Un modello economico-criminale di successo nel neocapitalismo italiano

29 Luglio 2019 /

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di Francesco Forgione
Non è facile, nei tempi grigi che stiamo vivendo, avviare una discussione sul tema delle mafie e sul profilo dell’Antimafia. Le mafie sono fuori dal dibattito pubblico e dall’agenda politica e l’attenzione si accende solo in vista dei tristi anniversari delle stragi o degli omicidi “eccellenti” vissuti sempre più ritualmente dalle istituzioni o utilizzati come occasione di scontro e propaganda politica contingente. Invece occorre una riflessione di fondo: non ci si può limitare all’esclusività della dimensione giudiziaria e repressiva sia nell’analisi che nell’azione di contrasto, così come è necessario andare oltre una visione prevalentemente “etica” dell’antimafia, utile a produrre indignazione nell’opinione pubblica ma incapace di incidere nelle dinamiche politiche e sociali reali.
È uno dei problemi della sinistra, che anche su questo ha urgenza di ricostruire un punto di vista autonomo capace di ricollocare il tema delle mafie e dell’antimafia dentro una moderna e radicale critica dell’economia e del potere. Per focalizzare la questione, l’Associazione per il rinnovamento della sinistra (Ars) e il Centro per la riforma dello stato (Crs), in un convegno tenuto a Roma a giugno, hanno scelto come tema introduttivo una frase del giudice Rocco Chinnici, ucciso a Palermo nel 1983: «La mafia è sempre stata reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione della ricchezza. Prima era il feudo, ora sono i grandi appalti pubblici, i mercati opulenti, i contrabbandi che percorrono il mondo e amministrano migliaia di miliardi. La mafia è dunque tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza».
Nei primi anni Ottanta era ancora distante l’esplosione di quel processo di globalizzazione capitalistica che avrebbe sconvolto l’economia, la struttura dei poteri e cambiato la natura e il ruolo degli stati nazionali, eppure nell’analisi del “padre” del pool antimafia di Palermo c’era l’individuazione premonitrice del cuore del problema, rispetto al quale qualsiasi azione giudiziaria e repressiva non può che dichiarare il proprio limite.
Mafie e modernizzazione liberista
Ma ancora oggi, anche a sinistra, c’è chi si attarda in analisi che legano il radicamento delle organizzazioni criminali ad una sorta di nesso di causa-effetto mafie/mancato sviluppo o sottosviluppo del Mezzogiorno, per proporre come alternativa il salvifico binomio sviluppo/legalità. A parte l’inaccettabile carattere neutro dell’idea di sviluppo che la litania propone, è lo stesso concetto di legalità che è necessario sottoporre a critica e mettere in discussione in aree sempre più ampie di desertificazione dei diritti civili e sociali, a partire da quello primario al lavoro.
Ma soprattutto bisogna comprendere come le mafie si siano ricollocate nel processo di modernizzazione capitalistica che negli ultimi trent’anni da un lato ha accentuato il divario economico e di civiltà tra Nord e Sud e, dall’altro, ha trasformato il paesaggio sociale del Mezzogiorno, creando al suo interno ulteriori squilibri tra aree di ricchezza e modernità produttiva e aree di marginalità e abbandono, con la ripresa di flussi di emigrazione che non si riscontravano da decenni. In ogni caso, pur con le caratteristiche descritte, si è trattato di un processo di profonda trasformazione del territorio e di modernizzazione distorta all’interno del quale le mafie con il loro potere economico hanno saputo esprimere un proprio dinamismo e una propria soggettività.
Decenni di politiche liberiste al Sud portano anche questo segno: le mafie hanno saputo cogliere le potenzialità criminogene di politiche pubbliche ispirate al primato del mercato e fondate sulla centralità delle imprese in nome delle quali sono state indebolite tutte le forme e gli strumenti di controllo, di regolazione e di trasparenza dell’economia. Il contesto generale – nazionale europeo e internazionale – ha fatto il resto: i processi di privatizzazione e finanziarizzazione dell’economia, nell’epoca della libera circolazione dei capitali a livello globale, hanno fatto venire meno ogni linea di confine tra capitali “legali” e capitali criminali.
