di Domenico Gallo
Appena conosciuti i risultati delle urne in Calabria ed in Emilia Romagna, dopo poche ore, il Consiglio dei Ministri ha assunto una decisione politicamente rilevante fissando al 29 marzo la data per lo svolgimento del referendum avente ad oggetto la riforma costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari. Con tale decisione si è voluto ridurre al massimo lo spazio temporale fissato dalla legge per l’indizione del referendum allo scopo di evitare che un approfondito dibattito pubblico sulla riforma possa portare ad un ripensamento nell’opinione pubblica.
Evidentemente ha preoccupato lo straordinario crollo dei consensi del principale sponsor politico di questa riforma, il Movimento 5 stelle che ne aveva fatto una questione identitaria, tanto da mettere nel piatto delle trattative per la nascita del governo Conte 2 l’urgenza dell’approvazione della riforma. Nel voto finale, l’8 ottobre 2019, la Camera si è pronunciata quasi all’unanimità poiché tutti i partiti temevano l’impopolarità di una scelta contraria. Senonché il voto del 26 gennaio ha dimostrato come si può sgonfiare rapidamente un consenso fondato sulle illusioni dell’antipolitica: di qui l’esigenza di correre al voto prima che quel consenso si esaurisca del tutto. Ma andiamo alla sostanza del problema.
Tagliare il numero dei parlamentari riducendoli a 400 per la Camera dei Deputati e 200 per il Senato della Repubblica non è solo una questione di numeri o di costi. Si tratta di una riforma destinata ad incidere sulle modalità di organizzazione della rappresentanza attraverso la quale si esprime e si realizza il principio fondamentale della Repubblica secondo cui la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. La riforma riguarda proprio le forme e i limiti attraverso i quali si esercita la sovranità. Nel 1948, i Costituenti hanno stabilito che il numero dei parlamentari fosse proporzionato alla popolazione. La formulazione originaria degli artt. 56 e 57 prevedeva un deputato ogni 80.000 abitanti e un senatore ogni 200.000.
Ciò ha fatto sì che il numero dei deputati e dei senatori variasse in ragione dell’incremento della popolazione (nella prima legislatura i deputati furono 572, nella seconda 590, nella terza 596). Con una riforma costituzionale del 1963 (L. 9/2/1963 n. 2) il numero dei Deputati fu fissato definitivamente in 630 e quello dei senatori elettivi in 315. In questo modo fu leggermente modificata la proporzione fra elettori ed eletti fissata nel 1948. Poiché la popolazione italiana ha superato i 60 milioni, attualmente il rapporto è di un deputato ogni 96.006 cittadini e di un senatore ogni 188.424.
Con la riforma costituzionale questo rapporto passa ad un deputato ogni 151.210 cittadini ed un senatore ogni 302.420 (per quanto riguarda la Camera si tratta della percentuale più bassa in Europa, 0,7 ogni 100.000 abitanti). La riforma comporta la riduzione del 36,5% del corpo dei rappresentanti del popolo italiano. Gli effetti negativi sulla capacità degli eletti di rappresentare le domande politiche, le aspirazioni e le culture presenti nel popolo italiano si sentiranno soprattutto al Senato dove rimane in vigore il principio che i senatori sono eletti su base regionale. Basti pensare che 9 regioni (escludendo Molise e Valle d’Aosta) eleggono fra i 3 e 5 senatori.
Ciò significa che ci sarà una soglia implicità di sbarramento altissima, qualunque sia la legge elettorale e che milioni di cittadini perderanno la possibilità di avere dei rappresentanti in cui riconoscersi. Come ha osservato la costituzionalista Alessandra Algostino (Perché ridurre il numero dei parlamentari è contro la democrazia): “riducendo il rapporto fra cittadini e parlamentari, si incide sulla rappresentanza, sia da un punto di vista quantitativo sia da un punto di vista qualitativo. Quantitativamente aumenta la distanza fra rappresentato e rappresentante.
Il riverbero sulla qualità della rappresentanza è evidente, con una diminuzione della possibilità per il cittadino di veder eleggere un “proprio” rappresentante, abbassando il grado di potenziale identificazione del rappresentato con il rappresentante”. Il taglio dei parlamentari sommato alle norme elettorali in vigore apre una ferita nella capacità di rappresentare i cittadini, i territori, le posizioni politiche esistenti nel paese L’obiettivo del taglio dei parlamentari e di un esasperato maggioritario è un Parlamento più piccolo ma ancora più obbediente ai capi. Siamo sicuri che è di questo che abbiamo bisogno?
Questo articolo è stato pubblicato da Corriere Irpinia il 31 gennaio 2020