Sovranità nazionale, pace e giustizia sociale

2 Luglio 2019 /

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di Alessandro Somma
Alcune recenti pubblicazioni indicano l’affiorare di un filone letterario in controtendenza rispetto alla vulgata per cui la sovranità costituisce un concetto “odioso perché presuppone uno stare sopra” e dunque implica “subordinazione” [1]. Non è ancora un filone dai tratti particolarmente definiti, e tuttavia l’indicazione che se ne ricava è sufficientemente univoca: nella storia recente della sovranità si possono indubbiamente registrare momenti bui, ma essa resta pur sempre il motore dei moti emancipatori fondativi del nostro stare assieme come società. Si colloca su questo terreno l’analisi di coloro i quali, dai punti di vista più disparati, salutano con favore il ritorno dello Stato e “un recupero non nazionalista della dimensione nazionale” [2], e a monte della sovranità popolare [3]. E che nel contempo sottolineano le radicali differenze tra la loro prospettiva e quella di chi invoca confini al solo fine di promuovere identità violente e premoderne [4].
Ad accrescere questa produzione si è aggiunta l’ultimo libro di Carlo Galli [5]. Questi non si sofferma tanto sulle ragioni per cui la sovranità debba essere recuperata, il che presupporrebbe la possibilità di farne a meno, bensì sui motivi per cui essa costituisce l’imprescindibile “forma politica di una società, che grazie a essa si costituisce e agisce” (29). Il tutto documentato a partire da una panoramica succinta ma ricca e ampia sullo sviluppo storico e i fondamenti di ordine filosofico della sovranità, impiegata come sfondo per riflettere sui pericoli e le potenzialità riconducibili a quanto viene volgarmente descritto in termini di momento sovranista. E per farlo rifuggendo dai facili entusiasmi tipici di certa letteratura critica con il cosmopolitismo, ma non per questo aliena dalle semplificazioni che caratterizzano l’argomentare dei suoi fautori.
Storicizzare la sovranità
Prima di entrare nel vivo delle riflessioni di Galli, occorre soffermarsi su un invito ricorrente nella sua opera, ma che in questo caso è particolarmente amplificato: l’invito a storicizzare l’oggetto di studio. La sovranità è infatti “originariamente esposta alla storia” (12), quindi caratterizzata da “insuperabile contingenza” (21) e “mai uguale a se stessa” (148).
Se così stanno le cose, occorre riconoscere che vi sono state epoche in cui la sovranità è stata fine a se stessa, ha cioè alimentato l’autosufficienza del potere politico e legittimato il suo arbitrio e le sue violenze: epoche in cui si mostrava nella sua essenza di dispositivo destinato a impedire l’emancipazione individuale e sociale, motivo per cui era evidentemente opportuno criticarla e combatterla (149). Nel tempo le cose sono però cambiate: la sovranità è divenuta “potere impersonale di tutti” (29), e anche in questa veste un potere limitato al fine di evitare che per il suo tramite sia avallata una sorta di dittatura della maggioranza (26 ss.).
Chi invoca sovranità esprime pertanto una “volontà di autogoverno” e lo fa per invocare “protezione fisica e promozione sociale della persona”, per combattere la “sovranità del mercato” (70). E in particolare affida alla sovranità il compito di ripoliticizzare il mercato, di ripristinare i meccanismi deputati a consentire lo sviluppo del conflitto redistributivo, così come la traduzione del suo esito in comportamenti dei pubblici poteri. La sovranità è insomma lo strumento da attivare per “difendere o restaurare la democrazia” (125), in un’epoca in cui essa viene a tal punto ridimensionata dall’ortodossia neoliberale, da evidenziare il rischio concreto di una sua imminente cancellazione.
Bisogno di protezione
Ciò detto è indubbio che l’attuale richiesta di sovranità ben può essere motivata dalla volontà di alimentare la sua “valenza oppressiva”, piuttosto che la sua carica “emancipativa” (125). Lo stesso era accaduto al principio del Novecento, quando un secolo di invadenza dei mercati aveva messo a rischio la sopravvivenza delle società, e queste avevano reagito chiedendo la protezione dello Stato: in alcuni casi assicurata nel rispetto del meccanismo democratico, come con il New Deal statunitense, e in altri in combinazione con la soppressione di quel meccanismo, come accadde con i regimi fascisti [6]. Peraltro l’esito della richiesta di sovranità non è scontato: dipende dalla capacità della politica di governare in senso democratico il processo di rinazionalizzazione opposto all’invadenza dei mercati e ai loro minacciosi sconfinamenti.
