Il Purgatorio, paesaggio dell'anima, ovvero miracolo a Ravenna

11 Settembre 2019 /

Condividi su

di Silvia Napoli
Credo che se Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, non fossero gli artifex di incommensurabile vitalità che conosciamo tutti, ben oltre le anguste perimetrie della cosiddetta ricerca, sarebbero uno studio associato di architettura e design, con una propensione alla cura del paesaggio in senso largo per quanto riguarda Marco e una speciale attenzione all’interior design per ciò che concerne Ermanna.
Fuori di metafora, questa Divina Commedia a puntate per Ravenna festival, che si viene costruendo sotto i nostri occhi, come un multistrato di senso sta diventando dinamicamente, in posti anche geograficamente lontani, ciò che in realtà stava scritto in una vocazione progettuale. Dunque una rilettura e ricreazione di luoghi, con particolare accentazione sui passaggi, i varchi, gli anditi, gli spazi quasi intersiziali dove scivolare come ombre, i posti invece dove stare piantati, forse immobilizzati, come a memoria di un universo concentrazionario, sempre tentazione irresistibile di sorveglianza e punizione per l’umano, più che il divino. Il lager interiore che ci portiamo addosso, insomma, di cui ostentiamo paura e sofferenza, ma che sembra costituirci e che proiettiamo ferocemente sull’altro da noi.
La Divina Commedia come possibile parabola di uscita dal solipsismo, dall’autoreferenzialità, proprio guardando in faccia il mostro melancolico e narcisista che ci rende tutti vittime e vittimisti, per assumere in prima persona tutta la sacralità insita nel nostro balbettante umanesimo.
Potrebbe sembrare impresa inaffrontabile anche per i visionari più incalliti ed esperti, se non fosse che il Teatro delle Albe ha dalla sua, sempre, un talismano prezioso, la sua capacità di fare comunità, cosa che riveste di una umiltà speciale, giullaresca, qualsiasi complesso discorso.
E di discorsi scabrosi e lungimiranti, in tempi diciamo acerbi, più che non sospetti, gli amici di Albe, si sono occupati da subito, se ripensiamo alla folgorante intuizione di Romagna più Africa uguale, quando gettarono sulla giovane scena teatrale prima nostrana, poi globale, la novità, che tale a ben vedere, non era, che da questa malattia del nuovismo, i nostri sono ampiamente immuni, bensi forma di assunzione di un dato di realtà, di una formazione bianca-nera e adriatica dove alcune potenti considerazioni sui nostri mari e il nostro habitat, sullo scempio umano e ambientale di cui tutti siamo complici giungevano come una frustata di pura energia morale a scuotere le nostre pigre coscienze. Nello stesso tempo veniva decostruita la narrazione dell’integrazione per come ce la viviamo abitualmente :una sorta di abdicare identitario per stare dentro paletti altrimenti stabiliti e non trovarsi più parole proprie per raccontarsi.
Invece, al centro, sempre, il coraggio e la fatica della rappresentazione, senza paura di essere fraintesi o considerati “non abbastanza bravi”, da qui l’irresistibile eresia dell’asino, simbolo tuttora di un apprendimento creato con non scuole per i giovanissimi che sono apprendistati a questo esercizio paziente di riletture e rielaborazioni e rimasticazioni anche del noto, dell’assodato, del risaputo, contro il luogo comune e invece per l’individuazione di un luogo in comune, che può essere mondo esotico, isola, stato mentale, ma anche un cortile, un parcheggio per… riveder le stelle, che abbiamo sempre avuto sotto il naso.
E che oggi ci appare diverso, come la vita è, attraverso processi costanti: tutta la politicità di Albe sta qui, l’esercizio di ripetizione, la conoscenza distillata dai classici, lo strumento dato per intellegere sono un senso possibile della democrazia, da quegli ateniesi che di teatro ne sapevano, in avanti e questa tensione democratica è nello stesso tempo, il senso dell’essere umano.
Siamo cosi tutti soavemente ignoranti e inconsapevoli del nostro destino e delle nostre possibilità, a zonzo per una Ravenna crepuscolare, ottocentesca, che si fa centro unitario di quell’Italia serva da emendare, svelando discrete e deserte bellezze, mentre musica dal vivo si effonde dai balconi e il fiume umano che sciama bisbiglia appena, rapito più dal silenzio che dal resto: perché questo Purgatorio è una sorta di trekking alla rovescia, dove nulla viene spiegato, ma indizi, tracce, enigmi, dubbi vengono seminati per farci crescere e salire in vertute e conoscenza.
