di Nadia Urbinati
La decisione della Corte Costituzionale di giudicare inammissibile il referendum sulla legge elettorale proposto dal centro-destra ha messo in luce l’esistenza di due concezioni di democrazia: una costituzionale e una populista. La Consulta ha dichiarato il testo della proposta referendaria inammissibile perché “eccessivamente manipolativo”. La reazione di Matteo Salvini non si è fatta attendere: «Vergogna, è difesa del vecchio sistema». Non vi è di che stupirsi, ha commentato Massimo Luciani in un’intervista rilasciata a Repubblica, dei giudizi negativi dei proponenti sconfitti: «È un costume politico diffuso farsi piacere la Consulta quando ti dà ragione e considerarla eversiva quando ti dà torto».
Ma in questo caso Salvini, e con lui altri esponenti del suo partito e Giorgia Meloni, è andato oltre il giudizio di disappunto. Nel commentare criticamente il verdetto, Salvini ha gettato discredito non tanto su questa specifica Corte o decisione, ma sul ruolo stesso della Corte. La quale, ha dichiarato il capo della Lega, «allontana la democrazia, allontana i cittadini dai palazzi»; è «una delle ultime sacche di resistenza del vecchio sistema».
Non una legge elettorale o un sistema elettorale semplicemente, ha scatenato la reazione salviania. Ma un modo di procedere, quello che è a tutti noto come un modello democratico-costituzionale. Quella della Consulta, ha detto Salvini, è «una scelta contro la democrazia». Contro la democrazia perché limita e blocca il ruolo degli attori politici, ai quali, sembra di capire, appartiene la democrazia. Che non è dunque solo come un sistema di regole del gioco che non appartengono a nessuno dei giocatori, ma invece un meccanismo di potere che appartiene a chi compete politicamente per la maggioranza e il governare. Qui secondo Salvini sta la democrazia. Magistrati, istituzioni di controllo e di limitazione del potere sono non parte ma ostacoli della democrazia. Questo è il nocciolo della democrazia populista, che ha dato prova di sé in numerose esperienze passate e recenti, in America Latina e ora anche nel continente europeo.
In un discorso che tenne nel 1946, Juan Domingo Peròn si presentò come un vero democratico, in opposizione ai “demoliberali”, che, diceva, «difendono un’apparenza di democrazia», un gioco formale nel quale le regole contano più delle maggioranze, le corti più del governo. Il populismo non è solo contestazione e opposizione. Ha l’ambizione di governo e pensa di essere non una maggioranza tra le altre bensì la “vera” maggioranza, quella che le precedenti maggioranze non hanno espresso ma occultato e manipolato. Una maggioranza sostanziale – quella degli italiani “veri” – che l’audience e il gradimento del pubblico rendono molto meglio della conta dei voti. È questo dualismo tra democrazia “del vecchio sistema” formalistico e democrazia “vera” e sostanziale che fa capolino dietro l’attacco di Salvini alla Suprema Corte.
Una democrazia populista tollera a fatica o non tollera affatto quelli che sono i caratteri della democrazia costituzionale: la divisione dei poteri, l’indipendenza del potere giudiziario, lo statuto dei diritti fondamentali (che non sono quasi mai soltanto dei cittadini). Essa declassa queste condizioni normative di legittimità a ostacoli del decisionismo politico; li rubrica come ossificazioni del “vecchio sistema”, dell’establishment. Se potessero, i populisti scriverebbero le loro costituzioni per incardinare la loro maggioranza, stracciando i principi della generalità e dell’imparzialità della legge nel nome della volontà del loro popolo.
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano La Repubblica il 18 gennaio 2020