di Silvia Napoli
Avere come stella polare un paese natale quasi immerso nel mito, avere una polifonica di luoghi del cuore nel vecchio mondo, eppure non sentirsi di fatto cittadini di una heimat, esprimersi in lingue plurime e, nel contempo, dotarsi di una lingua interiore inconfondibile, unica, nella sua potenza evocativa.
Sono queste, caratteristiche che si ritrovano in diverse biografie intellettuali d’eccezione nel secolo scorso. Ovvero, quel novecento dal lungo addio, che tanto affascina e in parte tormenta Claudio Longhi, che per Emilia Romagna teatro è regista e anche direttore delle programmazioni estese su diversi complessi teatrali regionali. Un secolo breve, ideologico, violento, il cui retaggio è, a ben vedere, la distopica preparazione di una globalizzazione controversa dai forti sussulti identitari, marcate disuguaglianze e, su tutto, il dominio di una sorta di bizzarro solipsismo di massa reso incalzante e incisivo dall’abuso di tecnologie tanto domestiche e accessibili, quanto invasive.
Claudio Longhi, uomo di teatro a 360 gradi, consapevole del portato di responsabilità pubblico-pedagogica, che questa sua prerogativa implica, sceglie come seconda produzione Ert di quest’anno e sua personale regia, il ritorno ad una peculiare inclassificabile figura di intellettuale, quale Elias Canetti, premio Nobel 1981, spesso trascurato nel dibattito culturale, come sovente accade a tanti, insigniti dall’Accademia svedese, ma non per questo meno significativo dal punto di vista della coscienza storica di un tribolato, accidentato percorso che si affaccia sull’oggi.
E si tratta di un ritorno a tutto tondo, nel senso che qui ci riferiamo ad una figura di pensatore, letterato, autore, che per lunghezza biografica, appartenenza alla stirpe sefardita, complessità delle vicende che lo connotano ha realmente attraversato, osservandolo acutamente, in modalità erratica eppure radicata, tutto il famigerato 900 e dunque si presta al trattamento “progetto” globale che caratterizza questi anni di Ert.
PErtanto, non un solo spettacolo, questa fluviale Commedia delle vanità in scena allo Storchi di Modena, ma un raddoppio con Nozze, primo testo teatrale di Canetti e primo cimento alla regia per Lino Guanciale, il divo maschile di Ert: questo spettacolo, una prima assoluta, è invece alle storiche Passioni di via Sigonio e se ne suggerisce l’accoppiata nel we dell’Immacolata con il fratello maggiore, realizzando cosi di fatto una maratona, che vede lo spettatore, possibilmente attivo e coinvolto dal primo pomeriggio fino a notte.
Anche questo sta evidentemente tutto dentro il disegno didattico di questa direzione che fa lavorare moltissimo i teatri, vivificandoli di presenze continue distribuite negli spazi, nei ruoli, negli orari, tra le generazioni. Chi scrive ha di fatto compiuto questa traversata simile al ritrovare una navicella lanciata, nello spazio da un’altra dimensione o un rivelatorio messaggio in bottiglia, viaggio che continuerà in qualche modo dopo la permanenza alle Passioni del succitato Nozze con il suo approdo all’Arena del Sole tra il 17 e il 22 dicembre.
Come si diceva, pensare gli spettacoli come coronamenti di un lungo discorso preparatorio rivolto ai cittadini tutti, che siano o meno habitué delle stagioni è la cifra operativa di questo Ert e di Longhi docente, dramaturg, regista, tanto che possiamo ben dire già a colpo d’occhio che nelle sale si è molto attenuato l’effetto abbonati, in favore di una composizione di presenze eterogenea, curiosa, esigente. Il lavoro preparatorio a Canetti, oltre ad un lungo anno di letture pubbliche in biblioteca a Modena, dai suoi testi, agite dalla compagnia Ert, ha comportato diverse curiose iniziative tra cui un party catastrofista, un contest fotografico, un bando o grida con tanto di manifesti appesi nel centro storico che promulgava un interdetto alla pratica compulsiva dei selfie in un cErto orario del primo weekend di debutto della Commedia.
