di Silvia Napoli
Il genio dell’empatia, questa rara avis frutto di intelligenza emotiva, abita il teatro comunale di Casalecchio di Reno, titolato alla magnifica e in verità ispida concittadina Laura Betti, eccentrica musa pasoliniana. Si incarna infatti in primis nella lungimirante ed esperta direttora, donna di teatro a 360 gradi, che è Cira Santoro, una acuta osservatrice della nostra realtà letta da par suo con un umorismo e un calore insieme, forse tipici dei bolognesi acquisiti honoris causa.
Sto infatti pensando alla Cira scrittrice di qualche tempo fa, che incantò la città con i suoi folgoranti ritrattini di signore agée a zonzo sulla tratta della linea 20 del trasporto pubblico locale. Era nato come un gioco da social un po’ per celia e un po’ per noia e divenne prima un libro e poi un evento composito che servi a sensibilizzare in modo originale su tematiche di genere e di terza età solitamente seriosamente trattate.
Oggi Cira ha probabilmente molto meno tempo da dedicare alla scrittura, presa dalla gestione cosi ricca di proposte diverse di un teatro che, forte della sua appartenenza al circuito ATER, ha tutta l’autorevolezza per porsi come istituzione culturale metropolitana, tutt’altro che periferica, con il guizzo di una freschezza sperimentatrice che è attitudine della Direttora certo, ma che sposa perfettamente comprovate caratteristiche anagrafiche e di governance del territorio.
Mi sembra il caso di spendere due parole su Ater, una istituzione culturale nata comunque se non proprio dal basso per come lo intendiamo attualmente, comunque da una verve associativa e partecipativa tipica specialmente qui negli anni 60, che coinvolse moltissimi comuni regionali che intendevano dotarsi di luoghi per l’eccellenza culturale e la condivisione della medesima, sale teatrali, appunto che assolvessero funzione aggregativa e presentassero regolari programmazioni.
Nel tempo ATER ha fruttificato e si è ramificata in sezioni importantissime anche per il respiro nazionale e internazionale. Sto parlando di Aterballetto, per esempio, con sede a Reggio Emilia e il circuito produttivo ERT, naturalmente, che è una Fondazione oggi, con caratura di Teatro nazionale. Ater ha in sé lo spirito del decentramento e si calibra sulle esigenze e le caratteristiche più innovative dai territori, venendone riplasmato a sua volta.
Chi scrive è rimasta in particolare colpita dalla resa pubblica del 5 dicembre, dedicata dal progetto Generazioni a Teatro, in duplice replica, matinee per le scuole e serale, alle canoniche ore 21, per la cittadinanza, alla commemorazione degli eventi tragici e mai compiutamente in qualche modo emendati della strage degli innocenti del Salvemini. Un lavoro che mi ha stupito per diverse ragioni, come l’evitare accuratamente stereotipie di linguaggio e facili giovanilismi di maniera. Ma la lotta agli stereotipi è un cavallo di battaglia di questa direzione del Laura Betti, che inserisce da anni nelle sue programmazioni rivolte all’infanzia, all’adolescenza, alle famiglie, spettacoli di grande vaglia espressiva e sperimentale firmati da artisti di calibro italiano, come per es. la compagnia di Giorgio Rossi e spesso anche stranieri, che in qualche modo vogliono opporsi al conformismo di genere, alla banalizzazione della rappresentazione delle relazioni, a tutte le forme di body shaming, bullismo, emarginazione per le diversità. Si tratta spesso di lavori nati da collaborazioni fortemente volute con il Dipartimento delle Arti, centro studi La Soffitta, il premio Scenario, il festival Gender Bender.
Generazioni a Teatro è un contenitore complessivo che si muove nella direzione molto attuale della costruzione di uno spettatore coinvolto, attivo, consapevole e di stimolare le capacità espressive e creative dei più giovani, di metterli direttamente alla prova sui contenuti, i temi, le tecniche, i saperi, gli stili. Significa uscire completamente dalla logica della recita scolastica e di interi istituti deportati a teatro per fare “balotta” e disturbare, di fatto, gli interpreti in scena.
Qui, vogliamo il Teatro abitato, sempre vivo, mi dice infatti Cira, in tanti momenti diversi della giornata e specialmente abitato da giovani, che misurino se stessi attraverso il fare e che scoprano anche un pensiero critico tramite le discipline performative. quindi ci sono tanti ragazzi di scuole diverse, ma prioritariamente dell’ITC Salvemini che in realtà già da 5 anni si provano a interpretare, adattare, mettere in scena: come accade in questo Bluebird, ovvero una rielaborazione dall’Uccellino azzurro, opera teatrale di Maeterlinck del 1908, rappresentata a Mosca per la prima volta, allestita in Italia solo nel 24.
Sono presenti in scena oltre ai trentadue dell’Istituto casalecchiese, tredici giovani musicisti provenienti dal Liceo DaVinci, Laura Bassi e IIS Aldini. Il progetto vede la direzione del pedagogo Massimo Briavara, che ha idee molto chiare e sensate sul rapporto tra istituzioni scolastiche e formative e forme di intervento sul disagio giovanile, non solo, ma ha anche la serena pacatezza che ci vuole per proporle senza dare l’idea di ammiccare o dare pacche sulle spalle ai ragazzi. Al coordinamento progettuale stanno Maria Ghiddi e naturalmente Cira, che di fatto hanno predisposto laboratorio di videomaking, danza, recitazione, canto corale e musica questi ultimi, guidati da Arianna Rinaldi e da un nome ben noto come quello di Davide Fasulo. I ragazzi hanno anche incontrato artisti e visionato tanto materiale didattico-storico:tutto questo si avverte in sottotraccia in un lavoro che stupisce per profondità, leggerezza, complessità, poesia. Può sembrare strano, ma i termini non suonano affatto ossimorici in questo caso.
