Mancano i posti, serve un piano di lavoro garantito

27 Giugno 2019 /

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di Jacopo Foggi
Quando nel 2007 esplode la crisi finanziaria statunitense, il mondo intero sembra venir colto di sopresa. L’evento segnerà l’inizio di un lungo periodo di recessione economica, investendo tutto l’Occidente e buona parte del globo, connotandosi, de facto, come una nuova crisi del capitalismo, omologa a quella del 1929. Da allora sono trascorsi ormai più di dieci anni ma il ritorno ai livelli di prosperità, anche solo pre-crisi, sembra essere ancora lontano. Tanto la sorpresa davanti alla deflagrazione quanto il perdurare dei suoi strascichi, però, sono riconducibili entrambi ad una più profonda carenza di rappresentazione. La responsabilità principale di tale situazione drammatica, infatti, può essere ricercata nel fatto che da diversi decenni, il lavoro, nel suo senso più pieno di diritto ad una buona e piena occupazione, sembra essere stato del tutto rimosso; come confermato dal sempre più ampio riconoscimento del ruolo cruciale giocato dalla crescita delle disuguaglianze sia nella crescita dell’indebitamento privato sia nel rallentamento della crescita economica in molti paesi occidentali – la cosiddetta «stagnazione secolare».
Nel tentativo di rispondere alla persistente gravità della situazione economica e occupazionale è in corso da diverso tempo una seria discussione circa la possibilità di adottare un’importante misura di politica sociale a sostegno di particolari sotto-classi sociali, disoccupati e precari in primis: il reddito cosiddetto «di cittadinanza» (o reddito di esistenza, o universale). Si tratterebbe di un trasferimento monetario che verrebbe elargito agli individui indipendentemente dalla loro condizione economica e dalla loro disponibilità a svolgere una qualsiasi occupazione, anche se, a seconda di chi lo propone, può essere declinato in modo diverso. Esso mirerebbe ad ampliare le tradizionali misure di sostegno al reddito già diffuse in molti paesi sviluppati, basate sul test dei mezzi e sulla condizionalità e in genere limitati nel tempo, per estenderle in senso universalistico e incondizionato. Ebbene, si tratta tuttavia di un dibattito che col presente volume intendiamo ridimensionare, alla luce di un’alternativa politica che miri piuttosto a riportare il lavoro al centro della scena.[…]
Qualsiasi forma di salario minimo garantito non può curare la malattia della disoccupazione. Se pertanto usciamo dalla logica di essere considerati meri consumatori (consumo ergo sum) ma, piuttosto, come affermato sopra, guardiamo al lavoro come una possibile fonte di arricchimento personale e sociale in senso lato, allora perché non considerare il fatto che sarebbe meglio unlavoro garantito piuttosto che un reddito garantito e, pertanto, iniziare a lottare per ottenerlo? Perché non contribuire a rafforzare il mondo del lavoro in modo tale che, se davvero il lavoro dovesse divenire progressivamente superfluo, si possa pensare a ridurre e redistribuire gli orari di lavoro, invece di creare una società spaccata in due, in cui una parte sempre più piccola lavora per pagare le rendite dell’altra parte?
E tuttavia, riguardo al creare lavoro, dal lato strettamente economico occorre osservare come neanche uno stimolo, sic et simpliciter, alla domanda potrebbe essere efficace nella creazione di un numero e di un tipo di posti di lavoro tali da costituire una reale opportunità di inclusione sociale: si aumenta la spesa e si spera che i consumi inneschino un meccanismo tale da generare un incremento di produzione che faccia aumentare i posti di lavoro. Ma non è così. In generale si pensa che basti invocare politiche keynesiane perché tutto si risolva. Lo stesso Keynes, in realtà, non si è espresso completamente su come sostenere politiche di bilancio che vengano indirizzate esplicitamente e direttamente a favore dei disoccupati, anche se in molti suoi scritti emerge un chiaro progetto a favore di un programma di lavoro “all’occorrenza” permanente e disponibile a tutti.
Per trovare sviluppata una proposta seria e articolata in questo senso bisogna rifarsi innanzitutto a Hyman Minsky e ai suoi studi sulle politiche del lavoro. La proposta che presentiamo qui – sviluppata poi soprattutto nell’ambito degli studi della scuola della Teoria della Moneta Moderna ma non necessariamente concepibile solo all’interno di questo quadro teorico – si rifà alle politiche di creazione diretta di lavoro del New Deal di Roosevelt per come rielaborate da Minsky negli anni ’60, e in particolare sulla sua proposta di assegnare allo Stato il ruolo di “Datore di Lavoro di Ultima Istanza” (Employment of the Last Resort – ELR). Si parlerebbe, dunque, di una politica del Lavoro Garantito, in cui si creano (lo Stato crea) posti di lavoro per chi li vuole assicurando un pavimento alla struttura salariale. Il nucleo della proposta consiste in ciò: lo Stato, direttamente o indirettamente, deve garantire, in modo anticiclico, la creazione flessibile di un numero di posti di lavoro ad un salario prestabilito superiore alla soglia di povertà e finalizzati ad assorbire la forza- lavoro involontariamente disoccupata. Un’offerta di posti di lavoro quindi «infinitamente elastica» che prescinda dalle dinamiche della redditività del settore privato, che offra un salario in cambio di lavori nella miriade di piccoli e grandi servizi e attività dei quali c’è estremo bisogno in tutte le società e che garantiscono una formazione professionale direttamente sul campo. In contrasto con le proposte di reddito di cittadinanza, dunque, questa si presenterebbe come un vero e proprio «lavoro di cittadinanza». Se poi qui il lavoratore si qualifica al punto da accedere ad un impiego migliore, con retribuzione e tutele più elevate, potrà uscire dal sistema del lavoro garantito ed entrare nel mercato del lavoro vero e proprio. Nel frattempo avrà avuto un lavoro e avrà potuto contribuire attivamente alla produzione sociale.
