di Antonio Fico
«L’avanzata dei diritti nel nostro paese, a partire da quelli che riguardano le relazioni di genere, è stata significativa soprattutto grazie alle battaglie politiche e sociali. Ma i diritti si possono perdere. Oggi, ad esempio, c’è chi vorrebbe riportarci indietro». Nadia Urbinati, politologa della Columbia University, riflette con noi sul libro che ha vinto il premio LiberEtà. La storia di Emma ci riporta a un mondo in cui le donne non avevano diritti. Vivevano una condizione di sottomissione a vita. Eppure stiamo parlando degli anni immediatamente successivi alla Resistenza, dunque figli di una rivoluzione che ha scritto una nuova Costituzione la cui prima parte è tutta dedicata ai diritti.
Perché la Carta non ha fatto da spartiacque tra dittatura e libertà, tra oppressione ed emancipazione? «Non tutte le libertà sancite dalla nostra Carta costituzionale furono godute da subito – spiega Nadia Urbinati -. Le democrazie occidentali hanno ricostruito la vita civile sulle macerie della dittatura, e stabilito un ordine costituzionale che ha predisposto freni al potere delle maggioranze e diritto alla scelta libera e responsabile delle persone. Ma se guardiamo al dopoguerra, ci accorgiamo che il mondo che ha generato quei documenti straordinari che sono le Costituzioni e le dichiarazioni dei diritti, era tutt’altro che allineato a quelle grandiose promesse di cui erano portatrici. La cultura morale e politica degli anni Cinquanta era stretta e angusta come un sentiero sterrato pieno di ostacoli».
Come si spiega questo divario tra una Carta avanzatissima e l’estrema arretratezza del nostro paese?
«La scrittura dei diritti nei codici ha aperto, non chiuso, la partita dei diritti. Le libertà contemplate nella Costituzione sono state applicate solo grazie alla pressione dell’impegno civile e popolare. Prima degli anni Sessanta e Settanta, non avevamo molti dei diritti di cui godiamo oggi. La democrazia non è nata, ad esempio, con il diritto al divorzio, all’ interruzione volontaria di gravidanza, alla parità di diritti e doveri tra i coniugi, alle unioni civili. Insomma, quando denunciamo l’assalto a queste libertà oggi, dobbiamo pensare che la democrazia costituzionale non ce le ha regalate, ma ci ha dato l’opportunità di conquistarle. Questo ci porta a una prima riflessione. I diritti non sono mai sicuri, neppure quando sono scritti nero su bianco nei codici. Le carte dei diritti ci danno la cornice di riferimento, la possibilità di avere un’ampia gamma di libertà riconosciute. Perciò la lotta per i diritti non si ferma con la loro conquista formale. La reazione delle destre, sempre, anche oggi, contro alcuni diritti fondamentali, anche quelli che sembravano acquisiti per sempre (principalmente quelli riguardanti le donne, i minori, gli omosessuali), ci lascia attoniti, anche se non ci deve del tutto sorprendere».
Perché non dovrebbe sorprenderci?
«Perché ci può essere una democrazia costituzionale senza il godimento effettivo di quei diritti. Negli anni Cinquanta non avevamo “ancora” quei diritti, così è possibile oggi non averli “più”. Senza questa consapevolezza storica restiamo attoniti di fronte al Salvini di turno. Non dobbiamo mai dimenticare che i diritti civili si possono perdere senza necessariamente fuoriuscire dalla democrazia costituzionale. Arretrare alle prime fasi della nostra storia democratica è sempre possibile».
Quali insegnamenti trarre?
«Innanzitutto che la storia delle libertà non è una marcia trionfale. Il processo storico è fatto anche di regressioni: un monito a non essere fatalisti o ingenuamente progressisti o illusi sul fatto che i diritti siano ormai acquisiti. Ma anche che la mobilitazione della società è un serbatoio di energia critica formidabile contro le semplicistiche assicurazioni sui diritti acquisiti».
Questo articolo è stato pubblicato sul numero di novembre 2019 di LiberEtà – La rivista dove le generazioni si incontrano