di Piergiovanni Alleva
È opportuno soffermarsi, per indicare i modi di una sua positiva soluzione, su una problematica agitata dagli oppositori del progetto sul salario minimo legale (la proposta 658 depositata in Senato a prima firma di Nunzia Catalfo del M5S). È quella del “contrasto esplosivo” tra la norma di legge – che fisserebbe un salario minimo legale di 9 euro lordi orari, ovvero 1.548 lordi mensili – e le previsioni di alcuni contratti collettivi, soprattutto dei settori del terziario, che per le qualifiche più basse prevedono minimi tabellari inferiori, compresi tra 1.200 e 1.400 euro lordi mensili.
Tra i tanti allarmi lanciati in questi mesi dagli oppositori del progetto di legge, c’è quello secondo cui, una volta che la norma sarà approvata, i lavoratori compresi in quelle qualifiche potrebbero precipitarsi a chiedere ai loro datori di lavoro un adeguamento retributivo, anche attraverso un ricorso al giudice del lavoro, previo accertamento della nullità del contratto collettivo, nella specifica clausola salariale insufficiente. Si prospetta e si teme, cioè, l’insorgere di un fittissimo contenzioso, e non si può escludere che sia questo il motivo della “freddezza” mostrata dai sindacati verso il progetto di legge, espressa anche con la prospettazione di (illusorie) soluzioni alternative, come quella riassunta nello slogan del “taglio del cuneo fiscale” (e contributivo).
Le cose, però, non stanno così. È infatti facile osservare che non v’è alcuna ragione che quei timori si realizzino né che scoppi una “guerriglia giudiziaria” per l’ottimo motivo che le parti sociali, che hanno stipulato quei contratti collettivi, continueranno ad avere tutto il potere e la possibilità di evitarla. Basterebbe che procedessero a una semplice e rapida modifica, o restyling di quei contratti collettivi nazionali, armonizzandone le previsioni, immediatamente o anche gradualmente, con quelle della legge sul salario minimo. Bisogna però essere davvero convinti dell’inammissibilità costituzionale (art. 36 della Carta) di salari netti inferiori a 1.000 euro mensili, a fronte di 8 ore quotidiane di duro e pesante lavoro, come solitamente è quello dei lavoratori a bassa qualifica. Vale infatti la pena ricordare che i minimi tabellari compresi in un range tra 1.200 e 1.400 euro mensili lordi, come sono quelli previsti per le qualifiche più basse da non pochi contratti collettivi del settore terziario, si riducono, al netto di trattenute fiscali e contributive, a meno di 1.000 euro netti.
C’è poi un altro aspetto rilevante di cui tenere conto. Oggi i contratti collettivi presentano delle “scale classificatorie” di qualifiche piuttosto lunghe e spesso invariate da decenni: ad esempio nel Contratto nazionale dei lavoratori alberghieri sono previsti due livelli di “quadri” e otto livelli di qualifiche impiegatizie e operaie (dalla prima a scendere), e che le ultime quattro hanno minimi salariali inferiori ai 1.548 euro lordi mensili (ovvero 9 euro orari) che, come più volte ricordato, è l’importo previsto dal progetto di legge per il salario minimo legale.
Si tratterebbe, allora, detto in sintesi, di accorpare le qualifiche “incriminate” in un’unica “area professionale” con declaratoria complessiva delle caratteristiche professionali e un unico minimo tabellare, opportunamente fissato a un livello superiore, magari anche di poco, al salario minimo legale.
Questa operazione di accorpamento sarebbe del tutto legittima perché perfettamente rientrante nei poteri delle parti stipulanti un contratto collettivo (in primis i sindacati) di stabilire caratteristiche, ampiezza, articolazioni e contenuti professionali della classificazione dei lavoratori. L’esperienza passata lo conferma e l’esempio più noto è quello dei dipendenti postali: con il Contratto collettivo nazionale del 1995 furono “fuse” nella neo-istituita “area operativa” le vecchie qualifica quarta, quinta e sesta: l’operazione non fu esente da critiche e proteste, ma venne pienamente approvata dalla unanime giurisprudenza.
È opportuno, ovviamente, che l’operazione di accorpamento non si riduca a una semplice unificazione giuridico-formale, ma affronti anche i due connessi problemi di merito, della formazione professionale complessiva e della fungibilità professionale dell’operatore unico di area. Si tratterebbe di una positiva, seppur tardiva, revisione di quell’antica “parcellizzazione” del lavoro che ha ispirato le lunghe scale classificatorie, originariamente accolte nei contratti collettivi industriali di stampo “fordista”, e in sé poco idonee a regolamentare l’attività lavorativa nel settore terziario.
C’è infine un terzo aspetto da considerare. Sarebbe anche possibile, a mio parere, che la normativa sul salario minimo legale prevedesse una contenuta gradualità temporale nell’allineamento progressivo alla meta prevista nell’operazione di restyling contrattuale. In questa materia, dunque, non vi è alcuno scontro “inevitabile” tra la proposta di legge e i contratti collettivi nazionali perché, per dirla con Jean Giraudoux, se le parti sociali lo vorranno. La guerre de Troie n’aura pas lieu.
Questo articolo è stato pubblicato dal Fatto Quotidiano il 4 settembre 2019