di Bruno Giorgini
Qualcuno dice che Venezia, città d’acqua per eccellenza, sia la prova dell’esistenza di Dio. Certamente un miracolo di ingegneria idraulica e di bellezza, che immersa nella laguna, abbisogna di continua, accurata, amorevole manutenzione. A Venezia i grandi malati, che in genere stentano a prendere sonno, dormono e sognano beati. Mentre gli amanti si tengono per mano. Così ci racconta Josif Brodskij nel suo splendido “Fondamenta degli Incurabili”.
Venezia è connaturata all’acqua alta, quando devi metterti gli stivali, e proteggere dalla marea la tua bottega o casa. L’acqua alta, un fenomeno che arriva ogni autunno col plenilunio e lo scirocco. Qualche volta esagera e allora il mare la invade allagandola, come accadde nel 1966. Un evento raro se non eccezionale. Allora. Ma il 13/14 novembre l’elongazione di marea arriva a 187 centimetri lo scirocco volando a oltre cento chilometri l’ora, e allora l’intero abitato finisce sott’acqua, da San Marco a Pellestrina letteralmente sommersa, dove muore anche una persona.
Dicono gli amici veneziani che hanno provato angoscia e grande tristezza mentre le acque salivano e il vento spazzava la laguna. Un senso di impotenza li ha presi, e uno spaesamento non essendoci più confine tra acqua e terra. Il mondo di terra scompare inghiottito dalle acque sotto i loro occhi, senza che loro nulla possano fare per opporsi e contrastare il fenomeno.
Accade il 13 e il14 novembre 2019, una data da ricordare perché è la prima acqua alta al tempo del cambiamento climatico e/o riscaldamento globale che dir si voglia. Ovvero l’evento non è più straordinario ma sempre più possibile e ordinario, perché inscritto nella nuova dinamica del clima, caratterizzata dall’aumento della temperatura media globale. Ma allora se vogliamo che la città di Venezia viva, dobbiamo attrezzarla per questa nuova fase.
Tornando ai 187 centimetri di elongazione di marea. Nessuno li aveva previsti. Si parlava al massimo di 167- 170 centimetri. Eppure la dinamica di marea è ben nota, i modelli predittivi piuttosto accurati e precisi, però a quanto pare l’osservatorio/ufficio delle maree viene se non smantellato, sicuramente deponteziato. Certo bisogna raccogliere i dati.
E qui casca l’asino perchè di dati osservativi Venezia è paurosamente povera. Per esempio esistono 379 ponti che congiungono 117 insule, epperò nessun dato sull’altezza di nessun ponte è noto! Quindi quando le acque si alzano non si sa mai se il vaporetto potrà o no passare sotto il ponte. Si va a occhio, si prova, se va male il mezzo s’arresta, o s’incaglia. Per esempio le tecnologie attuali permetterebbero senza troppa fatica di installare un sistema di sensori che registri l’evoluzione della dinamica per le acque in tempo reale (on line), eppure non ci sono. Quando sistemi di questo tipo vengono proposti tutti scuotono il capo in senso affermativo, però poi le buone intenzioni rimangono lettera morta. Perché se Venezia è solo turismo e turismo e ancora turismo, chissenefrega delle acque alte, che anzi possono diventare un richiamo: che c’è infatti di più fico di un selfie con l’acqua a mezza gamba davanti S. Marco?! E infatti il coglione dei coglioni in piena salita delle acque si tuffa in costume da bagno e il video diventa presto virale.
Al massimo dobbiamo proteggere i monumenti cosiddetti. Non a caso in tutti i media dove spesso si parla di apocalisse, ci si riferisce quasi sempre alle opere d’arte, mai ai cittadini veneziani, al loro sconforto, al loro dolore se non disperazione per la città allagata. Perché gli abitanti, i veneziani, in ultima analisi impediscono almeno un poco, o rallentano, la trasformazione totalitaria di Venezia in città del turismo, come una novella Disneyland acquatica. Più o meno per caso collocata in un sistema lagunare unico al mondo, in equilibrio tra cielo terra e acqua. Equilibrio ecologico insieme robusto e delicatissimo.