Quanto sta avvenendo non testimonia certo una simile capacità e anzi mette in luce la volontà di interpretare la domanda di sovranità come richiesta di presidiare identità “tribali-naturali” (26), come dispositivo volto a produrre e alimentare “comunità compatte” in linea con il modo nazionalista e razzista di “organizzare la sfera pubblica” (17). Se peraltro sono queste le risposte alla domanda di protezione, essa è destinata a rimanere insoddisfatta: i valori premoderni sono buoni solo a sterilizzare i conflitti provocati dalla modernità neoliberale, a occultarli nella loro essenza di prodotti ineliminabili del funzionamento del mercato. Di qui la conclusione lapidaria di Galli, secondo cui “l’anticapitalismo di destra è un’opzione soltanto teorica” (139), e la relativa rivendicazione di sovranità un’istanza facilmente “piegata alla conservazione dello status quo” (149).
Un riscontro esemplare di questa conclusione lo ricaviamo dalle vicende che oramai da qualche tempo caratterizzano i Paesi dell’est europeo. Lì la richiesta di dimensione sovrana è particolarmente pressante in quanto l’ingresso nell’Unione ha comportato l’adesione all’ortodossia neoliberale senza la mediazione degli elementi di democrazia economica che, sebbene in misura sempre più ridotta, caratterizzano le costituzioni dei Paesi fondatori della costruzione europea. Di qui la richiesta di protezione a cui si è però risposto con un sovranismo violento e identitario, utile a individuare nemici esterni da combattere in luogo dell’ortodossia neoliberale. Utile a produrre una cortina fumogena chiamata a occultare la reale natura della minaccia alla sopravvivenza della società, simboleggiata dai mitici parametri di Maastricht che non a caso non sono mai stati messi in discussione.
Se peraltro si vogliono evitare simili camuffamenti, occorre non cadere nell’errore di mortificare la richiesta di protezione che le società rivolgono agli Stati, etichettandola come mera espressione di sovranismo reazionario o di xenofobia (138). Occorre cioè non consegnare alle destre le masse intente a chiedere ciò per cui la sinistra si è storicamente battuta: “un futuro da cittadini e non da consumatori indebitati” (148). È questa la funzione che rinvia alla “normalità” della sovranità: strumento di “lotta di larghe fasce popolari contro i mercati” (126), di “reazione a un’economia che si è fatta pericolosa e portatrice di crisi” (128), e in tal senso fonte di “protezione pubblica delle vite e dei beni privati” (17).
Cosmopolitismo e mercati sconfinati
Se così stanno le cose, è lecito dubitare seriamente dell’attuale capacità della politica di governare in senso democratico la richiesta di protezione che le società rivolgono agli Stati. Non tanto perché, riconosciuti i termini della quesitone, non si riesce a sviluppare una progettualità coerente: il problema è a monte e riguarda un giudizio triviale su quanto si reputa esprimere la sovranità. Questa è diffusamente considerata, sintetizza efficacemente Galli, “cosa da poveri di spirito” in “preda di superstiziose paure”, sinonimo di “prigionia, logiche confinarie e identitarie, chiusura morale e intellettuale, razzismo, xenofobia”. Tutto l’opposto di quanto si reputa costituire l’essenza del cosmopolitismo, concetto riassuntivo di tutto ciò che si riconduce al “bene” (7 s.).
Intendiamoci, simili giudizi non si rinvengono solo nel discorso pubblico più o meno divulgativo, ma attraversano anche la riflessione scientifica. Tra i cultori del diritto, ad esempio, è diffuso l’orientamento secondo cui la sovranità è oramai “una categoria antigiuridica” in quanto rinvia a scenari caratterizzati dalla “assenza di limiti e di regole”. Motivo per cui occorrerebbe liberarsene e affidarsi ad altre costruzioni per rifondare le strategie di emancipazione individuale e sociale: prima fra tutte la tutela internazionale dei diritti [7].
