Come trasformare l'Europa e costruire la solidarietà fra Stati membri

24 Maggio 2019 /

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di Massimo Amato, Luca Fantacci e Ann Pettifor
Molti a sinistra guardano con scetticismo all’Unione Europea. E a ragione. L’Unione è stata costruita primariamente come un’unione monetaria, il cui unico scopo è stato quello di offrire un porto sicuro al sistema finanziario globalizzato che opera dall’interno dell’Europa, proteggendolo dalle intrusioni degli stati sovrani democratici. Gli architetti del sistema – a partire dal trattato di Maastricht del 1992, fino all’istituzione dell’EMU nel 1999 e all’introduzione della moneta unica nel 2002 – hanno concepito il piano per l’Europa all’interno di think-tank neoliberali, basati perlopiù in centri finanziari come Londra e Lussemburgo. Nelle parole di Otmar Issing, primo capo economista della Banca centrale europea, “molte idee del pensiero di (Friedrich) Hayek … potrebbero aver sottilmente influenzato il corso degli eventi che ha portato all’unione monetaria.” Assieme agli accademici, gli architetti del sistema includevano politici e funzionari di primo piano del Tesoro britannico.
È proprio l’architettura dell’Unione Europea, incorporata nei trattati, che oggi è oggetto di contestazione da parte dei populismi di destra e di sinistra in tutta Europa. E spesso con buoni motivi. Per come è stato costruito, il sistema è antidemocratico e non risponde alle indicazioni provenienti dalla volontà popolare. È un sistema basato sulle teorie e sulle prescrizioni di economisti neoclassici senza contatto con la realtà (ma con forti legami, passati e presenti, con la London School of Economics), la cui propensione all’austerità fiscale permanente, al lavoro precario, ai bassi salari e in ultima istanza, ancorché involontariamente, alla bassa produttività, getta benzina sul fuoco del populismo e del nazionalismo. Come si poteva prevedere, la loro politica economica ha portato in tutta Europa a forti divergenze politiche ed economiche, nonché all’ascesa della politica dell’odio.
Eppure, a dispetto dei suoi stessi architetti, questa architettura anti-popolare è entrata in crisi. Le politiche neoliberali dell’Europa intendevano proteggere il sistema bancario privato dalla regolamentazione democratica; il loro effetto è stato – ironia della sorte – di mettere a repentaglio la solvibilità del sistema bancario europeo. L’Europa delle banche rischia di non salvare nemmeno le banche. L’Italia, che continua a indebolirsi sotto il peso delle politiche deflattive di austerità attuate nell’Eurozona mentre il suo rapporto debito/PIL cresce, costituisce una grave minaccia per le banche francesi, le quali – fra titoli, derivati, crediti e garanzie – sono esposte nei confronti dell’Italia per circa €385 miliardi, mentre le fragili banche tedesche hanno a bilancio €126 miliardi di debito italiano. La natura finanziaria dell’Unione Europea è diventata la maggiore minaccia per la stabilità economica e per la sopravvivenza stessa dell’Unione.
… E l’illusorio beneficio di lasciarla
D’altra parte, lasciare l’UE non produrrebbe benefici uguali e simmetrici ai costi di rimanere.
Certo, la Brexit restituirebbe al Regno Unito autonomia e spazio di manovra fiscale. Tuttavia, il Regno Unito è un paese con un deficit strutturale delle partite correnti. Politiche espansive non farebbero altro che peggiorarlo. E ci sono solo due modi per affrontare un deficit delle partite correnti: o lo si finanzia o lo si riduce.
Continuare a finanziarlo vorrebbe dire consentire piena libertà di movimento ai capitali dopo aver lasciato l’Unione Europea. Questa è la scelta più probabile: è difficile che, dopo l’uscita, Il Regno Unito introduca controlli sui movimenti di capitale. Dopotutto il Regno Unito non ha aspettato l’Unione Europa per liberalizzare i movimenti di capitale. Aveva già iniziato a farlo con l’invenzione del mercato degli Eurodollari nel 1958, quando ancora il Trattato di Roma subordinava i movimenti di capitale alle libertà di movimento per merci, servizi e persone. Il Regno Unito ha costruito buona parte del suo successo economico sulla libera circolazione dei capitali – una scelta che, però, implica inevitabilmente restrizioni alla sua autonomia di politica economica.
Anche dopo l’uscita dall’Unione Europea il Regno Unito rimarrebbe soggetto alla disciplina di mercati finanziari globali invisibili e irresponsabili.