Filologia rigorosa su musiche, testi, scenotecnica e approccio pop alla comunicazione, questa sembra essere la formula vincente per avere i teatri sempre ragionevolmente affollati. Facciamo due chiacchiere con Claudio Longhi tra un treno e l’altro di questa tratta emiliana, gloriosa via dei Festival, per sottolineare alcuni punti chiave di quest’ultima fatica. Anzitutto due parole sullo squadrone, considerando che ci sono 30 persone in scena, o meglio, come vedremo, negli spazi del teatro, talvolta simultaneamente a fare cose molto diverse, dai musicisti-cantanti agli attori ai veri e propri dotati di verve atletico-acrobatica – effettivamente si tratta di una squadra fedele e affiatata senza la quale un ‘operazione cosi imponente che implica aver passato al setaccio tutta la produzione canettiana anche memorialistica e saggistica, ritenendola profondamente connessa al lavoro di scena, non poteva darsi senza poter contare su un team che sono tutti i miei collaboratori abituali della compagnia ma anche i giovani della scuola Iolanda Gazziero di Modena.
Non solo attori ma specialisti in tutti i livelli della elaborazione scenica e sono particolarmente orgoglioso di aver voluto fortemente all’interno di questa Scuola di Ert, il corso da dramaturg, che ritengo essere una figura importantissima per la buona riuscita di lavori complessi, lavori con un punto di vista forte. In più ho realizzato il sogno di una collaborazione con Aglaia Pappas, attrice di origine ellenica che conosco e stimo da tempo e che finalmente posso plasmare duttilmente su ben tre figure chiave femminili dello spettacolo specularmente a Fausto Russo Alesi, che incarna tre volti dell’ossessione maschile del controllo.
Bisogna dire anche qualcosa sui musicisti in scena che sono ungheresi e si cimentano con intermezzi colti ma anche e soprattutto con musiche ebraiche di tradizioni sefardite, canzoni, per lo più, che dovrebbero nella narrazione alleviare le angosce dei protagonisti, cioè in qualche modo tutte le maschere personaggio presenti e invece sovente moltiplicano l’effetto babelico e dissonante che sta alla base della costruzione canettiana. – Personalmente, la musica a me è servita per comunicare con i musicisti che non parlano italiano e creare una koinè buona per tutti i tempi da cui possibilmente riedificare basi di comprensione reciproca, ma in Canetti, che pure conosceva a vari livelli 8 lingue e si esprimeva prevalentemente già nella natia bulgaria, in tedesco e in seguito in inglese, è forte il tema del suono, il calor bianco di un’azione che si esplica attraverso una sovrapposizione di tonalità lamentose, stridule, roboanti, che fa il paio con il chiacchiericcio incessante dei nostri giorni, peraltro.
I giovani di oggi, considera che è costume le prime modenesi targate Ert, siano recensite in primis da una scolaresca ogni volta diversa, nonostante le quasi 4 ore complessive di spettacolo, sono molto apErti al gioco, al divErtimento dell’insieme, che pure c’è, a dispetto della tragedia epocale che viene rappresentata. E attraverso questo cinico divErtissement passa il senso di pericolo insito nelle pratiche narcisistiche:questa commedia è molto dentro il paradigma di un novecento che non passa fatalmente finche sono al mondo quelli che bene o male ci sono nati e portano dentro di loro, seppure criticamente tutta la storia feroce e la cultura pure folgorante che ne ha nutrito il terreno. Molteplici meccanismi di morte sono tuttora ben attivati nel nostro universo politico, la questione ebraica è ancora ferita apErta, come tutte le questioni identitarie, del resto.
Nel mondo distopico in cui tutti gli specchi, le foto-ritratto, i ritratti e autoritratti sono tassativamente proibiti pena l’arresto o la morte, in una escalation di intransigenza e voluttà punitiva, la cura, cioè l’omologazione e il totalitarismo sono peggiori del male, in buona sostanza. La celebrazione dell’io allontanata dal portone principale, apparentemente in favore del compiacimento di istanze popolari, rientra mostruosamente dalla finestra come malattia dello spirito. La lettura complessiva di Longhi è in qualche modo fedele al pensiero oserei dire filosofico di Canetti, che nel suo trattato Masse e Potere, costruisce una antropologia del conformismo di massa da un lato assorbendo molteplici influssi dottrinari e interpretando al meglio lo zeitgeist intellettuale dei tempi, ma si guarda bene dal riferirsi direttamente a due giganti presenti in sottotesto, quali Marx e Freud.
In effetti colpiscono sia in questo primo lavoro che in Nozze, le figure maschili, significativamente condannate ad una sorta di costante impotenza edipica che li condanna ad un velleitarismo insensato in termini ideologici, ad una spiccata propensione ad attitudini masochiste, in definitiva ad essere assoggettati ad una costante pulsione mortifera, tutto sommato anale, in cui la dialettica possibile è unicamente quella tra durezza e mollezza.