I fautori di un sistema di tutela dei diritti fondamentali radicato fuori della cornice statuale trascurano un dato essenziale: che i “diritti senza sovrano” sono “eterei”, o in alternativa efficaci solo nella misura in cui la loro implementazione viene in ultima analisi assicurata da entità direttamente o indirettamente riconducibili al perimetro della statualità [8]. E le cose non cambiano considerando che lo spazio giuridico globale è oramai affollato di entità pubbliche e private la cui interazione è governata da regole, oltre che da istituzioni chiamate a farle rispettare, idoneo pertanto a renderlo efficace [9]. Anche se una “pluralità di soggetti ormai tra loro connessi da reti planetarie” ha alimentato ma solo in parte soddisfatto “un innegabile bisogno di diritto e di diritti”, i quali riprendono e ampliano il catalogo delle posizioni rivendicate dai “soggetti storici della grande trasformazione moderna” [10].
Insomma, il ruolo delle entità internazionali e sovranazionali nella difesa dei diritti non deve essere minimizzato, e tuttavia nemmeno si può ritenere che quelle entità rappresentino un efficace sostituto dell’azione a livello statuale. È quanto sottolinea anche Galli, stigmatizzando il “cortocircuito fra diritti umani e diritto internazionale che può scavalcare la sovranità degli Stati” (108), e ricordando come la riduzione dello Stato a “soggetto non-sovrano” sia nell’interesse dei mercati e della loro volontà di rappresentarsi come “asse attorno a cui ruota la politica” (111).
La federazione interstatuale di Hayek
Che il cosmopolitismo sia l’alimento primo dei mercati, lo ricaviamo in modo inequivocabile dalle parole di un padre dell’ortodossia neoliberale: Friedrich von Hayek. Questi muove da una considerazione fondativa del pensiero cosmopolita, sulla quale torneremo tra breve, ovvero che il superamento della sovranità nazionale costituisce una condizione imprescindibile per promuovere la causa della pace. Il superamento non doveva però portare solamente a un’unione politica, bensì anche e soprattutto a un’unione economica, entrambe da realizzare nell’ambito di una “federazione interstatale” [11]. Compito di questa costruzione era consentire la libera circolazione dei fattori produttivi, celebrata in quanto capace di spoliticizzare il mercato: di vanificare l’azione dei pubblici poteri volta e influenzare la formazione dei prezzi e a ostacolare con ciò lo sviluppo del mercato autoregolato.
Hayek celebra insomma il vincolo esterno rappresentato dalla forza condizionante di un mercato unico, che impedisce agli Stati di promuovere forme di emancipazione diverse da quelle cui prelude l’equazione per cui si identifica l’inclusione sociale con l’inclusione nel mercato: “sarà difficile produrre persino le discipline concernenti i limiti al lavoro dei fanciulli o all’orario di lavoro”.
Più precisamente, la federazione interstatuale deve ridurre “le relazioni economiche internazionali” a “relazioni fra individui” e non anche “fra intere nazioni”, consentendo così di vanificare il conflitto redistributivo in quanto motore di scelte non allineate all’ortodossia neoliberale. Invero “il popolo di un qualsiasi Paese può essere facilmente persuaso a fare un sacrificio per sostenere quella che considera come la propria industria o la propria agricoltura, o per fare in modo che nel suo Paese nessuno scenda sotto un certo livello”. La stessa solidarietà non si attiva però tra popoli di Paesi diversi: “chi potrebbe immaginarsi che esista qualche comune ideale di giustizia distributiva tale da indurre il pescatore norvegese a rinunciare alla prospettiva di un miglioramento economico per aiutare il suo compagno portoghese, o l’operaio olandese a pagare di più per la sua bicicletta allo scopo di aiutare il meccanico di Coventry, o il contadino francese a pagare più tasse per sostenere l’industrializzazione dell’Italia?” [12].
E il cosmopolitismo non si limita a produrre un rifiuto delle politiche redistributive dal punto di vista morale. Consente anche di rimpiazzare i conflitti tra Stati nazionali con una sana “lotta per la concorrenza”, e soprattutto la lotta di classe con il conflitto tra poveri: “per il lavoratore che vive in un Paese povero, la richiesta fatta da un suo collega più fortunato di essere protetto contro la concorrenza a salari bassi da una legislazione di salari minimi, si suppone nel suo interesse, è spesso niente più che un mezzo per privarlo della sua sola occasione di migliorare la propria condizione: quella di superare gli svantaggi che gli sono naturali, lavorando a salari più bassi rispetto ai suoi compagni degli altri Paesi” [13].