Se, invece, il Regno Unito scegliesse i controlli sui movimenti di capitale, allora non riuscirebbe più a finanziare il suo deficit di partite correnti e sarebbe costretto a ridurlo. Ciò, a sua volta, lo costringerebbe a politiche protezionistiche, simili al neomercantilismo che la Germania ha imposto all’Unione Europea. Inoltre, priverebbe il Regno Unito di uno dei suoi settori più competitivi, portandolo in definitiva a perdere la sua posizione, non solo all’interno dell’UE, ma anche nel novero dei paesi più industrializzati.
Tre buone ragioni per rimanere
Quindi la sinistra britannica dovrebbe sostenere il “Remain” alle prossime elezioni europee? Noi crediamo fermamente di sì. Per tre ragioni, tutte politiche. Dobbiamo far fronte, infatti, a tre gravi minacce, e nessuno può riuscirci come stato indipendente e isolato.
La prima è il collasso ecologico del sistema che rende possibile la vita umana sulla terra. Non solo il cambiamento climatico, ma il collasso dell’intero ecosistema terrestre. Il monito dell’IPCC è chiaro: il pianeta non può sopportare temperature molto più alte di quelle attuali, e abbiamo all’incirca dieci anni di tempo per trasformare il nostro sistema energetico e ristabilire la biodiversità. Non possiamo affrontare questa grave minaccia per il futuro nostro, e dei nostri figli e nipoti, arroccandoci in una fortezza inglese, o anche di una fortezza europea. Il cambiamento climatico non si ferma alle scogliere di Dover. Richiede cooperazione e coordinamento internazionale, e la costruzione di alleanze, specialmente tra vicini. Sono proprio queste alleanze che potrebbero cambiare la direzione e la scala delle politiche fiscali, sia a livello nazionale sia a livello europeo.
La seconda minaccia è ancora più grave e imminente: l’ascesa del fascismo e dell’autoritarismo in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Europa. Nemmeno questa è una minaccia a cui si può far fronte da soli – come abbiamo scoperto negli anni trenta. Facebook, Youtube e internet forniscono piattaforme globali ai razzisti e ai fascisti. Una crisi senza fine, con il suo carico di povertà e disoccupazione crescenti, fornisce loro gli “argomenti”. Per combattere e sconfiggere questa minaccia alla sicurezza britannica abbiamo bisogno di alleati politici, specialmente di coloro che consideriamo vicini di casa. E mentre l’autoritarismo e il populismo si nutrono del disagio sociale ed economico creato dalle politiche deflattive dell’UE, questa alleanza antiautoritaria deve spingere con decisione verso l’adozione di politiche economiche espansive comuni.
La terza minaccia è una spirale globale di debito e deflazione – dopo un periodo post crisi di rapida accumulazione di debito. La grande crisi finanziaria è lontana dall’essere finita o risolta. Economisti e autorità sono stati persuasi da Wall Street e dalla City di Londra a continuare a predicare e praticare una regolamentazione leggera. Ben poco è stato fatto per rendere il sistema finanziario globale più robusto e democratico. Infatti la crisi “si è dimostrata un’occasione per consolidare l’ordine economico esistente”, come ha sostenuto il professor Joseph Vogl della università Humboldt di Berlino. Il sistema rimane al sicuro, al riparo dai regolamenti di qualunque stato democratico, tanto in Europa quanto nel resto del mondo. Ma l’ordine economico esistente è tutt’altro che stabile. Un’altra crisi finanziaria globale è inevitabile; è solo una questione di tempo. I segnali già preoccupano i banchieri centrali e i policy maker. E in questo caso l’arsenale di politica monetaria non sarà più efficace, né in un Regno Unito isolato, né in un’Unione Europea non riformata.
Quindi è imperativo, per ragioni ecologiche, economiche e di sicurezza nazionale, che il partito internazionalista laburista inglese e i suoi sostenitori formino alleanze con socialisti e socialdemocratici europei, animati da simili intenzioni, per affrontare assieme con spirito cooperativo queste gravi minacce.
I problemi nel rimanere
Tuttavia, i vantaggi connessi al “remain” non permettono affatto di liquidare i problemi dell’UE.
L’Europa è stata resa politicamente ed economicamente instabile, prima dagli enormi squilibri tra paesi, poi dal modo in cui quegli stessi squilibri sono stati riassorbiti attraverso politiche deflattive. Tanto gli squilibri quanto il modo in cui sono stati combattuti sono alla radice delle divergenze politiche e dell’ascesa del populismo. Gli squilibri gettano benzina sul fuoco del nazionalismo nei paesi in surplus del Nord Europa; le contromisure deflattive alimentano reazioni populiste nei paesi del Sud.
