di Salvatore Settis
Quanto ci mancano Fruttero e Lucentini! Forse solo loro potrebbero commentare degnamente non solo la transizione acrobatica di Giuseppe Conte dalla versione Conte 1 alla versione Conte 2, ma anche l’aplomb del presidente del Consiglio in carica, la calma apparentemente serafica con cui affronta le quotidiane risse di governo, la capacità negoziale, quel suo fintamente placido “incassare” le difficoltà come un pugile che si lascia pestare senza un lamento, e intanto prepara la prossima mossa. Insomma, un perfetto physique du rôle.
Se avessi un tavolino adatto e conoscessi un medium affidabile, a Fruttero e Lucentini chiederei se non riscontrano, in questo premier foggiano, qualche tratto di quello spirito levantino che descrissero così bene, secoli fa, a proposito di un altro pugliese, Aldo Moro. Un inventore di “convergenze parallele” e di altre figure di geometria non euclidea, che lo spirito subalpino dei due scrittori vedeva come appropriata a un Medio Oriente di pazienti trattative, calcolati silenzi, parlare coperto. Un Medio Oriente, si capisce, esteso alle Puglie. Ma Fruttero e Lucentini avevano una spiegazione pronta: dietro la maschera di quel professore barese, giurista e democristiano, si celava in realtà – scrissero – un abilissimo arabo, Al-Domohr.
Capace di costruire alleanze con il Pci, ma anche di negarle. Di asserire marmoree fedeltà agli Usa, ma conversando con l’Urss; di schierarsi con Israele e (lo stesso giorno) aprire alla Palestina; di far professione di laicità andando a messa. Onde, per dire, la teoria delle convergenze parallele, esposta in “diciotto volumi (rilegati in marocchino!) scritti in puro arabo del deserto” risultava incomprensibile ai più. Quel fine ritratto ebbe il solo torto di uscire (nel romanzo L’Italia sotto il tallone di Fruttero e Lucentini) non molto prima del rapimento di Moro, e poi del suo assassinio, tragico per lui e per l’Italia; e anche se il profilo di Al-Domohr non aveva proprio nulla di irrispettoso, parve inappropriato in quelle circostanze, e fu rapidamente dimenticato.
Sarebbe forse il caso di riesumare quel testo spiritosissimo e acuto: che partiva dall’ipotesi, oggi forse ancor utile, di una speciale inclinazione levantino-pugliese ad adattarsi alle circostanze, a navigare sotto costa, a tirar fuori le unghie il meno possibile, facendo finta di niente, a proclamare intenzioni per poi mutarle chiosando serenamente se stesso, dando per scontate le più inusitate metamorfosi. D’accordo, un “carattere pugliese” in verità non esiste, come non esiste un “carattere piemontese”; ma forse qualcosa della scuola di Al-Domohr resiste e si perpetua in un altro giurista pugliese, Yusuf Al-Kwnt detto Giuseppi.
Avrà forse trovato in un cassetto di Palazzo Chigi un manuale di geometrie non euclidee, ricco di ellissi quadrate, sfere cubiche e pentagoni triangolari. Dovrebbe essersene accorto Salvini, caso mai fosse capace di una pausa di riflessione (nulla di più improbabile). Dovrebbe aver capito che il suo più grande errore non fu scatenare la stolta crisi d’agosto che lo buttò fuori dal governo, ma rifiutare, al momento della formazione del governo gialloverde, che a Palazzo Chigi andasse Di Maio. Si illudeva, il leghista, che un premier spuntato dal nulla, senza esperienza e senza poter controllare un partito, sarebbe stato alla sua mercé. E ora non gli resta che fantasticare come sarebbe stato più facile far fuori Di Maio, prendendosi Palazzo Chigi anche senza andare alle elezioni. Peccato che, nel suo malcelato disprezzo dei terroni, non gli venga in mente di studiare un qualche bignamino sull’etica di Al-Domohr.
Questo articolo è stato pubblicato dal Fatto Quotidiano il 23 gennaio 2020