Sul popolo europeo
Soffermiamoci ancora per un momento sul ruolo del cosmopolitismo come contributo alla costruzione di un ambiente istituzionale entro cui non vi sono legami solidaristici capaci di ispirare comportamenti diversi da quelli relativi al libero incontro di domanda e offerta: un ambiente nel quale l’individuo è isolato di fronte al mercato, e per questo condannato a reagire in modo automatico ai suoi stimoli. Proprio questo aspetto viene messo in evidenza dalle riflessioni sulla sovranità che Galli esalta nella sua essenza di “espressione della politicità di un popolo” (102): comunità in tal modo definita a partire da vicende radicalmente alternative a quelle cui rinviano i valori premoderni. Il popolo si identifica infatti a partire dalla condivisione di un “progetto comune in un determinato territorio”, o più precisamente dal consenso attorno ai modi di “distribuire la ricchezza prodotta in quel territorio”, a prescindere dalla riconduzione al medesimo “gruppo etnico o religioso” [14].
Su questo nodo scivolano molti dei tentativi di legittimare l’Unione europea in quanto comunità che, almeno in prospettiva, può aspirare a recuperare la sua dimensione sociale. Tentativi che, per dirla con Zygmunt Bauman, sono chiamati a fare i conti con la circostanza per cui “lo stimolo all’integrazione politica, e il fattore necessario affinché progredisca, è la visione condivisa di una missione collettiva” [15]. Certo, si può aggirare il problema sostenendo che la comunità politica può emergere in quanto sviluppo naturale di una comunità nata a partire da vicende di ordine economico: in linea con la celeberrima vulgata neoliberale per cui l’affermazione di un ordine capitalista finisce prima o poi per produrre un ordine democratico. È peraltro gioco facile ribattere che non è lecito “sperare che i popoli degli Stati… adattandosi alle leggi del mercato si uniranno grazie alla giustizia del mercato in un popolo ideale” [16].
Non resta dunque che riconoscere come la costruzione europea, in quanto dispositivo neoliberale, sia concepita per impedirle di divenire il catalizzatore a livello sovranazionale dei medesimi meccanismi solidaristici combattuti a livello nazionale. E se anche si intensificasse l’integrazione, essa non potrebbe mai rendere un eventuale popolo europeo capace di esprimere la sua politicità: questo piacerà forse ai cosmopoliti nemici della sovranità, ma non porterà una goccia d’acqua al mulino dell’Europa sociale.
Pax europea
Le riflessioni dedicate da Galli alla sovranità incrociano incidentalmente un motivo ricorrente nella retorica cosmopolita: l’osservazione che l’Europa unita ha assicurato settant’anni di pace. La storia ci racconta che “non è stata l’Ue a evitare la guerra in Europa, ma l’esito stesso della seconda guerra mondiale” (130), ovvero la guerra fredda.
Non si tratta qui di celebrare le virtù di un confronto politica e militare durato per decenni, bensì di mettere a fuoco le conseguenze che la sua fine ha prodotto sul piano economico. Fino a quando è esistito il blocco sovietico, il blocco occidentale era stimolato a esibire un capitalismo dal volto umano, capace di assicurare un accettabile equilibrio con la democrazia e con ciò di non incrementare l’attrattiva del socialismo. Solo dopo il crollo del Muro, infatti, l’ortodossia neoliberale si è mostrata in tutta la sua virulenza, determinando il rovesciamento del compromesso keynesiano che pure poteva trovare qualche appiglio nei Trattati di Roma: è il senso del percorso che ha condotto alla moneta unica e che è stato introdotto dall’attuazione del principio della libera circolazione dei capitali, fino ad allora avversato in omaggio al cosiddetto compromesso di Bretton Woods [17].
Altrimenti detto, la pace è stata assicurata dalla giustizia sociale, così come è stata la negazione di quest’ultima e non la sovranità nazionale, ad aver provocato la seconda guerra mondiale. Proprio questo si è invece detto alla sua conclusione, quando si è discusso della tendenza invincibile dello Stato a provocare conflitti bellici e a vivere la pace unicamente come momento preparatorio di quei conflitti: come si è scritto con particolare veemenza nel celeberrimo Manifesto di Ventotene [18].