L’impianto scenotecnico sorprende, seduce, sollazza con sostenutissimi virtuosismi meccanici di pedane mobili, controfondali, gabbie, siparietti che si alzano si abbassano scompaiono ruotano su se stessi sul colore rosso dominante in tutte le tonalità possibili e immaginabili. Non siamo propriamente in un musical, neppure in un cabaret, ma cErtamente in un circo e in una giostra terribilmente viennesi, mittleueropei per la precisione, dove a dominare e sostituire l’erotismo abbiamo il puro meccanismo di seduzione e soprattutto il minimo comun denominatore dell’invidia sociale declinata in tutte le sue possibili accezioni. Gli attori da passerelle e balconcini protesi in platea, dilagano per ogni dove e fanno capolino anche da palchi e palchetti alludendo alla libidine intrinseca all’ambito teatrale di vedere e farsi vedere, piacere complementare alla rappresentazione.
Le luci magicamente sospese fin sopra la cupola teatrale creano effetti alternativamente paradisiaci, da boudoir, da sordide notti ora buie ora stellate, dove una pozzanghera, una lampadina tascabile, una scheggia di vetro possono fare la differenza per la psiche e la sorte della miserevole umanità in scena. Insomma una funambolica, grottesca wunderkammer dell’orrore e dell’errore umano nelle mani di un Brecht nevrotico a ritmi da Tempi moderni. Un autentico compendio novecentesco che accetta la sfida con la Morte e con la possibilità di attribuire una sua propria natura e vita psichica alla massa, tenuta distinta da Canetti, dal popolo dei fascismi di vario genere che ne è il prodotto geneticamente modificato e apparentemente disciplinato. Una muta ieri pronta al saluto romano, appena l’altro giorno al consumo compulsivo, oggi ad una sorta di entropica autoconservazione, domani chissà.
Certamente un impegno viene richiesto al pubblico per seguire in qualche modo un intreccio inestricabile di nomi e parentele, una coralità in parte individualizzata, apparentemente incapace di raccontarsi, ma che poi trova le sue dimensioni caratterizzanti negli spazi attribuiti, fino al lager sanatorio finale che tutti accomuna. E siamo dalle parti ormai di Asylum e di Foucault. Il successo caloroso che il pubblico tributa alla generosissima e instancabile compagine e un po’ a se stesso si replica poi alle gloriose Passioni dove Guanciale, visto recentemente in un Koltes magistrale, non si mette in scena, ma confeziona sempre con encomiabili allievi attori una vera bomba a orologeria teatrale sospesa tra la pochade e Brecht, naturalmente.
Dove il tema dall’ambiente conclusus per eccellenza, la casa, che non è in questo caso il luogo cui tornare, ma una sorta di scoglio o zattera o strapuntino cui avvinghiarsi come cozze, a dispetto di ogni circostanza, è dap prima chirurgicamente sezionato negli appartamentini abitati da famigliole disfunzionali alquanto, per poi identificarsi come un salone delle feste attraversato di corsa e di soppiatto come in un albergo del libero scambio, da questi invitati di nozze dell’apocalisse, corrottissimi se anziani, già più che corruttibili se giovani e altrimenti puerilmente ridicoli se ingenui come Peter, l’eterno fidanzato munito di fiori alla Peynet, dal momento che anche la naivete è un lusso da non potersi permettere sull’orlo dell’abisso weimeriano. La lotta generazionale si fa qui sorda e promiscua e vigilata e accarezzata dal più cinico di tutti, l’idealista, ovvero l’intellettuale che tutto comprende, ma a che pro? Se tutto si lascia fare e scorrere addosso.
Queste Nozze, sono anche la prima fatica teatrale di Canetti, lievemente antecedenti alla Commedia delle Vanità, entrambe ascrivibili ai primi fatali anni trenta, ma poi rappresentate molto a seguire, destinate dunque ad una lettura a posteriori da sempre, oggi in qualche modo di nuovo bruciante se pensiamo al connubio inequivocabile di sesso e danaro che ha condito un nostro ulteriore ventennio indistinguibile tra fiction e piano di realtà. E la regia sceglie esplicitamente di richiamarci al nostro quasi dovere di cogliere assonanze in questo caso, già in incipit quando si inizia un conto alla rovescia dal 2019 per riportarci a quel novecento che, appunto tutto dobbiamo ripercorrere per chiederci se non siamo arrivati fin qui unicamente come sopravvissuti e quindi con molti sensi di colpa e qualche obbligo morale in più.
Si ride, ma naturalmente con una cErta amarezza e siamo pronti a scommettere un grande riscontro anche nel prossimo futuro in Arena e poi in tournée per questo ottimo esordio.