevede che l’accordo tra datore di lavoro e smart workers individui i tempi di riposo e le “misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro”. È una norma che si riferisce esclusivamente al lavoro agile (o smart working): vuol dire che tutti gli altri non hanno alcuna tutela?
Ovviamente non è così: la disconnessione, anche se di questi tempi è sotto i riflettori, non è una novità dei nostri giorni. Si basa sul fondamentale principio di separazione tra sfera professionale e personale, garantito da norme cardine del nostro sistema giuridico, dall’articolo 24 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, dai commi 2 e 3 dell’articolo 36 della Costituzione italiana, passando per la direttiva dell’Unione Europea 2003/88 sulla regolamentazione dell’orario di lavoro e per il decreto legislativo 66 del 2003, che l’ha recepita.
La vera questione, perciò, non consiste nella mancanza di una legge che riconosca al lavoratore la possibilità di disconnettersi, ma nell’effettivo rispetto della linea di demarcazione tra tempo di lavoro e tempo di riposo, soprattutto in presenza delle nuove tecnologie.
Se, pur sapendo che non subiremo alcuna ripercussione negativa perché il riposo è un diritto, continuiamo a essere professionalmente connessi 24 ore e a sentirci sempre più sotto pressione, probabilmente non è soltanto una questione di diritto del lavoro, ma anche un problema sociale e culturale, che richiede un cambio di mentalità da parte dello stesso lavoratore.
Non è sufficiente che il datore di lavoro, nel rispetto della normativa sull’orario di lavoro, adotti le buone pratiche suggerite dalla contrattazione collettiva in materia (ad esempio, la chiusura serale e festiva dei server, la formazione e la sensibilizzazione per un uso ragionevole delle tecnologie, la distinzione tra numeri di telefono e indirizzi di posta elettronica professionali e personali): è indispensabile che il lavoratore comprenda l’importanza di un autentico riposo per ricaricare le energie psico-fisiche, coltivare con serenità rapporti familiari e sociali e, così, essere ancora più motivato e produttivo alla ripresa del lavoro.
Questo articolo è stato pubblicato su inGenere il 06 aprile 2020