Inoltre, nel trasferire gli squilibri dall’interno all’esterno, seguendo politiche neo-mercantilistiche alla tedesca, l’Eurozona è diventata il maggiore blocco in surplus sulla scena mondiale, aumentando la sua dipendenza dai mercati esteri, mentre il mercato interno continua a restringersi sempre di più, in parte a causa delle politiche di austerity.
La maggior parte della responsabilità ricade sulla Germania – con il suo enorme surplus commerciale, la sua testarda determinazione a non alzare i salari e a non stimolare la domanda interna, la sua riluttanza a cooperare con i partner per una reflazione dei mercati e delle economie europee. Non c’è da stupirsi sei gli europei – e i britannici – sono arrabbiati.
Ma si tratta di un problema strutturale. Ha a che vedere con il modo in cui l’UE è stata costruita più che con il comportamento di singoli paesi membri. L’UE è stata costruita sui due pilastri della moneta unica e dell’integrazione finanziaria. Ciò ha posto le fondamenta del progetto europeo su una base non solida, ma liquida, costituita dai flussi finanziari internazionali, confidando che questi ultimi avrebbero rafforzato l’edificio. Di fatto, la UE ha subappaltato l’attuazione delle sue regole ai movimenti internazionali di capitali, ai quali si è di fatto così attribuita la capacità di disciplinare gli stati membri. Ma proprio questa è la causa dell’attuale instabilità europea: è stata proprio la libertà di movimento di capitali a permettere la crescita degli squilibri per poi rifiutarsi di rifinanziarli.
L’architettura dell’Unione europea sta mettendo a rischio il progetto di riunificazione europea nato nel dopoguerra – un progetto il cui ambizioso obiettivo era il mantenimento della pace nel nostro continente. In Europa c’è ancora una fortissima domanda di pace, di unità, di collaborazione e cooperazione internazionale. Ma, a fronte delle divergenze politiche ed economiche, nonché dell’ascesa di partiti autoritari di estrema destra, come possiamo ottenere pace e stabilità?
Un’Europa diversa
Noi sappiamo che questi squilibri possono essere risolti in modo molto diverso. Lo sappiamo perché l’Europa lo ha già fatto in passato, quando fu istituita l’Unione europea dei pagamenti tra il 1950 e il 1958.
L’UEP consentiva a ciascun paese membro di finanziare i propri disavanzi delle partite correnti senza fare affidamento ai capricci del capitale liquido fornito dai mercati finanziari internazionali, ma attraverso una “camera di compensazione”. Il saldo della bilancia commerciale di ciascun paese era registrato come posizione netta nei confronti della camera di compensazione stessa, e quindi come posizione multilaterale rispetto a tutti gli altri paesi.
Venne fissata una quota per ciascun paese corrispondente al 15% del suo commercio con gli altri paesi dell’Unione. I saldi a credito e a debito non potevano superare le rispettive quote. Il sistema pertanto poneva un limite all’accumulo di deficit e forniva ai debitori un incentivo a convergere verso l’equilibrio con i loro partner commerciali. Ma la UEP esercitava anche forti pressioni sui paesi in surplus che, come la Germania e l’Olanda di oggi, non facessero abbastanza per aumentare le importazioni e ridurre le esportazioni.
Il risultato fu una straordinaria espansione della produzione orientata all’esportazione, in particolare in Germania e in Italia, e la liberalizzazione degli scambi non solo all’interno dell’UE, ma anche con gli Stati Uniti e con il resto del mondo. Tuttavia, ciò che è davvero straordinario è che tale espansione del commercio si accompagnò all’aumento dell’occupazione e al benessere in ogni paese membro: la UEP faceva parte di un quadro istituzionale che consentiva di conciliare l’autonomia nel perseguire la piena occupazione e la prosperità dell’economia interna con l’apertura al commercio estero.
È fattibile?
Sì. E senza cambiare i trattati. Meglio: applicando in maniera ancora più fedele le regole esistenti e reinterpretando, nello spirito originario dell’Unione, le infrastrutture monetarie esistenti. Nell’Eurozona esiste già una stanza di compensazione con lo scopo preciso di ottimizzare la gestione dei pagamenti: TARGET 2 è il sistema utilizzato per regolare i pagamenti transfrontalieri.
All’interno di questo sistema la Germania, insieme ad altri paesi in surplus come i Paesi Bassi, ha accumulato crediti cospicui e ha il più alto saldo positivo. Specularmente, il Portogallo, la Spagna, la Grecia, l’Irlanda e l’Italia hanno accumulato ingenti debiti, e pertanto presentano saldi negativi. Tali saldi riflettono gli squilibri cumulativi della bilancia dei pagamenti tra l’Europa settentrionale e meridionale, precedentemente finanziati dai flussi di capitali dal centro verso la periferia, che si sono invertiti sulla scia della crisi finanziaria globale.