Se non si mettono a fuoco questi aspetti, fermandosi agli elementi giudiziari e repressivi, non si può comprendere perché oggi il “modello mafioso” si propone come un modello di successo non solo per la sua lunga continuità storica – almeno dall’Unità d’Italia ad oggi – ma anche per la capacità attuale di conquistarsi spazi sempre più ampi nei rapporti tra soggetti economici e produttivi e nel sistema delle relazioni sociali dal Sud al Nord del Paese. Un simile modello non avrebbe avuto successo e longevità se non si fosse affermato storicamente come un fenomeno delle classi dirigenti o quanto meno come il frutto di un accordo di natura “pattizia” tra classi dirigenti e crimine organizzato: quello che Noberto Bobbio avrebbe definito un “potere invisibile”.
Nuove logiche di mediazione
Si pone però un punto di riflessione. Per circa un secolo questo scambio di natura pattizia ha trovato nella politica il riferimento centrale; del resto, ben al di là delle inchieste e dei processi in corso, la storia delle “trattative” tra Stato e mafie è una lunga storia, con protagonisti diversi (partiti o parti di essi, apparati dello stato, magistratura) e ha riguardato non solo la Sicilia ma tutte le regioni a tradizionale insediamento mafioso.
Negli anni del liberismo, della privatizzazione della politica e della crisi dei partiti di massa con la conseguente trasformazione in lobbies politico-economiche-elettorali trasversali (la vicenda LottiPalamara-Csm è solo la punta svelata dell’iceberg), credo che il baricentro si sia spostato sull’economia, senza il necessario bisogno di mediazione della politica. È questa la novità.
Naturalmente non credo che le mafie non abbiano più bisogno della politica, ma che la funzione di mediazione che la politica ha esercitato per oltre un secolo non è più centrale nello scambio tra mafie e potere inteso in senso ampio e che questo vada ricollocato nel nuovo scenario economico-finanziario a livello europeo e globale.
I rapporti tra mafie e politica restano necessari a livello territoriale più che a livello centrale (il vecchio andreottismo come filosofia e pratica della doppiezza del potere), perché è a livello territoriale che la politica ha ancora “cose” da offrire – anche se sempre meno – attraverso il governo della cosa pubblica e le mafie possono ricambiare, anche in virtù della legge elettorale comunale e di quelle regionali con il controllo del voto di preferenza. A livello centrale invece incidono le scelte strategiche in materia di giustizia, i condoni fiscali o urbanistici o le normative sugli appalti con le conseguenti ricadute territoriali, ma non sono oggetto di accordi di natura “pattizia” come avveniva in passato.
Si pensi alla crisi di Cosa nostra in Sicilia: crisi organizzativa, per la sconfitta dei corleonesi da parte dello Stato (tutti i protagonisti stanno finendo la loro vita in carcere); crisi di credibilità, per l’alto numero di collaboratori di giustizia successivi alle stragi; crisi della “militanza”, per la caduta di appeal dell’organizzazione che non riesce più neanche a ricostruire la propria “cupola” dopo l’era di Riina e Provenzano; crisi finanziaria, per aver perduto il mercato internazionale della cocaina a vantaggio della ‘ndrangheta e soprattutto per il crollo delle opere pubbliche, degli appalti e della spesa pubblica regionale, un sistema che aveva la mafia protagonista dello scambio triangolare con le imprese e la politica (il cosiddetto sistema del “tavolino”, nel quale su tutti gli appalti c’era una “tassa” del 5% per le cosche).
A questo si aggiunge anche la crisi del modello tradizionale di scambio politico clientelare – quello che potremmo definire cuffarismo – per la mancanza di risorse pubbliche, trasferimenti dallo Stato e tagli dei bilanci regionali. A chiudere il cerchio c’è l’azione repressiva dello Stato che ha spostato il suo baricentro sulle misure di prevenzione patrimoniale, con sequestri e confische quotidiane per milioni di euro.
