di Giovanna Borrelli
Gli ultimi giorni prima di Natale sono stati fondamentali per la sanità italiana. Con la firma del Patto per la salute 2019-2021 tra governo e regioni sono stati confermati i 3,5 miliardi previsti dal precedente esecutivo per il biennio 2020-2021 e previste altre misure per potenziare i livelli di assistenza e garantire la presenza di più medici anche sui territori. La legge di bilancio 2020 invece ha stanziato 8,5 miliardi per il 2020-2023, 2 miliardi di euro (in 11 anni) per la ristrutturazione edilizia e l’ammodernamento tecnologico, più altri fondi per disabilità e non autosufficienza e per oltre 1.200 contratti di formazione specialistica. Abolirà inoltre definitivamente il superticket – i dieci euro in più per ogni ricetta per l’assistenza specialistica ambulatoriale. Tutti provvedimenti che servono a rafforzare il Servizio sanitario nazionale (SSN), ma che per la Fondazione Gimbe, osservatorio indipendente sulla sanità italiana, non basteranno a garantire i princìpi di equità, solidarietà e universalismo sui quali si basa il SSN.
Il definanziamento degli ultimi dieci anni, che secondo le stime Gimbe ha raggiunto i 37 miliardi, ha innescato una serie di difficoltà nella gestione dell’assistenza che ha acuito le differenze tra regioni e compromesso l’efficienza del sistema. È quanto emerge anche da un recente resoconto dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio Lo stato della sanità in Italia. La spesa sanitaria pubblica italiana in rapporto al PIL (6,5% nel 2018) non si discosta molto dalla media dei Paesi che fanno parte dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) che si attesta sul 6,6%. L’Italia si colloca però sotto i Paesi dell’Europa settentrionale e centrale e sopra ai Paesi dell’Europa meridionale e orientale, ai Paesi Baltici e a Australia, Irlanda, Lussemburgo, Cile, Israele, Corea, Turchia e Messico.
Il distacco aumenta se si prende in considerazione la spesa pro-capite. Il SSN spende in media 2.545 dollari per ogni cittadino, un importo che il report giudica insufficiente ad affrontare le esigenze della popolazione italiana (con alta percentuale di individui oltre 65 anni e oltre 85 anni) e molto lontano, per esempio, dai 5.289 dollari della Norvegia e dai 5.056 della Germania.
Per tutti i Paesi dell’Europa meridionale, Italia compresa, le risorse destinate alla salute di ogni cittadino durante gli anni della crisi sono molto diminuite, ma mentre negli altri Paesi negli ultimi anni si è verificato un parziale recupero, per l’Italia l’aumento di risorse è stato limitato. Negli anni 2000 il Servizio sanitario nazionale e quelli regionali hanno subito delle modifiche con l’obiettivo di migliorare la gestione dei servizi e di responsabilizzare le regioni dal punto di vista finanziario. Soprattutto quelle in disavanzo, vale a dire con uscite superiori alle entrate. In particolare nel 2006 il governo ha deciso di introdurre i Piani di Rientro, programmi di risanamento e ristrutturazione dei servizi sanitari regionali (SSR).
Alcune regioni sono uscite quasi subito dai piani di rientro, in altre invece le regole sempre più rigide e il controllo centrale sempre più stringente hanno compromesso la quantità e la qualità dei servizi forniti dalle regioni. Le restrizioni imposte – imposizione di standard, tetti, budget e vincoli sulle diverse voci – hanno ridimensionato molte spese. Come quella del personale che ha dovuto rispettare il tetto massimo di uscite e il blocco del turn-over, ossia il ricambio periodico degli impiegati nel settore. Secondo i dati riportati dal report dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio, il personale del SSN è calato in modo continuo a partire dal 2010, registrando una diminuzione del 6,2%. I dipendenti a tempo indeterminato nel 2017 risultavano 42.800 in meno rispetto al 2008, riduzione che si è concentrata soprattutto nelle regioni in piano di rientro (36.700 persone in meno). Il personale non “stabile”, che comprende i direttori generali e il personale a contratto, è diminuito del 35%. Anche i servizi ospedalieri sono stati ridimensionati con l’obiettivo di spostare le cure su strutture meno costose e più vicine ai cittadini. In Italia il numero di posti letto (per 1.000 abitanti) negli ospedali è sceso da 3,9 nel 2007 a 3,2 nel 2017, contro una media europea che è diminuita da 5,7 a 5.
Tutte queste misure hanno provocato l’aumento dell’età media dei medici, la dilatazione dell’orario di lavoro e la riduzione della disponibilità di posti letto negli ospedali che ha determinato un problema di affollamento e difficile gestione dei servizi, soprattutto quelli di emergenza. Nelle regioni con piano di rientro le dimensioni troppo piccole delle strutture e le poche risorse hanno reso difficile riorganizzare il sistema in base alle nuove condizioni che si sono create. Una conseguenza del divario tra regioni è lo spostamento dei pazienti da una regione all’altra per curarsi, che comporta anche il trasferimento dei fondi dedicati all’assistenza. Sono le regioni meridionali, le Marche e il Lazio che si rivolgono soprattutto alla Lombardia, all’Emilia Romagna, al Veneto e alla Toscana. Le prime così hanno meno risorse e contribuiscono a finanziare i servizi sanitari delle seconde, ma anche ad affollarli.
A questo aspetto si aggiungono le difficoltà di accesso alle cure più o meno diffuse su tutto il territorio e determinate sia dalle lunghe liste di attesa per le visite che dall’aumento del ticket. Il superticket aggiungendosi a quello già a carico del cittadino, che può raggiungere un massimo di 36,15 euro per ricetta, ha spinto molte persone a rinunciare alle cure o a rivolgersi al privato. Anche a livello istituzionale alcune misure stanno favorendo il settore privato. In alcune regioni si sta sperimentando la “farmacia dei servizi”, che dà la possibilità alle farmacie di fornire una serie di prestazioni, come esami di laboratorio e altri test, monitoraggio dell’aderenza alle terapie, etc. Mentre alcune misure di agevolazione fiscale stanno promuovendo forme di welfare “di comunità” o aziendale che spinge verso la privatizzazione del servizio. Con l’utilizzo di soldi pubblici si permette alle aziende di risparmiare nella stipula di fondi sanitari integrativi per i propri dipendenti.
Negli ultimi anni la spesa a carico dei cittadini (ticket, pagamenti diretti di servizi e prestazioni) e per assicurazioni volontarie è aumentata. Secondo dati Istat del database Wealth for All, le macro-aree con spesa pro capite privata più alta sono il Nord-Est (697 euro) e il Nord-Ovest (626), seguite dal Centro (548), dal Sud (423) e dalle Isole (414). La rinuncia all’uso del servizio sanitario pubblico da parte di alcune fasce di popolazione potrebbe provocare nel tempo richieste di esonero dalle tasse che servono a finanziarlo e quindi mettere in discussione l’universalismo – garanzia di assistenza per tutti – su cui è fondato. Un elemento che nonostante il ridimensionamento delle risorse è riuscito a mantenere gli indicatori generali di salute e di efficacia piuttosto buoni, anche se emerge qualche segnale di difficoltà. La più grande sfida dei prossimi anni, conclude il report, sarà quella di garantire al Servizio sanitario un finanziamento in grado di sostenere l’equilibrio tra il progresso tecnologico del futuro e la garanzia dei servizi di base.
Questo articolo è stato pubblicato da Altreconomia il 30 dicembre 2020