di Alfonso Gianni
Il parto è stato lungo e difficoltoso, tre giorni di vertice, uno dei più lunghi della storia europea, ma alla fine il risultato delle nomine conferma le tendenze che si potevano prevedere sia prima che soprattutto dopo il voto per il rinnovamento del Parlamento europeo. In sostanza l’asse, formato da popolari, socialisti e liberali, che già partorì la presidenza Juncker ha tenuto, anche se lo stato di salute e i rapporti interni fra le forze che lo compongono sono mutati e non in modo trascurabile.
Soprattutto sull’intesa, che attende la validazione del Parlamento – e non tutto è scontato – ha pesato l’accordo di Aquisgrana, che ha cercato di ridare forza a un asse franco-tedesco un po’ ammosciato dal declino della Merkel e del suo partito nonché dagli scarsi successi in patria di Macron, superato dalla Le Pen nel voto europeo. In sostanza gli equilibri fra le forze politiche si sono incrociati con le intese fra i governi e ad avere la meglio non sono certamente stati i primi. La logica intergovernativa l’ha fatta ancora una volta da padrona. Le due cariche più rilevanti, alla Bce e alla Presidenza della Commissione sono andate a Christine Lagarde, figura ormai di caratura internazionale, direttrice del Fmi, ma pur sempre francese ed ex ministra delle finanze di Sarkozy, e alla tedesca Ursula von der Leyen, fedelissima di Angela Merkel.
La prima vittima di queste logiche è stata la figura dello Spitzenkandidat, il candidato-guida, che secondo l’innovazione introdotta nel 2014 avrebbe dovuto rappresentare una sorta di “parlamentarizzazione” del metodo delle nomine, avvicinando nelle intenzioni le figure apicali delle istituzioni europee ai cittadini, tramite l’indicazione preventiva dei candidati a quelle cariche e la loro partecipazione alla campagna elettorale. Una forma certamente spuria, dal momento che l’indicazione formale del Presidente della Commissione spetta comunque ai governi, prima di essere sottoposta all’approvazione del Parlamento. Sarebbe stato comunque un passo in avanti, ma è stato negato in modo netto dalla prevalenza ancora una volta delle logiche e delle pratiche intergovernative.
Il Ppe, per quanto indebolito, porta a casa le due cariche di maggiore prestigio, ma il suo Spitzenkandidat, Manfred Weber, rimane impallinato in mezzo tra due fuochi. Da un lato Macron ha posto il veto sulla sua nomina, dall’altro Angela Merkel, che ha giocato assai bene le sue carte in quella che per lei potrebbe essere un finale di partita, che vede una sua creatura politica occupare lo scranno più alto della Commissione, pur facendo la bella figura di astenersi sulla sua nomina, e nello stesso tempo nella collocazione della Lagarde alla Bce trova una figura che non appare affatto in continuità con le scelte di Draghi poco amate dai tedeschi. Anche se la stessa Lagarde si troverà quantomeno per i primi mesi un terreno già tracciato da un Draghi che ha promesso una politica monetaria accomodante per i prossimi mesi.
Per Macron il bilancio è più magro, anche se una ex ministra della difesa nominata presidente della Commissione, anche se tedesca, potrebbe essere più sensibile a quei progetti di costruzione di un esercito europeo che stanno a cuore all’Eliseo. Mentre i liberali piazzano alla guida del Consiglio d’Europa il premier belga Charles Michel, togliendolo quindi dalle difficoltà che stava accumulando in patria. Assai meno contenti i socialisti e non hanno mancato di farlo notare.
La bocciatura di Frans Timmermans, altro Spitzkandidat impallinato, è il frutto da un lato della sua corresponsabilità diretta nelle politiche rigoriste della Commissione di cui era vicepresidente, dall’altro, e soprattutto, dello scontro da lui condotto contro Polonia e Ungheria in difesa dello stato di diritto. In questo caso il gruppo di Visegrad e Salvini segnano un punto a loro favore e quella motivazione getta ulteriore ombra sulla difesa dei diritti nella Ue. Ai socialisti è andata la figura di Alto rappresentante per la politica estera, la carica che era della Mogherini. Come si vede tutti i giorni una politica estera comune non esiste nella Ue. Il ruolo di Josep Borrell è quindi tutto da inventare ma nasce debole in partenza.
Non può passare inosservata l’assenza di attribuzioni di cariche che contano ai Verdi, malgrado la loro consistente e finanche sorprendente avanzata nel voto popolare. Un segnale pesante. Uno schiaffo ai movimenti giovanili contro il riscaldamento climatico che hanno vivacizzato la vita sociale del continente in questi ultimi mesi. Un atto di debolezza, quasi di sottomissione, a chi, come Trump, del problema ambientale fa motivo di sprezzante ironia. Un altro tassello che compone le più tradizionali politiche liberiste che l’ambiente lo sfruttano in tutti i sensi e ad ogni livello.
Infine che dire della elezione di David Sassoli a presidente del parlamento europeo? La cosa ha fatto inviperire i pentaleghisti e ha ridato un po’ di fiato a Zingaretti. Certo peggio di Tajani sarà difficile fare. Ma Sassoli non si è presentato nel modo migliore, scegliendo, nel presentare la propria candidatura, di accompagnarla con una citazione, per altro insignificante, di Jean Monnet, proprio uno dei sostenitori di quella teoria funzionalista che prevede che l’Europa politica si possa fare passo per passo partendo dall’Europa economica. Con le conseguenze negative che sono sotto gli occhi di tutti. Ovvero una Unione europea che è dominata dagli interessi economico – finanziari e in preda alle dottrine liberiste, malgrado il loro dimostrato fallimento.
Questo articolo è stato pubblicato da JobNews il 5 luglio 2019