La strategia ‘ndranghetista
Il successo della ‘ndrangheta si spiega esattamente con le ragioni opposte: una organizzazione che non ha sfidato lo Stato come in Sicilia e non ha provocato la conseguente azione repressiva; l’intelligenza di cogliere il cambio di mercato della droga dall’eroina (egemonizzato da Cosa Nostra) alla cocaina fino a diventarne uno dei principali brokers a livello internazionale; la scelta di investire negli affari e nell’economia, anche grazie ad una struttura organizzativa che, riproducendo il proprio modello criminale e persino antropologico-culturale in qualunque luogo di approdo, ha determinato un vero e proprio processo di colonizzazione del Centro-Nord dell’Italia con insediamenti e cellule organizzate in tutto il mondo.
Forte di questo suo profilo di inabissamento, la ‘ndrangheta ha beneficiato dell’ipocrisia delle istituzioni che non l’hanno voluta vedere sia a livello politico che giudiziario e ha trovato una società – con i suoi “salotti buoni” e un sistema imprenditoriale come quello del Nord-Est – che l’ha ben accolta. Con la ‘ndrangheta tutti hanno trovato utile e “sicuro” fare affari, costituire società, utilizzarla come “agenzia di servizi”, godere della sua liquidità finanziaria in tempi di crisi e di cordoni ristretti da parte delle banche.
“Tu ti devi sempre ricordare che il mondo si divide in due: quello che è Calabria e quello che lo diventerà”: l’intercettazione con l’indicazione di un vecchio boss ad un nuovo affiliato registrata a Milano, può apparire pura megalomania mista a folclore, ma esprime una visione anche di riproduzione di “valori e cultura” che nessun’altra organizzazione propone. È comunque un dato certo che dalla regione più povera d’Italia, con gli indici di civiltà agli ultimi posti in Europa, si espande una organizzazione criminale, con una radicata identità allo stesso tempo arcaica e moderna, presente in tutti i continenti e, con i suoi capitali, pervasiva nell’economia del Centro-Nord del Paese, a partire dalle principali città, Roma e Milano.
Eppure una importante relazione della Commissione parlamentare antimafia del 1993, firmata da Carlo Smuraglia, fotografava la diffusione delle mafie al Nord e la prima relazione della Commissione antimafia dedicata esclusivamente alla ‘ndrangheta del 2008, firmata da chi scrive, in un lungo capitolo titolato “colonizzazioni” descriveva la diffusione regione per regione delle “famiglie” calabresi e le loro attività illegali e imprenditoriali.
Anche in quella occasione la politica, però, si è voltata dall’altra parte: i due sindaci di Milano e Torino, Letizia Moratti e Sergio Chiamparino dopo la pubblicazione della relazione dell’Antimafia hanno gridato allo scandalo negando l’esistenza di mafie nelle loro città felici; i leghisti hanno continuato ad occuparsi dell'”invasione” degli immigrati e gli uomini delle cosche hanno continuato a fare i loro affari, scalare imprese, comprare attività commerciali, moltiplicare i loro patrimoni, tessere relazioni politiche. Oggi basta aprire le pagine locali dei quotidiani, dalla Lombardia all’Emilia, dal Piemonte alla Liguria, a Roma, per trovare la ‘ndrangheta tra i titoli d’apertura, leggere di comuni sciolti per infiltrazione mafiosa in tutto il Nord e di sequestri milionari di beni.
La quota criminale del Pil
Con le dovute cautele, è utile leggere alcuni dati: l’ultima indagine di Transcrime per il Ministero dell’Interno indica in circa l’1,7% il Pil prodotto dall’economia criminale. Secondo Transcrime, che tra tutti i rilevamenti e le quantificazioni dei fatturati criminali è l’istituto che offre la quantificazione più minimalista, il 70% di questa ricchezza proviene dalle attività di ‘ndrangheta e Camorra. Ma per quanto riguarda la ‘ndrangheta solo il 23% della sua ricchezza viene prodotta in Calabria, il 21% in Piemonte, il 16% in Lombardia, l’8% in Emilia, il 7,7% nel Lazio, il 5,7% in Liguria. È la conferma del ragionamento fatto precedentemente ed è utile considerare che la principale fonte della ricchezza è il traffico della droga del quale la ‘ndrangheta è organizzazione leader.