Invece Venezia può essere il terreno di sperimentazione per pensieri, ricerche, tecnologie, culture, scienze e filosofie, modi di vita che facciano fronte al cambiamento climatico e alle sue conseguenze, tra le altre l’innalzamento delle acque, che a Venezia si accoppia con il fenomeno della subsidenza, cioè l’affondamento più o meno lento delle terre. Un grande laboratorio che si innesti sulla tradizione idraulica secolare della città lagunare, fin dalla sua fondazione in lotta con la pretesa del mare di riappropriarsi delle terre emerse a pelo d’acqua. Altro che la città museo a cielo aperto con i balzelli in entrata che qualcuno favoleggia, e sarebbe la morte di Venezia, imbalsamata come la Gioconda al Louvre che puoi vedere solo da lontano pressato da una folla.
La dico in altro modo. Venezia può essere il campo di sperimentazione per una nuova scienza e arte di manutenzione della città nell’era del cambiamento climatico, con la partecipazione dei cittadini, gli abitanti, i veneziani. Ma anche con la partecipazione dell’intero mondo. Delle sue risorse specie scientifiche e tecnologiche. Nonché di senso civico.
Per ora certamente la dimensione turistica di sfruttamento crudele della città e delle sue bellezze, è egemone, ma forse gli eventi, anche catastrofici, obbligheranno a una svolta. Si potrebbe che Venezia ritrovi l’orgoglio e l’intelligenza dei suoi cittadini, contro la politica del soldo a ogni costo. Quando per esempio si pensa al passaggio delle grandi navi fin di fronte piazza S. Marco, distruttivo a ogni giro delle enormi eliche, già un paio di volte si è rischiato grosso. Magari inducendo qualcuno a considerazioni più attente agli equilibri ecologici della laguna, e della città.
Comunque chi pensava di mettere la città al riparo dal mare con un’opera globale come il Mose (Modulo Sperimentale Elettromeccanico) che ergendosi dal fondo alle bocche di porto avrebbe dovuto impedire l’irrompere del mare, è rimasto deluso. Il sistema già quasi completato (oltre il 90%) e mai finora messo in funzione almeno in prova, è rimasto inerte. Inutili cassoni giacenti sott’acqua. Per anni Massimo Cacciari sindaco ha predicato contro l’opera che nel frattempo ha ingoiato più di cinque miliardi, in buona parte tangentizi, proponendo soluzioni alternative sostenute dal fior fiore dell’intelligenza scientifica italiana e europea, senza mai essere ascoltato. E oggi tutti a bocca aperta, ohoh, guarda un po’, non è servito a niente. Quando in parecchi lo avevano previsto. Ma tant’è, laddove impera il soldo, il bene delle genti può essere calpestato, e del bene comune si può fare strame.
La prossima volta. Ci sarà una prossima volta. Forse prima di quanto ci aspettiamo. Più violenta e furiosa. Più distruttiva. La città da qui a là dovrebbe attrezzarsi. Lo farà? C’è da dubitarne. In fondo i turisti vengono comunque a Venezia. E poco importa di quei cittadini/e veneziani angosciati, impotenti, impauriti dalla repentina salita delle acque, dalle raffiche di scirocco a oltre cento chliometri l’ora, dalle onde inarrestabili. Che vada a vivere a Mestre, sembra dire e soprattutto fare il sindaco Brugnaro. Odiosa politica quasi di pulizia etnica. Però magari qualcuno si ribellerà all’imperio del soldo e del turismo ammassato. Potrebbero persino diventare molti. Speriamo.
“Il pizzo verticale delle facciate veneziane è il più bel disegno che il tempo-alias-acqua abbia lasciato sulla terraferma, in qualsiasi parte del globo. In più esiste una corrispondenza – se non un nesso esplicito – tra la natura rettangolare delle forme di quel pizzo – ossia gli edifici veneziani – e l’anarchia dell’acqua, che disdegna la nozione di forma. È come se lo spazio, consapevole – qui più che in qualsiasi altro luogo – della propria inferiorità rispetto al tempo, gli rispondesse con l’unica proprietà che il tempo non possiede: con la bellezza. Ed ecco perché l’acqua prende questa risposta, la torce, la ritorce, la percuote, la sbriciola, ma alla fine la porta pressocché intatta verso il largo, nell’Adriatico” (J.B.).
Questo articolo è stato pubblicato da Inchiesta online il 14 novembre 2019