di Alfonso Gianni
Il rinvio è diventato l’unico asse strategico su cui si muove il governo Conte. Ma non può durare all’infinito e non per molto. I nodi si stanno stringendo tanto a Roma quanto a Bruxelles. Gualtieri si è sentito rispondere picche dal Presidente dell’Eurogruppo Mario Centeno sulla possibilità di riaprire una trattativa nella quale lo stesso ministro dell’economia italiano non credeva. Centeno già a novembre aveva definito «chiuso» il testo contenente le modifiche. E ora nega che la fissazione della firma del Mes revisionato all’inizio del 2020 sia un rinvio, ma solamente una sospensione inoperosa. L’11 dicembre è prevista la discussione in Senato con voto sulle mozioni ed è prevedibile che il governo spaccerà come un successo questo spazio temporale, che forse permetterà al summit europeo di due giorni dopo di prendere semplicemente atto del lavoro fatto dai ministri economici per arrivare alla firma non prima di febbraio.
Ma il tentativo del Pd, prima di presentare le modifiche come irrilevanti e ora di vantare il dilazionamento dei tempi della firma – atteggiamenti in evidente contraddizione – non fa che portare acqua al mulino delle destre e di un M5s in cerca di rilegittimazione. L’unico modo per affrontare la demagogia sovranista è considerare il Mes e le sue modifiche per quello che sono e proporre una sostanziale rivisitazione senza la quale non vi deve essere ratifica alcuna. Il problema non riguarda soltanto l’Italia ma il funzionamento dell’intera Ue.
Il Mes, con i suoi 190 dipendenti e una dotazione di intervento di poco superiore ai 700 miliardi, è stato costituito per fornire prestiti a stati in difficoltà sulla base di memorandum che costringono i paesi beneficiari a pesanti (contro)riforme strutturali e politiche di assoluto rigore. Sono previste altre due linee di credito «precauzionali» per prevenire i rischi. Una, quella «rafforzata» prevede memorandum, l’altra no. Le novità, che le modifiche codificano, non sono lievi. Al Mes viene attribuito il compito di definire il memorandum e di seguire l’intera gestione della crisi di uno Stato. Ciò avverrebbe in cooperazione con la Commissione, la quale si esprime sulla sostenibilità del debito, ma è evidente che spostando il peso di rilevanti definizioni da un organismo politico a uno tecnico intergovernativo, si tecnicizza la governance e la trasparenza si fa più opaca.
Non il contrario, come promesso. Non solo, ma si normalizza la divisione della Ue tra paesi affidabili e no. Invece di superare la renitenza tedesca ad aiutare altri stati – come decantato – si riaffaccerebbe per altra via il vecchio disegno di Schauble degli anni Novanta di una costruzione europea formata da un «cuore» con intorno paesi periferici ad esso asserviti. Si dice che la ristrutturazione del debito non viene nominata e non sarebbe automatica. Ma anche economisti mainstream hanno scritto in questi giorni che, sebbene il trattato non lo dica esplicitamente, chi dovesse avere un debito pubblico insostenibile dovrà ristrutturarlo per potere prendere a prestito dal Mes. Cioè chi avrebbe più bisogno si troverebbe nella condizione peggiore.
Cose non dissimili erano state dette da Ignazio Visco solo quindici giorni fa, anche se poi se le è rimangiate, probabilmente per non spingere oltre la risalita dello spread già in atto. Non sta a caso tra le modifiche il novello ruolo del Mes di mediatore nella ristrutturazione del debito. E così pure le cosiddette Cacs, clausole di azione collettiva, che vorrebbero ridurre il potere di veto di possibili speculatori, non fanno che rendere più facilitata e probabile la ristrutturazione del debito. Si è detto che bisognerebbe arrivare ad una firma contestuale delle tre questioni in discussione, il Mes, il Bilancio europeo, l’Unione bancaria. Ma è proprio da quest’ultimo versante che giungono i guai maggiori. Il ministro delle finanze tedesco, Olaf Scholz (forse, quanto inutilmente, per conquistare punti per la leadership della Spd) aveva aperto sul Financial Times il dialogo sul tema ostico per i suoi compatrioti della garanzia unica dei depositi.
Ponendo però condizioni inaccettabili, quali la ponderazione del rischio dei titoli di Stato (finora in tutto il mondo risk free) e la riduzione dei crediti deteriorati (Npl) in possesso delle banche. Un vero guaio per quelle italiane (ma non solo) che hanno in pancia oltre 400 miliardi di titoli nostrani e sono zeppe di Npl. Da qui la fibrillazione dell’Abi. Mentre gli asset più rischiosi (Level 2 e 3) stanno nelle banche tedesche e francesi. Non si tratta di road map, ma di cambiare radicalmente la politica economica europea, di cui il nuovo Mes è la più recente perfida creatura.
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano Il manifesto il 6 dicembre 2019