Ovviamente si tratta di analisi elaborate su dati presunti, ma è interessante sapere, sempre secondo la stessa indagine, come viene reinvestita questa ricchezza: al Sud si privilegiano gli immobili e i terreni (‘a roba), al Nord e al Centro si investe in imprese, aziende e titoli societari e oltre il 50% degli investimenti avviene in aziende srl, con capitale sociale non superiore a 10.000 euro. L’indagine ci dice anche che la redditività delle aziende non è il primo obiettivo degli investimenti mafiosi, perché al primo posto c’è il controllo del territorio e la moltiplicazione e la cura del consenso sociale, per questo si scelgono imprese ad alta intensità di manodopera e alto coinvolgimento di risorse pubbliche, con un interesse particolare per il settore delle costruzioni, delle cave, ma anche del circuito turistico-alberghiero, quello agroalimentare e della grande distribuzione, oltre alle nuove energie rinnovabili, settore innovativo e con grandi risorse disponibili dell’Unione Europea.
I dati stimati da Banca d’Italia nel 2011 e riportati dalla Commissione europea nel 2012, quantificano il Pil delle mafie in circa 150 miliardi. Sono sempre dati presunti e come tali possono essere considerati in difetto o in eccesso, ma di queste entità si tratta. Interessante è anche l’analisi dell’Istat sulle tre voci relative alle attività illegali da includere nel calcolo del Pil italiano: droga, prostituzione e contrabbando. Secondo l’Istituto avrebbero un’incidenza dell’1% del Pil, mentre in termini di consumi la spesa per acquisto di prodotti e servizi illegali si attesterebbe sull’1,7% del complesso dei consumi delle famiglie. Così, sommando attività illegali e indotto, l’effetto dell’inclusione dell’economia illegale nel sistema dei conti nazionali avrebbe una incidenza dell’1% sul Pil, a fronte di paesi come la Francia, la Germania o la Danimarca dove non si supera lo 0,1%.
Fermo restando che queste valutazioni si basano su proiezioni di dati forniti dalle inchieste giudiziarie, dalla quantità di sequestri di stupefacenti, dai sequestri e dalle confische di patrimoni e soldi contanti alle organizzazioni criminali, è interessante utilizzarli come indicatori di tendenze e porsi alcune domande. Se soltanto il 20% circa di questa ricchezza rimane nelle casse delle mafie per far vivere le organizzazioni, assistere i reclusi, pagare gli avvocati e dare continuità ai traffici illeciti (acquisto di armi, droga, tabacco, merci contraffatte ecc.), la restante parte – pari al 70/80% – entra annualmente nell’economia legale, si volatizza nei circuiti finanziari transnazionali, ritorna ripulita attraverso società offshore distribuite nei paradisi fiscali d’Europa e di mezzo mondo. Si tratta di miliardi di euro: come si determina la linea di confine tra economia legale e illegale? E come si quantifica l’area di lavoro sommerso e nero che, soprattutto nel circuito agroalimentare e ben oltre gli aspetti legati al caporalato, è una delle componenti primarie del processo di accumulazione della ricchezza criminale?
Non vanno trascurati il ciclo del cemento e quello dei rifiuti, sia quelli illegali sia quelli “legali”, industriali e urbani, per lo smaltimento dei quali le mafie offrono servizi efficienti e a basso costo, trasformandosi in agenzie di pubblica utilità per una politica locale incapace di governare o spesso collusa con gli interessi mafiosi. È questa forza economica che oggi consegna alle mafie un forte potere di condizionamento della società e di contrattazione con la politica, che però può anche collocarsi in una posizione subalterna.