Questo espediente contabile ha svolto un ruolo cruciale nel salvataggio del sistema della moneta unica: pur non evitando il verificarsi di ampi spread, legati alle aspettative del mercato sulla solvibilità dei paesi in deficit, l’accumulo di saldi positivi e negativi all’interno di TARGET2 ha impedito che le turbolenze finanziarie derivanti dall’inversione improvvisa dei movimenti di capitali, a seguito della crisi dei debiti sovrani, di si trasformassero in una crisi valutaria.
Ecco allora la nostra proposta: aprire una sezione di T2 – chiamata T2trade – espressamente progettata per costituire, come la UEP, una fonte di finanziamento per squilibri temporanei delle partite correnti, senza dover fare affidamento su movimenti di capitali a breve termine.
Affinché T2trade funzioni come la UEP, dovrebbero essere adottate quattro misure.

  • 1. Il credito fornito da T2Trade dovrebbe essere limitato esclusivamente a transazioni commerciali tra paesi europei e al turismo. L’idea di limitare alcune linee di finanziamento della BCE a specifici tipi di transazioni economiche non è nuova. È stata introdotta con il TLTRO.
  • 2. Dovrebbe esserci un limite, all’interno di T2trade, alla possibilità di accumulare saldi positivi o negativi, commisurato al volume di commercio estero di ciascun paese. Questo principio è perfettamente in linea con le norme europee, in particolare nell’ambito della procedura per gli squilibri macroeconomici.
  • 3. Gli squilibri potrebbero essere soggetti a oneri simmetrici. L’opzione potrebbe, e crediamo che dovrebbe, assumere la forma di una proposta politica che obblighi tutti i paesi ad assumersi le proprie responsabilità nel risolvere gli squilibri nella misura in cui hanno goduto di vantaggi nell’accumularli. Servirebbe a ricordare ai paesi creditori che anche loro hanno tratto vantaggio dalla moneta unica, grazie alla possibilità di esportare verso i paesi dell’Europa meridionale a un tasso di cambio reale competitivo. E servirebbe a coinvolgere questi paesi nel processo di aggiustamento senza dover ricorrere al loro “buon cuore”. Inoltre, sarebbe coerente con quanto annunciato dalla BCE nell’estate 2014 quando, introducendo tassi di interesse negativi sui depositi, ha dichiarato che quest’ultimo dovrebbe applicarsi anche ai saldi T2.
  • 4. Dovrebbe esserci la possibilità di adeguare i tassi di cambio reali, se non nominali, qualora gli squilibri si dimostrino persistenti.

Conclusione
Anche se si può discutere delle misure che dovrebbero essere adottate per far funzionare una nuova Unione europea dei pagamenti, dobbiamo insistere sul principio politico ed economico: solidarietà tra i paesi dell’Europa settentrionale e meridionale e solidarietà tra paesi debitori e creditori, al fine di restituire uno scopo comune al progetto europeo. Solidarietà non in senso morale, ma nel senso economico di una responsabilità condivisa per la stabilità e la distribuzione simmetrica dell’onere di riassorbimento degli squilibri.
Se vogliamo ripristinare la stabilità in Europa, se vogliamo sconfiggere le ambizioni autoritarie di forze politiche estremiste, è essenziale ristabilire l’autonomia politica dei governi democraticamente eletti, restringendo la mobilità dei capitali. Le forze economiche non possono essere distaccate dalle istituzioni politiche e democratiche con cui sono intrecciate. Il tentativo di farlo è distopico e ha innescato i contromovimenti polanyiani che stanno guidando i popoli dei paesi europei a cercare protezione dal comportamento predatorio dei mercati autoregolati. E a cercarla in una direzione politicamente ed economicamente pericolosa.
Infatti, se i flussi di capitali non saranno subordinati agli interessi democratici (e la nostra proposta di riforma renderebbe i movimenti di capitale non illegali, ma inutili), allora tale “protezione” sarà sicuramente offerta da leader di destra forti e potenzialmente autoritari – i quali probabilmente smantelleranno presto gli straordinari progressi compiuti in tutta Europa dalla seconda guerra mondiale a oggi.
La posta in gioco è alta. E abbiamo pochissimo tempo.
Questo articolo è stato pubblicato da Micromega Online il 20 maggio 2019. Il testo è la traduzione italiana di un intervento pubblicato su OpenDemocracy

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