Ora, che nel corso della prima metà del Novecento lo Stato nazionale sia divenuto un’entità invadente, tanto da insidiare la sopravvivenza della società, è un fatto difficilmente contestabile. Sappiamo peraltro che l’esaltazione della dimensione statuale e nazionale è stata la reazione a una fase storica caratterizzata da processi di denazionalizzazione anch’essi decisamente minacciosi per la sopravvivenza della società. Così come sappiamo che la costruzione europea si è nel tempo trasformata in un dispositivo programmato per vanificare qualsiasi tentativo di mutare la sua ispirazione neoliberale. Il tutto, sia detto per inciso, utilizzando ricette condivise dal Manifesto di Ventotene, che affida anch’esso alla dimensione sovranazionale il compito di disinnescare il conflitto redistributivo [19].
Se così stanno le cose, stupisce quantomeno l’insistenza con cui i fautori del cosmopolitismo continuano a sostenere le ragioni di una costruzione europea, che a questo punto da strumento per la promozione di valori positivi si trasforma in fine a se stesso: esattamente come lo Stato nazionale nella lettura di chi avversa la sovranità. Di qui la conclusione, formulata da Galli a corredo dell’osservazione secondo cui l’europeismo costituisce a ben vedere una forma di ipersovranismo, che gli europeisti sono “ancora più sovranisti degli odierni sovranisti” (143).
Note

  • [1] G. Ferrara, La sovranità popolare e le sue forme, in S. Labriola (a cura di), Valori e principi del regime repubblicano, vol. 1, Roma e Bari, 2006, p. 251.
  • [2] C. Formenti, Il socialismo è morto viva il socialismo. Dalla disfatta della sinistra al momento populista, Milano, 2019, p. 186.
  • [3] Th. Fazi e W. Mitchell, Sovranità o barbarie. Il ritorno della questione nazionale, Milano, 2018 e A. Somma, Sovranismi. Stato popolo e conflitto sociale, Roma, 2018.
  • [4] Ad es. D. Rodrik, Dirla tutta sul mercato globale. Idee per un’economia mondiale assennata (2018), Torino, 2019 e Y. Tamir, Why Nationalism, Princeton, 2019.
  • [5] C. Galli, Sovranità, Bologna, 2019 (i numeri fra parentesi nel testo si riferiscono alle pagine dell’opera). V. anche Id., Apologia della sovranità, in Limes, 2019, 2, p. 159 ss. e Id., Senza sovranità non c’è politica, in Corriere della sera del 28 aprile 2019, entrambi ripubblicati in https://ragionipolitiche.wordpress.com.
  • [6] La vicenda, cui si riferisce anche Galli (127), è quella narrata da K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca (1944), Torino, 1974, pp. 56 e 167 ss.
  • [7] L. Ferrajoli, La sovranità nel mondo moderno, Roma e Bari, 1997, p. 39 ss.
  • [8] Così G. Azzariti, Il costituzionalismo moderno può sopravvivere?, Roma e Bari, 2013, p. 58 ss.
  • [9] S. Cassese, Chi governa il mondo? (2012), Bologna, 2013.
  • [10] S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma e Bari, 2012, p. 6.
  • [11] F. von Hayek, The Economic Conditions of Interstate Federalism, in New Commonwealth Quarterly, 5, 1939, p. 131 ss.
  • [12] F. von Hayek, La via della schiavitù (1944), Soveria Mannelli, 2011, p. 269 ss.
  • [13] Ivi, p. 275.
  • [14] C. Formenti, Quelle sinistre che odiano il popolo (29 gennaio 2018).
  • [15] Z. Bauman, Oltre le nazioni. L’Europa tra sovranità e solidarietà (2012), Roma e Bari, 2019, p. 17.
  • [16] W. Streeck, Tempo guadagnato (2012), Milano, 2013, p. 204.
  • [17] Cfr. A. Somma, Maastricht, l’Europa della moneta e la cultura ordoliberale. Storia di una regressione politica, in A. Barba et al., Rottamare Maastricht. Questione tedesca, Brexit e crisi della democrazia in Europa, Roma, 2016, p. 70 ss.
  • [18] A. Spinelli e E. Rossi, Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto, in E. Rossi et al., Ventotene. Un manifesto per il futuro, Roma, 2014, p. 21 s.
  • [19] Ivi, pp. 23 e 29 ss. V. anche A. Spinelli, Il Manifesto dei federalisti europei, Genova e Ventotene, 2016, pp. 70 ss. con l’invito ad attuare la libera circolazione dei capitali.

Questo articolo è stato pubblicato da Micromega Online il 5 giugno 2019

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