Meno di una settimana fa usciva questo articolo su Internazionale, facendo luce su uno degli spaccati sociali più importanti e trascurati dell’attuale situazione d’emergenza. Con le rivolte che stanno scoppiando in questi giorni, questa testimonianza giornalistica sembra assumere ancora maggior rilievo [n.d.r.].
di Luigi Mastrodonato
Da 28 anni la cooperativa sociale Alice offre lavoro ai detenuti delle carceri milanesi attraverso alcuni laboratori di sartoria. Oltre 400 persone sono passate dalle sue macchine da cucire, mentre nella sede esterna viene assunto anche chi ha già scontato la pena. Da qualche giorno però l’attività è in crisi per l’emergenza Covid-19. Ai detenuti sono stati sospesi i permessi esterni di lavoro. Anche all’interno di alcune carceri, i laboratori sono fermi per il divieto di assembramento e per la limitazione degli ingressi dei volontari.
“Per noi è un disastro, non possiamo contare su una parte delle nostre risorse umane e ci è impedito di entrare nelle carceri a recuperare i materiali. Stiamo avendo problemi con le consegne”, racconta la presidente, Caterina Micolano. I detenuti sono assunti con regolare contratto. Una persona era in permesso esterno, in tre lavoravano nel laboratorio del carcere di Bollate, in due a San Vittore e in cinque a Monza – dove per ora l’attività prosegue. Altre cooperative stanno vivendo gli stessi disagi, che si riflettono anche sulla condizione dei detenuti. “C’è un grande senso di responsabilità tra queste persone, hanno compreso il momento. Non si tratta di una punizione legata alla loro condizione, quanto di un’anormalità che sta vivendo tutta la città di Milano”, continua Micolano. “Ma c’è anche un po’ di frustrazione. Speriamo questa situazione finisca presto”.
Quando hanno cominciato a diffondersi le notizie dei primi contagi tra Lombardia e Veneto, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) si è mobilitato per evitare che il Covid-19 potesse entrare nelle carceri. Si voleva scongiurare uno scenario cinese, con oltre 500 contagiati negli istituti penitenziari. Il Dap ha sospeso i trasferimenti dei detenuti verso e dagli istituti penitenziari di competenza dei territori di Torino, Milano, Padova, Bologna e Firenze. Ha poi vietato l’ingresso nelle strutture di operatori e familiari provenienti dalla zona rossa.
Con il passare dei giorni, le maglie sono state ristrette ulteriormente. A Milano sono bloccati i permessi premio e sospesi o ridotti gli ingressi dei volontari nelle carceri. Anche i colloqui dei detenuti con i familiari subiscono limitazioni: in alcuni casi, come nel carcere di Bollate, è consentito l’ingresso di un solo parente con mascherina; in altri, come a Bologna, si è deciso per la sospensione totale. Per compensare queste misure, i provveditorati locali dell’amministrazione penitenziaria hanno invitato gli istituti a privilegiare l’utilizzo delle telefonate e dei colloqui skype. All’esterno delle strutture sono intanto stati installati presidi per verificare lo stato di salute di chi entra e chi esce. Alcune carceri hanno creato sezioni di quarantena.
I sindacati di polizia giudicano queste misure inadeguate. “Non va sottovalutata l’insufficiente dotazione nelle carceri lombarde, venete, piemontesi ed emiliane di personale medico e sanitario. Bloccare ogni contatto con l’esterno è una priorità da collegare a una campagna di vera prevenzione e di comunicazione”, ha denunciato Aldo Di Giacomo, segretario del Sindacato polizia penitenziaria. Un inasprimento ulteriore delle misure rischia però di accentuare la già fragile condizione dei detenuti.
Carmelo Musumeci ha trascorso 26 anni della sua vita in carcere. Nel 1992 venne condannato all’ergastolo ostativo, due anni fa è stato liberato con la condizionale. In questi giorni sta circolando un suo articolo, ripreso da uno che scrisse quando si trovava in prigione, sull’importanza dei contatti familiari per un detenuto.
