Il caso dei balneari: come non gestire i beni comuni

24 Settembre 2019 /

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di Marco Ponti
La faccenda dei 30mila stabilimenti balneari che incassano molte centinaia di milioni all’anno (per chi li usa sono i più cari d’Europa), mentre pagano allo Stato noccioline per le concessioni, continua a fare scalpore, a fine vacanze. La legge europea (la nota Bolkestein) che richiede ormai dal 2006 che siano messe a gara è prorogata all’infinito, con una brillante operazione di voto di scambio.
Storia identica come logica a quella delle quote latte, in cui tutti gli italiani dovrebbero pagare le multe degli allevatori inadempienti, ma tanto amici della Lega. I pochi che strillano e votano compatti l’hanno sempre vinta sui tanti che pagano e, non sapendo, tacciono. L’Europa non ama i monopoli, ma i politici italiani sì, eccome. Tanto da dipingere le leggi europee pro-concorrenza come perfide interferenze di burocrati, invece che sacrosante tutele dei consumatori.
Ma vediamo più da vicino cosa vorrebbe dire fare gare per gli stabilimenti balneari, che sono un monopolio naturale come le autostrade o gli aeroporti (le spiagge non possono essere costruite da privati in concorrenza). La considerazione che le gare debbano risarcire gli investimenti fatti di chi c’è adesso diamola per buona, anche se il fatto che finora hanno pagato noccioline e fatto fiumi di profitti potrebbe però far venire qualche legittimo dubbio.
Poi cosa succede? La normativa è vaga. Di fatto dice solo che le concessioni non possono essere eterne e lascia ampi spazi ai singoli Paesi. In prima ipotesi la gara la vince chi offre più soldi allo Stato per continuare l’attività. Ma questo per gli utenti è una fregatura: i vincitori alzerebbero i prezzi. Occorre che la gara sia fatta stabilendo dei tetti alle tariffe per il pubblico. E questo meccanismo, infatti, vale per tutte le infrastrutture. Lo Stato deve decidere quanta rendita vuol pigliarsi rispetto a quella che prima si prendevano i gestori.
Qui la teoria economica un po’ può aiutare: le rendite fanno male all’economia nel suo complesso (diminuiscono il surplus sociale). Quindi meglio nelle gare imporre tariffe che ripaghino solo i costi vivi dei gestori per far funzionare gli stabilimenti (compreso un ragionevole profitto sui soldi che investono loro, e i costi vivi degli enti pubblici che possono avere nel gestire le spiagge, per la sorveglianza, ecc.).
Ma questa storia delle rendite dei concessionari andrebbe vista dal nuovo governo in termini molto più complessivi. Anche se l’ex ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Toninelli ha difeso bene gli utenti delle autostrade dalle rendite dei concessionari (anche se non è affatto certo che la battaglia sia vinta), di rendite ce ne sono ancora tantissime, per esempio negli aeroporti, ma anche nel settore pubblico. Qui non vengono rapinati gli utenti, ma i contribuenti: l’assenza di gare maschera delle inefficienze che poi vengono pagate (e mascherate) con sussidi “per obiettivi sociali”.
Sacrosanti questi obiettivi, ma i sussidi potrebbero essere molto più bassi se le gare avessero prima garantito che i gestori fossero quelli più efficienti, cioè quelli che, a parità di obiettivi sociali da raggiungere, chiedessero meno sussidi.
Prendiamo due casi di infrastrutture pubbliche più noti e clamorosi: la rete ferroviaria e le reti idriche. È giustificatissimo che la proprietà di queste reti rimanga pubblica. Possiamo chiamarli “beni comuni”, come piace a molti, anche se il nome tecnico è “monopoli naturali”, come si è già detto. Non è possibile costruire reti in concorrenza a queste altre due. Sarebbe un incredibile spreco di soldi, ed effettivamente gli obiettivi sociali potrebbero essere compromessi dalla proprietà privata di tali reti.
Ma cosa c’entra, invece, la gestione di questi “beni comuni” che rimangono pubblici? Gli obiettivi sociali sono che queste reti producano buoni servizi a prezzi bassi, o addirittura servizi gratuiti, se così si decidesse politicamente. Per ottenere più servizi sociali, o prezzi più bassi per chi li usa, occorre assolutamente che le imprese che gestiscano questi servizi siano le più efficienti possibili, e le meno legate a pressioni politiche e clientelari possibili (il “voto di scambio” di cui si è detto). È stranoto che la gestione pubblica delle reti dell’acqua, a causa di gestioni clientelari, abbia lasciato delle manutenzioni non fatte per almeno 30 miliardi che qualcuno dovrà pagare. E ragionamenti del tutto simili si possono fare per la gestione della rete ferroviaria, che costa ai contribuenti cifre rilevantissime.
L’unica strada per ottenere risultati efficienti, in tutto il mondo, non è fare prediche ai manager – spesso di nomina politica, anzi, partitica – ma metterle in gara periodicamente, cioè verificare nella realtà chi ha la capacità e le tecnologie per garantire quei buoni servizi e quei bassi prezzi che sono il vero e l’unico obiettivo sociale legittimo. E se il vincitore si comporta male, si sogna poi ovviamente di vincere la gara successiva. Certo, c’è il pericolo che l’impresa più efficiente, che vince la gara, sia straniera. Ma forse adesso possiamo sperare che il motto “prima gli italiani” non sia usato per bloccare i miglioramenti possibili ai servizi che gli italiani useranno.
Questo articolo è stato pubblicato dal Fatto Quotidiano l’11 settembre 2019

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