Che fare della (non più ex) Ilva?

15 Novembre 2019 /

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di Guido Viale
La situazione in cui si ritrova l’ex-Ilva di Taranto non è un conflitto tra salute e occupazione, ma una lotta tra operai e padroni (dei padroni contro gli operai); non è un esercizio di compatibilità tra ambiente e “sviluppo”, ma l’evidenza di un’alternativa ineludibile tra conversione ecologica e catastrofe climatica e ambientale. Situazione che apre una voragine destinata a inghiottire l’esistenza di 20mila lavoratori e di 20mila famiglie, ma porta alla luce anche l’inganno di uno “sviluppo” che non ha più spazio per riprodursi e perpetuarsi. Che fare allora della non più ex-Ilva?
La strada imboccata dal governo è la peggiore. Inseguire un gruppo industriale perché “si prenda cura” di un impianto di cui ha assunto la proprietà solo per “toglierlo di mezzo” e acquisirne il mercato non è buona politica. Se anche si arrivasse all’accordo, quel gruppo troverà nuove occasioni per sfilarsi, non certo per rilanciarlo. È peggio che lasciare tutto in mano ai Riva, che lo spremevano fino a che non fosse andato per sempre in malora.
Smantellare l’impianto, risanare il sito e ricostruirlo altrove? A parte il costo stratosferico, che prospettive potrebbe mai avere un impianto nuovo (magari alimentato a gas: così si giustifica anche il Tap) in un mercato dell’acciaio destinato a contrarsi?
Tenerne in vita solo una parte e cercare soluzioni alternative – il risanamento del sito – per le maestranze “superflue”? Perderebbe l’unico vantaggio competitivo che ha, il gigantismo, senza promettere né di andare in attivo né di finanziare la bonifica.
Chiuderlo e cercare delle alternative? Sì, ma non possono essere improvvisazioni o espedienti come la “panacea” del turismo: l’industria a maggior impatto ambientale del mondo, che andrà presto in crisi mano a mano che aerei e navi da crociera verranno messi sotto accusa come maggiori emettitori di CO2.
E poi a chi affidare la riconversione? Ai privati? In Italia, ma anche in quasi tutto il mondo, gli investimenti industriali languono, a maggior ragione su soluzioni dalle scarse prospettive. A incentivi sufficienti a smuoverne gli appetiti? A prescindere dai vincoli sugli aiuti di Stato, si sa che i beneficiari li incassano e poi se ne vanno. Allo Stato, attraverso una nazionalizzazione totale o al 30%? Ma, ristrettezze della finanza pubblica a parte, dov’è il management per gestire un impianto del genere? Aggiungi che i Riva avevano smantellato non solo il management Italsider, ma anche tutto il quadro intermedio, affiancandolo con una rete di “fiduciari dell’azienda” che facevano il bello e il cattivo tempo per conto del padrone.
Chi è in grado di assumersi un compito titanico del genere senza bluffare, come hanno fatto finora tutti i commissari? Non c’è più l’Iri che, nel bene e nel male, era stata una scuola e un vivaio di manager per tutto il settore pubblico, con una propria “cultura aziendale”. Oggi a dirigere quello che di pubblico è rimasto nell’economia italiana vengono chiamati solo squali che hanno fatto strada nel settore privato o nella finanza.
Ma l’Italia, si dice, non può fare a meno del “suo” acciaio. Quale Italia? Quella che ha 1,7 auto private per abitante (il tasso più alto dell’Europa)? Non durerà a lungo. E quanto acciaio? Quello per alimentare le catene della fusione FCA (Fiat Chrysler Automobiles) con la PSA (Peugeot, Citroën, DS, Opel e Vauxhall Motors), che si ridimensioneranno, o Fincantieri, che fa solo navi da crociera e da guerra, o Leonardo, totalmente riconvertito alla produzione di armi? Sono tutte aziende senza futuro: la crisi climatica ne metterà fuori uso le produzioni (già lo sta facendo) e l’industria bellica – l’unica che prospera – va messa in crisi lottando per la pace.
Alla discussione sul futuro dell’Ilva e di Taranto mancano due cose fondamentali: una è la crisi climatica, che imporrà in tempi molto stretti una radicale riconversione dell’apparato produttivo, con la chiusura di tutte gli impianti incompatibili con le esigenze di una economia climate-friendly, pena il loro collasso per mancanza di mercato, ma anche con l’apertura di altrettante iniziative necessarie alla riconversione – in campo energetico, impiantistico, agroalimentare, nella mobilità, nell’edilizia, nel risanamento del territorio, oltre che in tutti gli ambiti del “prendersi cura” delle persone – istruzione, sanità, cultura, assistenza).
L’altra è la necessità di una nuova governance dell’apparato produttivo e del territorio, considerati insieme, perché fanno parte di uno stesso mondo, che è quello della vita quotidiana di ciascuno. La gestione attuale è inadeguata e incapace di immaginare l’ineludibile transizione che ci attende. Non c’è personale per gestirla né nelle direzioni aziendali o nelle sedi dell’alta finanza, né al governo degli Stati o delle amministrazioni locali e meno che mai alla Bocconi.
Quelle competenze ci sono, ma sono senza voce e disperse. Si possono recuperare solo mettendo insieme maestranze, tecnici, associazioni civiche, Università, pezzi sparsi del management e dei governi locali. Innanzitutto per valutare insieme che cosa si può salvare, che cosa si può riconvertire e che cosa va eliminato dell’apparato produttivo e dell’assetto territoriale esistente. È quello che si poteva e doveva fare già sei anni fa, quando i “cittadini e lavoratori liberi e pensanti” avevano preso in mano la questione, riuscendo a convocare in piazza assemblee quotidiane con migliaia di presenze che si è fatto di tutto per soffocare.
Oggi ci si lamenta che la partecipazione langue? Taranto, soprattutto allora, ha dimostrato il contrario. Langue se la si soffoca; fiorisce se si apre uno spiraglio per cambiare le cose.
Presto la crisi climatica e ambientale la rimetterà all’ordine del giorno ovunque. In attesa di una politica industriale che includa questi processi, i lavoratori che sanno che perderanno il posto comunque potrebbero rivelarsi i veri sostenitori della transizione.
Questo articolo è stato pubblicato da Presenza.com l’11 novembre 2019

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