La scommessa, a tutta prima, sembra delle più difficili:mettere splendidi ragazzi, tutti occhi, capelli e lunghe gambe in movimento, ma anche giovani portatori di diversità, teenager, come ne vediamo in giro insomma, a confronto in tutta la loro fisicità e con assoluta equità nelle parti distribuite e nei generi, rispettando caratteristiche, limiti e vocazioni di ognuno, con una fiaba in tutto retrò, raccontata dalle immagini dell’omonimo film muto di Tourner, realizzato nel tragico 1918. Sono anni bui di violenza, miseria, preparatori ad una nuova guerra e l’idea stessa della nostra civiltà viene messa fortemente in crisi. L’uccellino della felicità viene a portare sullo sfrenato reattivo materialismo che si sta profilando, di cui la pur colta ed emancipata repubblica di Weimar sarà uno dei più noti esempi, un messaggio di bellezza e spiritualità che redime e consola, eleggendo a suoi ambasciatori, potremmo dire, una coppia di fratellino-sorellina poverissimi e curiosi quanto Alice in wonderland o la Dorothy di Oz.
Ebbene, quanto di più apparentemente lontano dai ragazzi di oggi che vorremmo sdraiati, consumisti, conformati alla risposta tecnologica più che emotivo riflessiva, nonché precocissimamente erotizzati, proiettati verso una adultità fasulla banalizzati nel linguaggio sempre più povero e gergale e naturalmente fashion victims. Chiamarli a qualcosa di più che una semplice, si fa per dire, sonorizzazione del film muto e narrazione della trama, sembrerebbe impresa da far tremare i polsi e invece, il miracolo per un’ora e mezza abbondante che ammutolisce tutta la platea di coetanei, la più temibile e spietata, sulla carta, si compie innanzi a noi.
I ragazzi in scena si fanno narratori, ma anche medium di una procedura evocativa complessa, che ci porta a riflettere sui nostri lasciti ereditari, le heritage, insomma, che ci rendono in maniera imprevedibile, unici eppure simili agli altri, diversi in tutto eppure prodotto momentaneamente finale di una lunga storia alle nostre spalle, che è mito, ma anche saga familiare e biografica. Tutto è attraversato da composizioni musicali e canzoni corali scintillanti, vibranti e in tutto differenti dalla trap d’ordinanza che ti aspetteresti. i ragazzi, ma meglio dire sarebbe performer, non si impappinano mai e si danno con generosità assoluta:si era partiti con una domanda retorica sulla natura e le caratteristiche e le declinazioni della bellezza e ci si ritrova a volare molto in alto davvero, a fare un volo pindarico perché cosi poco autorappresentativo e autoindulgente con la propria condizione di “ggiovane”.
Interpretata dunque senza compiacimenti e commiserazioni, con quella dose di naivete che ci sta, ma con necessario senso di responsabilità storica. Da vertigine, per esempio, il momento dell’ipotetico ritrovamento di un mandala genealogico nei cassetti di famiglia, da parte di uno degli interpreti, che in un crescendo di agnizioni e collegamenti di sinapsi, trasforma il classico quesito adolescenziale sulla propria provenienza familiare, in una lectio magistralis evoluzionista in chiave antirazzista, E il bello è che tutto riesce a tornare dentro i binari del plot ispiratore, intrecciando Storia, trama e memorie. Con momenti leggiadri e quasi new age e momenti distopici, quando, invece, il volo magico-storico incrocia per esempio i tragici fatti studenteschi di Piazza Tien an men, per esortare alla pacifica ma ostinata determinazione del ragazzo che fronteggia i carri armati in tutto disarmato se non della sua volontà di chiedere conto.
Non voglio azzardare qui interpretazioni politiche o troppo legate agli ultimi movimenti nelle piazze, né mi interessa definire la natura di questo esito, infilandola dentro qualche categoria, o ancora stabilire se qualcuno degli studenti che infine torna sulla terra con il pubblico e dunque ritorna alla disco, ai tempi presenti, alle paillettese e alle movenze ritmate, dinoccolate e sensuali che sono consone all’età, ai tempi, alla festa, alla nostra libertà, sarà un attore, un ballerino o sarà uno famoso: non siamo a X Factor, ma di talento se ne vede comunque. E se torno alle programmazioni del cartellone del Laura Betti, vi avverto che in questo fine settimana vedremo una variazione sul tema Thelma e Louise che potrebbe stupirci, condotta come sarà da Angela Baraldi, donna rock per definizione, Francesca Mazza, attrice premio UBU e Rita Marcotulli, musicista jazz tra le più apprezzate. La prossima settima, ci prende con gli effetti specialissimi del riallestimento di quel Tango glaciale che segnò un momento di sperimentazione alto nel teatro di ricerca degli anni 80 e consacro come figura di punta quel Mario Martone che allora non aveva ancora fondato tTeatri Uniti, ma era leader di Falso movimento. Insomma, le vie dei teatri fanno tanti percorsi ed è bellissimo perdercisi anche un po’.