Burocrazie corrotte e connivenze imprenditoriali
Per esempio, l’inchiesta della Procura di Roma conosciuta come Mafia Capitale ha dimostrato che per l’organizzazione di Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, fermo restando i rapporti politici costruiti dai due capi a destra e sinistra, era più importante corrompere e “comprare” le funzioni ai vertici della burocrazia che non la politica. Era la burocrazia che assicurava la continuità del sistema corruttivo anche in caso di alternanza politica al governo della città. E la novità dell’inchiesta è stato il riconoscimento anche a livello giudiziario del metodo mafioso – la disponibilità dell’uso della violenza da parte dell’organizzazione – applicato al sistema della corruzione.
Quindi quando parliamo di mafie dobbiamo riferirci a organizzazioni, ma anche a sistemi criminali, a veri e propri blocchi sociali fatti da professionisti, manager, avvocati, notai, politici, burocrati, dirigenti d’azienda e di banche che si relazionano quotidianamente con i capitali criminali senza annusarne il puzzo e chiederne l’origine. È la teoria del mondo di mezzo cui faceva riferimento Massimo Carminati nella famosa intercettazione che ha dato il nome all’inchiesta. Questo mondo, secondo l’analisi del sociologo Rocco Sciarrone, rappresenta il “capitale sociale” delle mafie, soprattutto in quelle aree non considerate a tradizionale vocazione mafiosa.
Del resto secondo i dati ufficiali dell’Agenzia nazionale per la gestione dei beni sequestrati e confiscati, i beni immobili sequestrati sono 32.439 (15.565 già assegnati sulla base della legge n.109 del 1996), mentre le aziende sono 3.928 (952 già destinate). Si tratta di un valore di miliardi di euro. La proprietà di questi beni fino al momento del sequestro è sempre formalmente “pulita”, con nomi e prestanomi che solo le indagini svelano nella loro natura di “servizio” alle cosche. Su questo occorre insistere, affinare il sistema dell’aggressione patrimoniale, estendere il contrasto al riciclaggio individuando l’intreccio mafie-corruzione come centrale anche nel sistema del lavaggio dei capitali, rispettare il principio della destinazione sociale dei beni e assicurare agli enti locali destinatari le risorse necessarie per il loro riuso.
È però necessario un salto di qualità nella lotta alla mafia che interroghi le funzioni pubbliche e le categorie sociali sulle proprie responsabilità individuali e collettive. L’Assolombarda, che rappresenta un mondo imprenditoriale ricco di aziende mafiose – qualcuna come la Perego persino quotate in borsa prima del fallimento – non ha mai espulso nessun imprenditore indagato, rinviato a giudizio o persino condannato per mafia o corruzione e lo stesso è avvenuto in tutto il Paese. Avrebbero potuto e dovuto farlo, soprattutto in un territorio dove l’omertà è una scelta più che una costrizione (comunque inaccettabile) di natura “ambientale”.
La Confindustria, fino al giorno del suo arresto, ha avuto come vicepresidente nazionale con la delega alla legalità Antonello Montante, imprenditore siciliano e presidente di Unioncamere, ora condannato in primo grado a 14 anni di reclusione. È stato lui – assieme all’ex presidente della Commissione antimafia, Giuseppe Lumia – il regista dei governi che negli ultimi 10 anni si sono succeduti in Sicilia con l’appoggio e la partecipazione del Pd, da quello di Raffaele Lombardo (sotto processo per mafia) a quello di Rosario Crocetta; governi naturalmente vincolati al binomio programmatico sviluppo-legalità.
A sinistra solo retorica sulla “questione morale”
Nessuna riflessione si è sviluppata a sinistra dopo il fallimento di queste esperienze, anzi l’acquisizione al Pd renziano di personale politico del centro-destra ha moltiplicato le inchieste su questo partito con l’arresto di suoi esponenti. Così, il ricorrente riferimento al Berlinguer della “questione morale” appare sempre più come una forma ipocrita di autoassoluzione della propria coscienza piuttosto che l’acquisizione della questione morale e della lotta alla mafia come terreno di critica del potere e discriminante per una autoriforma radicale del proprio rapporto con la società, con le pratiche e le forme di costruzione del consenso e di ricostruzione di un rapporto autonomo e trasparente con il mondo dell’economia e delle imprese. È un vuoto di analisi e di proposta che viene da lontano.