Niente da eccepire dunque, se dopo una struggente corale di donne svilite, maltrattate, fatte a pezzi dal nostro presente, in nome di quella gemma sacra che sovente ci rende capri sacrificali e segna indelebilmente il destino della potente Pia di Mirella Mastronardi, veniamo accompagnati su banchi di scuola silvestri. Tutto è bosco che cammina e sosta perché fratello Francesco e fratello Shakespeare si tengono per mano in fondo, accompagnandoci verso l’intuizione della Modernità, tra umiltà e ambizioni feroci in dialettica costante.
C’è qualcosa di struggente in questa ricerca spasmodica e frustrante di riconoscimento e perfezione e bellezza, appena sfilatasi dal solco della ibris, ma ancora spuria di incrostazioni mondane e da purificarsi, magari distillandosi nella azione tutt’altro che contemplativa di questo giovanotto in trench, non voyeur, non secret agent, ma agente del cambiamento che riconosciamo per Joseph Beuys, come a suggerire a noi allievi che è sbagliata la contrapposizione tra creazione umana e mondo naturale. Perché noi stessi siamo anche quella cosa li, altrimenti bruceremo come ci suggerirà più avanti un coro di ragazzine con un altro trench, quello giallo, iconico, della piccola Greta:un modo nuovo, inedito, di essere teen ager senza tempo in cortocircuitazione con il più febbrile dei poeti russi, quel Majakovskij bramoso d’amore che tanto fece vibrare i nostri immaginari qualche anno orsono.
Forse allora, in questo Purgatorio, successione di deserti e selve tra ghiaccio e fuoco, la Speranza, come categoria tutta umana di fatica e apprendimento, c’è e ci guarda diritto in faccia con sacrosanta naivete.
Forse tutta questa Verità, come avviene quasi per incantesimo alchemico in ogni lavoro di Marco ed Ermanna viene rivelata a noi zucconi professionali, proprio uno per ciascuno. il rito è collettivo ma esiste una parola d’ordine per ognuno e sembra di sentirsela sussurrare nel cantilenare che smussa asprezze romagnole della lingua dei poeti. Forse è un transfert intenso e assoluto che si viene a stabilire tra le esperienze formative e pedagogiche di Martinelli, da figlio e discente a maestro egli stesso, esperienze in cui il divino Dante non è più solo sollecitazione, spunto, commissione, tappa obbligata, ma banco d’amore e di prova.
Si dà il caso che Marco Martinelli sia di questi tempi impegnato in una serie di incontri presentazione per parlarci del suo lavoro a partire dal libro recentemente redatto, dedicato al padre Vincenzo e titolato significativamente Nel nome di Dante, diventare grandi con la Divina Commedia e questa circostanza dia modo di per sè, di esplorare con lui l’intimità generativa del suo discorso insieme agli aspetti più politici che lo connotano: che ci sia una sorta di membrana biologicamente nutritiva a far convivere gli aspetti interiori con quelli della cosa pubblica e a metterli in relazione costante? Come è possibile fare oggi celebrazioni di popolo, non populiste e metterle in raccordo pure con le Istituzioni, date nella vulgata distanti per definizione dalle istanze e dai sentimenti delle masse?
Si può leggere la Commedia in molteplici modalità, o meglio, evidenziando molti sottotesti diversi, come il lunghissimo arco celebrativo ravennate in corso, fitto di iniziative policentriche e plurali, non tutte in carico ad Albe si sta curando di dimostrarci fino ad arrivare ai fatidici 700 anni in morte, ma certo Marco ed Ermanna e con loro tutta la crew che uno dei gruppi di ricerca storici tra i più longevi ed egualitari della vicenda teatrale italiana nei fatti è, interpretano ed enfatizzano al meglio lo spirito trasformativo, l’aspetto pragmatico di how to do per la felicità della eterna Commedia.
Questo spiega il loro essere cosi centrali nel coinvolgimento emotivo tangibile della cittadinanza, che viene geneticamente modificata in community attiva, specialmente quando si tratta del divino poeta, ben oltre il brand da turismo culturale. Tutto ciò mi risulta molto evidente sbarcando a Ravenna per due chiacchiere con loro nella giornata topica dell’annuale dantesco, rito laico e religioso insieme che la città dedica da 71 anni nella seconda domenica di settembre ad omaggiare la tomba del poeta con l’olio santo offerto come in riparazione dalla città di Firenze.