“In carcere la libertà è data con il contagocce”, mi racconta. “Se togli il contatto con l’esterno, diventa tutto difficile. Il permesso premio, le uscite, sono momenti fondamentali nella quotidianità, si vive per quello. In molti poi non possono beneficiarne per il regime ostativo in cui si trovano, resta solo il colloquio. Le restrizioni attuali sono anche comprensibili, ma si inseriscono in un contesto di già ampie limitazioni. I detenuti rischiano di perdere il loro ossigeno”.
È indubbio che l’emergenza Covid-19 stia influendo notevolmente sulla condizione detentiva di migliaia di persone. Una situazione che appare però inevitabile. “Finora sono state prese misure ragionevoli, dettate dalla paura che l’epidemia possa diffondersi tra i detenuti”, mi spiega Claudio Paterniti, ricercatore di Antigone. “Il carcere è storicamente un luogo in cui gli agenti patogeni si propagano facilmente, la precauzione è dunque necessaria”. In Italia tra la popolazione generale si stima un tasso di tubercolosi latente pari all’1-2 per cento, nelle strutture penitenziarie il dato sale al 25-30 per cento. Differenze simili riguardano poi altre patologie come l’epatite C o l’hiv.
Il contenimento di un virus in carcere è più complesso che nel mondo esterno. Questo, nella fase attuale, rischia però di essere il pretesto per un’erosione sproporzionata dei diritti dei detenuti. Le misure restrittive stanno in effetti interessando anche aree ben al di fuori dal contagio, come alcune carceri siciliane e laziali. “Il primo sacrificato oggi è il volontariato, e questo pone dei problemi per i detenuti. Le attività a esso connesse, in molti casi sospese, offrivano una risposta a una quotidianità grigia, spesso caratterizzata da noia e frustrazione”, sottolinea Paterniti. “Le circolari che giungono agli istituti contengono indicazioni variamente interpretabili. È importante che non prevalgano interpretazioni eccessivamente restrittive, con divieti che nulla hanno a che vedere con le giuste esigenze di prevenzione o che comunque sacrificano in maniera eccessiva i diritti dei detenuti”. Nel carcere di Bologna, intanto, un sindacato di polizia penitenziaria ha chiesto di impedire ai detenuti l’accesso al campetto sportivo interno.
Nel 2018, il Regno Unito ha deciso di installare un telefono all’interno delle sue celle, dando la possibilità ai detenuti di chiamare i parenti in ogni momento della giornata. La Francia ha preso lo stesso provvedimento, mentre in diversi paesi europei si tratta della normalità già da tempo. L’approccio italiano è molto diverso: i detenuti hanno a disposizione solo 10 minuti di chiamata a settimana.
Come sottolinea Musumeci, in carcere una telefonata può cambiare la vita. “Un detenuto ha tanti momenti di sconforto durante la giornata, attimi difficili che possono portare a brutte conseguenze”, mi spiega. “Avere la possibilità di telefonare a un proprio familiare, sentire la voce dei figli, può aiutare molto. Sono convinto che la liberalizzazione delle telefonate nelle carceri possa contribuire a ridurre il tasso di suicidi”. Negli istituti italiani nel 2019 si sono tolte la vita 53 persone, un dato ben superiore alla media europea.
Con l’emergenza Covid-19, si stanno allentando le maglie relative alle comunicazioni con l’esterno. Diverse carceri hanno consentito l’utilizzo di skype e c’è maggiore flessibilità anche sulle telefonate. “Questa occasione può aumentare la consapevolezza che un incremento dei contatti telefonici esterni per i detenuti non è un male”, spiega Susanna Marietti, coordinatrice di Antigone. “Oggi viene fatto per colmare l’assenza di colloqui nelle zone a rischio, un domani potrebbe avvenire in parallelo a essi, permettendo il progresso di un sistema pachidermico”.
Oggi, di fatto, l’emergenza Covid-19 sta obbligando la sperimentazione di alcuni di questi punti. “Le restrizioni sono accettabili quando hanno un senso, quando si è davanti a un pericolo. Ma che rischio può comportare una liberalizzazione delle comunicazioni con i propri cari?”, chiosa Musumeci. “La speranza è che dal male di questi giorni possa venire qualcosa di buono per i diritti futuri dei detenuti”.