di Vincenzo Vita
Lo scorso venerdì 28 giugno si è tenuto a Roma un interessante e utile convegno promosso da «Assoprovider» (presidente Dino Bortolotto) sulle telecomunicazioni, viste queste ultime dal lato dei piccoli operatori: magari meno grandi in termini di fatturato e di potere reale (al cospetto, ad esempio, degli oligarchi della rete), ma spesso negletti nelle scelte dei governi, compreso quello attuale. Eppure, dai cosiddetti «piccoli» potrebbe venire un contributo concreto contro il digital divide e per illuminare le periferie con la banda larga, attribuendo – ad esempio – le frequenze cosiddette licenziate, ferme a causa della burocrazia.
Un fulmine, però, ha attraversato il dibattito. In una delle tavole rotonde, cui partecipava anche il dinamico esponente del ministero dello sviluppo Marco Bellezza insieme ad un parlamentare del Mov5Stelle, l’esponente della Lega si è lasciato sfuggire una inquietante notizia.
Di fronte all’accelerazione tecnologica e all’avvento dell’ultimo mito – il 5G – i limiti posti dal decreto ministeriale n.381 del settembre 1998 sull’inquinamento elettromagnetico (6 volt metro) vanno messi in soffitta. Il numero bisbigliato dal seguace di Salvini, con incoscienza apparentemente innocente, è clamoroso: 54 volt metro. Vale a dire nove volte di più.
Come in Germania, è stato detto, ma persino lì il limite così alto non riguarda i singoli impianti. Non solo. È bene ricordare che in Europa ben nove Paesi hanno adottato i 6 volt metro, ridotti a 3 in Svizzera e in Lussemburgo. Il Consiglio d’Europa e il parlamento di Strasburgo hanno, del resto, votato importanti risoluzioni.
La municipalità di Bruxelles è andata davvero oltre, vietando persino l’uso del 5G, su cui – ha sottolineato l’Assoprovider- si sono dette molte bugie, per una sfacciata strategia di marketing commerciale. Insomma, l’attuale governo riuscirà dove neppure la compagine di Silvio Berlusconi si avventurò?
Certamente, gli esecutivi presieduti da Mario Monti e Matteo Renzi una breccia l’aprirono, estendendo la base oraria di computo dei limiti, “spalmando” il computo e attenuandone l’efficacia. Il numero simbolico stabilito nel 1998 dal centrosinistra dell’epoca non è stato, però, stravolto. Accadrà proprio adesso, quando – se mai – la densità delle frequenze necessarie per attuare il sogno digitale richiederebbe maggiore e non minore cautela?
Recentemente, poi, la Iarc (agenzia internazionale per la ricerca sul cancro) ha stabilito una soglia per il rischio attivo assai vicina al massimo.
Vale a dire. Se pure non c’è la prova provata del delitto, esistono ormai numerosissimi indizi certi sull’esito tumorale dell’esposizione prolungata ai campi elettromagnetici, divenuti un territorio trafficatissimo e più che caotico. Non vediamo le linee di diffusione che stanno sulle nostre teste, ma siamo immersi in un’infosfera ad alta mortalità.
Diversi anni fa venne sottovalutato il pericolo negli edifici dell’amianto. E successivamente scoppiò la tragedia. Il caso in questione è simile. Tra qualche tempo, neanche lontano, l’incidenza del cancro aumenterà in termini significativi. Purtroppo.
In quale pagina del destino sta scritto che, dopo aver ceduto la nostra privacy, nonché abdicato alla autonoma costruzione di una coscienza critica e non modificata dal martellamento digitale, è ora venuto il momento di offrire pure il sacrificio del nostro corpo? Come in un inquietante rito pagano.
Dopo la suggestione della «decrescita felice», ci si appresta a favorire l’agonia infelice? Fermatevi, per favore. Non tutto ciò che è tecnicamente possibile è giusto.
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano Il manifesto il 3 luglio 2019