Tra le critiche convenzionali a una politica di questo tipo vi è l’idea che la Politica del Lavoro Garantito sia solo una forma di «work-fare» che costringe le persone a lavorare. Non è così. Essa fornisce un posto di lavoro a chi lo desidera. I destinatari sono infatti i disoccupati involontari. Tale condizione presuppone una situazione che non si vuole: lo status di disoccupato indica, appunto, chi è senza lavoro e lo sta cercando. Le persone involontariamente disoccupate, dunque, vogliono lavorare. La Politica del Lavoro Garantito offre posti di lavoro ma nessuno è obbligato a prenderne uno. Del resto, il presupposto stesso dell’approccio qui presentato, mira a ribaltare l’impostazione che si è istituzionalizzata negli ultimi decenni nella quale la disoccupazione e la povertà vengono viste essenzialmente come legate a problemi di tipo microeconomico che segnalano o una indisponibilità dei lavoratori ad accettare o soddisfare le condizioni presenti sui mercati del lavoro, oppure altri tipi di rigidità dei mercati che ne impediscono la flessibilità di prezzo. Esso mira invece, come accennato, a impostare la questione come una carenza macroeconomica di effettiva mancanza di posti di lavoro – restando compatibile con qualsiasi altra rete di sicurezza che la società desideri.
Parallela a questa è la critica che denuncia l’eventualità di veder proliferare lavori inutili pagati dallo Stato. Più che di un problema, però, si tratta di una sfida e, in ogni caso, di scegliere tra lo spreco totale della disoccupazione e il rischio di uno spreco parziale dovuto a progetti mal gestiti o alla presenza di situazioni particolarmente complesse.
Vi è inoltre chi potrebbe vederci dello «statalismo» deteriore, ma anche questa critica può essere con facilità restituita al mittente. È infatti evidente come non vi sia alcunché né di paternalistico né di intrusivo in un programma dotato delle seguenti caratteristiche: i) fornisce uno stipendio di base – aumentabile in base a diverse considerazioni, ii) richiede in cambio del lavoro,iii) ha carattere volontario e non condizionato, iv) coinvolge e attiva il terzo settore e la creazione di cooperative e associazioni no-profit – a partire dalla stessa definizione delle attività da svolgere, ev) agisce in maniera anticiclica, mirando a ridursi al momento della ripresa. Per quanto vi siano rilevanti sfide da affrontare a livello di organizzazione di lavori utili e di coerenza con l’obiettivo di rafforzamento del lavoro in termini di diritti, formazione e potere contrattuale, ciò che risulta evidente è semmai la dimensione di inclusione attiva e di incremento delle libertà sostanziali di tutte le persone.
In conclusione, e restando strettamente legati alla dimensione economica, si pone a questo punto il problema relativo al soggetto che oggi dovrebbe finanziare queste proposte in funzione di una politica espansiva, limitando il ricorso a coperture basate sull’aumento delle imposte che ne ridurrebbero l’impatto sulla domanda aggregata. Abbiamo tuttavia ormai visto in questi anni quanto la questione della «mancanza di fondi» sia un ostacolo relativamente facile da superare ogniqualvolta ci si trovi davanti a ciò che si considera un’emergenza (salvataggi bancari e sgravi fiscali per le imprese e sul lavoro) e, ovviamente, è la mancanza di buona e piena occupazione a dover tornare ad essere una vera emergenza nazionale, per la quale il governo può ampiamente decidere di dedicare i suoi fondi ad adeguate politiche di creazione diretta di lavoro, invece che ad altre forme di stimolo economico che sempre di più si dimostrano inefficaci e socialmente controverse.
L’intento del presente volume è pertanto quello di offrire una panoramica ampia e articolata della politica in oggetto, dei suoi diversi elementi chiave e delle sue implicazioni sociali, con la speranza che possa costituire un punto di riferimento per il dibattito italiano sulla materia. A tal fine il Curatore ha raccolto una selezione che, privilegiando l’approccio macroeconomico, affronta tutta una serie di questioni essenziali riguardo alla proposta, dal ruolo della moneta statale e della finanza pubblica alla politica ambientale, dal controllo dell’inflazione al tasso di partecipazione della forza-lavoro, e altro. Nella convinzione che, almeno dal punto di vista di chi scrive, se una battaglia deve essere intrapresa allora sarebbe meglio portarla avanti sulla base del fatto che un lavoro garantito è meglio di un salario garantito!
Questo articolo è stato pubblicato da Sbilanciamoci.info il 17 marzo 2019. Jacopo Foggi è il curatore del volume di “Tornare al lavoro” (Castelvecchi, 2019)

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