di Silvia R. Lolli
“I have a dream” è una frase importante che mi è venuta in mente in questi giorni durante questa tragicomica crisi di governo. Ne avevamo già sperimentate tante, ma una crisi come questa, aperta senza una vera e propria sfiducia del parlamento per qualcosa di importante, comparsa dopo sproloqui di un vicepremier con spot, tweet, lanciati da spiagge ferragostane.
Il vaso di Conte non poteva che traboccare a questo punto; si è sentito offeso (e meno male); ha svolto il suo compito istituzionale, forse un po’ tardi, ma forse non poteva avere prima troppi strumenti per contrapporsi completamente a chi lo aveva investito di un compito importante ed istituzionale pensando che non bypassasse mai il ruolo che i “contrattisti” gli avevano assegnato, beffeggiando per l’ennesima volta la Costituzione Italiana. Lui ha finalmente applicato la Costituzione andando alle camere per rimettere il mandato. Ho respirato in questo atto un po’ di serietà nella politica. Forse anche un po’ di ascolto delle misere piazze?
Pur nel realismo delle difficoltà che si manifestano ho un sogno e la speranza che il presidente della Repubblica Mattarella, che nei primi mesi di questa legislatura ha fatto crescere il neo presidente del consiglio mantenendo maggiormente lui stesso i rapporti internazionali, possa dare l’incarico a persone che stanno fuori dai giochi dei partitini italiani.
Obiettivo per me istituzionale e prioritario è quello di avere un presidente del consiglio capace ed un governo, anche composto di pochi ministeri (qui si risparmierebbero soldi di varie poltrone per sottosegretari ecc. altro che diminuzione del numero dei parlamentari), ma con persone fuori dagli scranni partitici e soprattutto competenti per l’amministrazione dello Stato ed uniformati a ciò che è il dettato costituzionale, sia formale sia sostanziale, e non le segreterie di partito.
Del resto il governo non è l’organo esecutivo, quello cioè che deve amministrare, cioè rendere esecutive le leggi che fa il parlamento?
Questo il mio sogno. Basta con renzismi, salvinismi, pidiessini o 5 stellati e le relative passerelle televisive sui loro pensierini con frequenze orarie o più brevi. Non hanno già il compito di essere parlamentari?
Siedono già, per una legge elettorale per me incostituzionale, in parlamento, rappresentando solo una parte del popolo italiano. Dunque che lavorino da parlamentari, approvando con coraggio le leggi più consone a questo complicato momento storico causato anche da loro e non pensino a riforme costituzionali per la loro riduzione.
Per abbassare i loro costi basta diminuire lo stipendio e gli altri emolumenti anche pensionistici di chi da anni prende doppie e triple pensioni. Qui sarebbe un reale risparmio di spesa corrente. Diminuire il numero dei parlamentari vuol dire che non si vuole avere una rappresentanza di tutto il popolo italiano, molto variegato e in parte già messo fuori per legge elettorale.
Potremmo così vedere quale responsabilità ognuno di loro si prende senza dare colpe a destra o a manca. Il popolo potrebbe controllare le loro presenze e le loro votazioni nelle singole sedute.
Una riflessione: i costituenti pensarono a due camere perché le leggi fossero discusse bene; non è la quantità ma il valore, il suo reale bisogno ed i contenuti poi i successivi, applicazione e controllo, che fanno una buona legge.
Poi pensarono al loro numero per uno Stato che forse non raggiungeva i 40 milioni di abitanti, demograficamente più giovani; molti di loro non andavano a votare, perché il voto passivo per la camera dei Deputati allora era a 21 anni, cioè alla maggiore età. Quindi se confrontiamo numero degli aventi diritto di voto con numero dei parlamentari oggi il popolo sovrano è sotto-rappresentato rispetto al 1948. Perché dunque si vogliono diminuire i parlamentari ed eliminare una camera? E’ solo la democrazia rappresentativa ad esserne colpita.
Perché non comparare gli emolumenti dei parlamentari del 1948 a quelli di oggi, compresi i diritti pensionistici? E dovremmo aggiungere quelli che spendiamo per le regioni entrate a regime solo dal 1970, ma che hanno aumentato i livelli di spesa per queste, a volte e non a torto, chiamate caste politiche.
La democrazia rappresentativa, se la vogliamo ancora, dovrebbe piuttosto affinare gli strumenti di verifica dei lavori parlamentari, creando informazioni continue, facili, visibili a tutti su come i singoli lavorano e come votano; un controllo di verifica non solo sulla percentuale delle loro presenze, ma sui contenuti e voti (approvazioni o blocco dei vari provvedimenti e leggi).
Chissà, forse potremmo recuperare un po’ di senso delle istituzioni anche da parte dell’elettorato passivo?
I parlamentari intanto sarebbero costretti a stare di più in parlamento; la loro visibilità sarebbe verificata lì. Molti di loro dovrebbero oggi dimostrare di lavorare lì e non da un’altra parte: sui social, nelle tv, alle feste partitiche, nelle scuole di partito, con missioni all’estero (vacanza a nostre spese?); e i giornalisti al loro seguito che fanno ridondanza di informazioni per un popolo che credono e pensano sempre più bovino sarebbero da eliminare; un po’ di controllo dell’ordine rispetto alle deontologia sarebbe necessario.
Chi lavora normalmente e seriamente, prendendo salari sempre minori e non avendo più le stesse garanzie per il proprio futuro (né pensionistiche, né sanitarie, né ambientali), non ha poi così tanto tempo per esprimere la propria opinione in questa caotica piazza mediatica della politica e così si allontana da essa, cioè dalla cosa pubblica, anche nella propria vita quotidiana. Non sa o non gli interessa sapere, quali sono i diritti i doveri per vivere in una comunità sociale.
L’indifferenza sale, si dice che la politica è una cosa sporca che la fanno altri.
Giacomo Ulivi, fucilato nel 1944 in prigione, perché giovanissimo partigiano, ammonisce gli amici che leggeranno la sua ultima lettera proprio su questo:
“Non si tratta di propaganda ma di un esame che vorrei fare con voi. Invece dobbiamo guardare ed esaminare insieme: che cosa? Noi stessi. Per abituarci a vedere in noi la parte di responsabilità che abbiamo dei nostri mali… perché rifare noi stessi, in che senso? Ecco per esempio, quanti di noi sperano nella fine di questi casi tremendi, per iniziare una laboriosa e quieta vita, dedicata alla famiglia e al lavoro? Benissimo: è un sentimento generale, diffuso e soddisfacente. Ma, credo, lavorare non basterà; e nel desiderio invincibile di “quiete”, anche se laboriosa è il segno dell’errore. Perché in questo bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica. È il tremendo, il più terribile, credetemi, risultato di un’opera di diseducazione ventennale, di diseducazione o di educazione negativa, che martellando per vent’anni da ogni lato è riuscita ad inchiodare in molti di noi dei pregiudizi. Fondamentale quello della “sporcizia” della politica, che mi sembra sia stato ispirato per due vie. Tutti i giorni ci hanno detto che la politica è un lavoro di “specialisti”… Qui sta la nostra colpa, io credo”.
Mi chiedo se il mio è un sogno che potrà diventare realtà, oppure se è solo un sogno utopistico.