Nella stagione di Tangentopoli fu delegata alla magistratura un’azione che non poteva andare oltre la dimensione giudiziaria e, in assenza di una risposta politica e sociale, la sinistra è stata risucchiata dall’egemonia di un populismo giacobino che, avendo come avversario il sistema berlusconiano e le sue manovre di regime tese a bloccare la stagione giudiziaria di mani pulite, l’ha posta in una condizione di minorità culturale. Le “avanguardie giudiziarie” alla guida di questo scontro sono state vissute da una parte larga dell’opinione pubblica come teste d’ariete e simboli di un’alternativa a Forza Italia e alla destra che non poteva avere alcuno sbocco sociale e politico se non quello di produrre una regressione culturale e alimentare un populismo “antipolitico” i cui effetti di lunga durata li viviamo nell’attuale stagione politica.
All’antimafia sociale si è sostituita un’antimafia etica da un lato ed ecumenica dall’altra. Anche in questo campo il risultato è stato un arretramento della cultura politica della sinistra e dei suoi partiti, l’accentuazione della loro crisi e l’incapacità ad autoriformarsi sia nelle modalità di organizzazione e autofinanziamento che nelle forme di selezione dei gruppi dirigenti e delle rappresentanze istituzionali.
Il dibattito politico su tangentopoli, fermato per dare priorità al blocco dei tentativi berlusconiani di aggressione alla giustizia e alla magistratura, di fatto ha portato all’autocensura di gran parte della sinistra sui limiti e gli errori di alcuni settori della magistratura stessa, sulla spettacolarizzazione delle inchieste e dei processi, sull’uso non sempre trasparente della carcerazione preventiva e sulla costruzione mediatica di alcuni “magistrati-eroi”: tutto ciò non ha aiutato né l’autonomia e l’indipendenza effettive dell’ordine giudiziario né la sinistra a recuperare la sua autonomia politica e la sua cultura garantista.
Lo stesso è avvenuto dopo l’inchiesta Mafia Capitale: nessuna riflessione si è aperta nella sinistra, nonostante fosse ampiamente coinvolta in un sistema corruttivo che non disdegnava le relazioni con un’organizzazione criminale che aveva alla sua testa un ex terrorista fascista dei Nar. E silente è rimasto pure il movimento antimafia, nonostante si giungesse a quell’indagine dopo anni di inchieste, processi e condanne che avevano colpito tutte le consorterie criminali attive a Roma, dai Casamonica agli Spada, dai Pagnozzi ai Senese alle organizzazioni attive a Ostia e nel litorale romano. Forse perché l’inchiesta è stata portata avanti con rigore, senza anticipazioni a mezzo stampa e da magistrati poco propensi a fare le star mediatiche saltando da un salotto televisivo all’altro.
Ancora una volta, nonostante le ripercussioni persino internazionali di quell’inchiesta e la conseguente consegna del Comune al populismo grillino, nessuna ricaduta vi è stata nel dibattito a sinistra, nel mondo della cooperazione, nei movimenti sociali. Sarebbe stato utile invece riflettere su come il sistema di corruzione di Mafia Capitale sia il prodotto della stagione politica neoliberista, con l’esternalizzazione di servizi a società miste o di privato sociale trasformate in strumenti di affari per milioni e milioni di euro, oppure riflettere sul passaggio dalla vecchia corruzione che finanziava i partiti (il modello Tangentopoli) al finanziamento delle fondazioni parallele ai partiti o a correnti dei partiti utilizzate come catalizzatori di finanziamenti pubblici e privati e, di fatto, strumenti di lobbies politico-affaristiche trasversali.