Stavolta siamo a 698… che proprio non si sentono, nonostante la solennità conferita quest’anno all’occasione :sono infatti presenti i rappresentanti istituzionali di una trentina di città a tutti gli effetti dantesche perché legate alle errabonde vicende del poeta o perché teatro di storie e narrazioni del poema. E con loro ci sono vescovi e cardinali: una parata di colori, stendardi e vesti che avrebbe incantato Fellini, ma che, di nuovo, miracolosamente sfugge qualsiasi grottesca connotazione ed anzi, si tinge di commozione e grazia in una giornata ventosa più primaverile che autunnale.
Incantano la prolusione sugli aspetti iconografici della Commedia alla prestigiosa Biblioteca Classense, la marcia di popolo armato di giunchi su un primo canto del Purgatorio in stile agit prop, incanta un grande reverente Sandro Lombardi, che sarà centrale nelle prossime celebrazioni che culmineranno con la realizzazione di un Paradiso cui già ci si appresta a lavorare, in affaccio sulla piazza da biblioteca Oriani a dire come solo lui potrebbe il secondo canto del Purgatorio. Incantano tutti i passaggi che culminano con la deposizione dell’olio e di un fascio di rose al sepolcro agiti in costumi d’epoca e commentati dai due sindaci primattori del caso, DePascale e Nardella.
Sobrietà e spirito di servizio sembrano essere al centro e anche questo appare sorprendente in questa Italia ostaggio se non serva di retoriche incrociate e appetiti di varia natura. Incanta me una passeggiata tra qualche pozzanghera con Montanari raggiunta poi da Martinelli, in pausa breve da un impegno ad un altro di una lunghissima laboriosa giornata, sorta di confidenza amichevole a partire dall’assunto di aver fatto una scommessa sulla possibilità di un teatro a cielo aperto di anime, consacrato come transnazionale a Matera, capitale europea della Cultura e sulla resa di Dante come nostro contemporaneo.
E finiamo a parlare di quel filo che lega o disgiunge il singolo e i molti, in nome della responsabilità e della chiamata vocazionale, tema centrale per Alighieri e forse anche per Albe. Mi chiedo e chiedo se nell’ansia ecumenica si possa smarrire il senso rigenerante del conflitto che fu sale di una intera generazione e che sembra espunto ufficialmente da qualsiasi vocabolario. Il conflitto invece esiste ed è tangibile, sempre, afferma energicamente Ermanna tra noi che siamo le guide e loro, i partecipanti, i figuranti di questo rito collettivo, la comunità di scopo che diventano quelli che ci seguono.
Esistono conflitti interni alla comunità ed esiste una dialettica precisa tra me e loro, non pacificata. A volte li sento oppressivi o micidiali come un plotone d’esecuzione. Ma Dante insegna che non c’è chiamata senza lotta:questo vale per tutti, ma ognuno lo agisce secondo quanto può fare o sa fare. Nelle comunità piccole è più facile sperimentare momenti di egualitarismo e di identità condivisa, ma appellandosi a grandi figure guida cui è bello rendere omaggio e affidarsi con gratitudine è possibile comunque far circolare questa tensione su contesti più vasti. E, in effetti Albe hanno portato la Commedia anche ai bimbi negli slums di Kybera. Impresa temeraria sotto diversi punti di vista.
Per concludere:esiste certo, una retorica sul Dante esule, che molto si presta ad operazioni di attualizzazione, che però per noi significa riverniciatura, chiosa Marco, mentre a noi interessa quel che risuona come incarnazione della condizione umana in ognuno e che racchiude l’enciclopedia dei saperi e soprattutto delle visioni lanciata come in una navicella spaziale a futura memoria. C’è davvero una musicalità in tutto questo e si vede anche negli intermezzi ad hoc dello spettacolo, per questo, noi non abbiamo attualizzato, aggiunge Ermanna, ma ci siamo sintonizzati con la Commedia e poi l’abbiamo sincronizzata al nostro battito.
Anche noi dovremo sintonizzarci ancora per un pezzo su questa fenomenologia dantesca e su questa capacità di stupore e meraviglia che Albe conservano e riescono a ritrasmetterci ad ogni tappa di questa titanica impresa appoggiata naturalmente oltre che dal Festival anche dal comune di Ravenna e dalla regione ER.

Articoli correlati