Reagire alla regressione politica e sociale
È andato avanti invece un processo di regressione sociale e politico generale con un governo frutto di questa involuzione che sul terreno dei diritti e della giustizia sta offrendo il peggio di sé: dallo smantellamento della riforma delle carceri all’inasprimento delle pene per i reati sociali, dalla legittima difesa alla penalizzazione di ogni forma di dissenso e conflitto segnata dalla doppia morale grillina e leghista che agita le manette per poveri e migranti, attenta quotidianamente alla libertà di informazione e, nello stesso tempo, inneggiando alla legge spazzacorrotti garantisce l’impunità per sé e i propri rappresentanti, come hanno dimostrato le ultime vicende parlamentari a proposito di esponenti della Lega.
Tutto ciò avviene mentre la credibilità della magistratura è colpita dalle sue stesse degenerazioni, dal degrado del suo sistema correntizio che da organizzazione plurale di idee e valori si è trasformato in struttura carrieristica e di potere. Il rischio ora è che si apra un varco pericoloso per riforme a vocazione di regime tese a mettere in discussione i principi costituzionali di autonomia e indipendenza della magistratura e il sistema complessivo di equilibrio dei poteri su cui si regge l’intero assetto democratico.
Il prossimo anno sarà il ventesimo anniversario della Convenzione di Palermo promossa dall’Onu sul crimine organizzato. Il modello italiano di contrasto alle mafie è esempio in tutto il mondo, ma riguarda esclusivamente la dimensione giudiziaria repressiva e investigativa e fu pensato in un tempo in cui la globalizzazione non aveva prodotto il salto di qualità delle mafie a livello economico e finanziario transnazionale.
Per questo tocca a noi – a una sinistra capace di ripensarsi e rinnovarsi profondamente – lo sforzo di ricollocare la lotta alle mafie dentro il percorso di costruzione di una società alternativa. È stato importante in questi anni l’impegno di chi ha tenuto viva l’attenzione e la mobilitazione antimafia soprattutto tra le giovani generazioni – da Libera all’Arci all’associazionismo cattolico – ma altrettanto avvertiamo la necessità urgente che la sinistra ricostruisca un suo punto di vista. L’antimafia non può continuare ad essere un punto spesso appiccicato in modo formale a un programma elettorale o di governo (che peraltro non esiste) ma deve divenire una chiave interpretativa delle attuali tendenze del capitalismo, dei suoi caratteri criminogeni e di violenza sociale, del nesso ricchezza-ingiustizia-povertà a fondamento della natura anche criminale del suo processo di accumulazione e della ostinata negazione dei diritti universali di cui ha bisogno per esistere e rigenerarsi.
Forse per guardare al futuro può essere utile ripensare al passato: i contadini che festeggiavano il 1° maggio a Portella della Ginestra non morirono soltanto perché in lotta contro la mafia e così nemmeno le decine di sindacalisti, capilega e militanti comunisti e socialisti uccisi tra la fine degli anni ’40 e i primi anni Cinquanta del vecchio secolo. Erano contro la mafia perché le loro rivendicazioni sociali e i diritti per i quali si battevano – pane, lavoro e proprietà della terra con la riforma agraria – mettevano in discussione interessi economici dominanti e gli assetti politici e di potere nei quali la mafia aveva già conquistato un ruolo da comprimaria.
La vecchia mafia delle campagne era superata e si preparava – con i soldi della droga e il loro investimento nel cemento – a trasformarsi in soggetto imprenditoriale economico e politico pronto a gestire secondo le sue regole e le sue logiche la modernizzazione economica e lo sviluppo urbanistico degli anni a venire. Nelle tumultuose trasformazioni in atto oggi, il profilo di una nuova antimafia ha di fronte le stesse questioni di allora: la natura della proprietà e della ricchezza, la trasparenza del mercato, della politica e del potere; in una parola, il capitalismo. A questo livello, anche per la lotta alle mafie, va ripensata e costruita l’alternativa.
Questo articolo è stato pubblicato nel nuovo numero di Critica marxista (3/2019).
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