di Stefano Vaccara e Giulia Pozzi
La Columbia University di New York, si sa, vanta una illustre tradizione di politologia e studio della democrazia, che non ha mai disdegnato di analizzare, da oltreoceano, le vicende che caratterizzano la nostra bella Italia. Per anni, in proposito interveniva l’indimenticato professore Giovanni Sartori, autore di pamphlet che scuotevano il dibattito pubblico del nostro Paese. Nadia Urbinati, accademica, politologa che interviene spesso nei giornali italiani, naturalizzata statunitense, nonché professoressa di scienze politiche sempre alla Columbia, più di recente ha contribuito con due, importanti libri che sviscerano lo stato attuale della democrazia, in Europa e nel mondo: Utopia Europa, edito da Castelvecchi, e Me the People. How Populism Transforms Democracy, per la Harvard University Press. L’abbiamo incontrata nel suo ufficio nella prestigiosa università newyorkese, per testare il termometro politico sulla salute della nostra democrazia e sulla sfida posta dal populismo a pochi giorni dalle elezioni europee e a circa un anno e mezzo dalle attesissime presidenziali americane.
Due libri, ci ha spiegato la professoressa, tutt’altro che pessimisti. Il primo, ha sottolineato, è una “ricognizione” per capire da dove viene l’Europa in cui noi viviamo, un’Europa che si è costituita su trattati e promesse, non sempre mantenute. Soprattutto, afferma, “è un libro che finisce con 10 proposte per ancorarci all’Europa, solidarietà, lavoro e così via. È un manifesto per l’azione politica”. Il secondo, “vuole essere un’analisi spassionata di che cosa sia il populismo”. E proprio sul populismo la professoressa Urbinati ci rassicura: “Il populismo è figlio delle democrazie. Questo lo distingue dal fascismo, che ne è deragliamento. Certo, anche il fascismo è nato come populismo, ma non ha avuto il coraggio di accettare il rischio delle elezioni libere. Il populismo accetta il rischio, e lo fa a tal punto da usare le elezioni anche molto spesso come plebiscito, per esaltare il leader e la maggioranza”. L’esperta, insomma, rifiuta il parallelismo tra il vecchio fascismo e i nuovi populismi, che pure, riconosce, costituiscono delle sfide per la democrazia. “I leader populisti sono convinti – come disse Trump nel suo discorso inaugurale – che ‘finalmente il popolo è arrivato qua’, come se prima, con altre maggioranze, non fosse vero. Ciò significa che il populismo usa la sua maggioranza come l’unica, legittima, e ritiene che le altre fossero manovrate dai partiti, dalle élite, dalle minoranze. Come se ci fosse una sola maggioranza legittima che la democrazia rivela e non crea. Invece, la democrazia significa creare le maggioranze con le elezioni”.
Per la professoressa, “il populismo rivela delle carenze e dei problemi, ma non li risolve”. A suo avviso, la chiave per comprenderlo passa per il declino di legittimità dei partiti politici. “Dopo la Seconda Guerra Mondiale, le democrazie sono rinate, e questo vale anche per gli Stati Uniti, che con il New Deal avevano avuto un forte presidenzialismo. Hanno promesso di coinvolgere i cittadini e limitare il potere dei leader”. Il partito ha proprio questa doppia funzione: “può essere visto dal popolo come oligarchia, ma è anche strumento di molti per contenere il potere dei pochi. I partiti hanno convogliato la legittimità dal basso, e hanno avuto un ruolo nell’educare i cittadini a non pensare solo ai propri interessi”. Oggi, al contrario, essi si sono ridotti a “macchine per l’elezione di alcuni rappresentati e per il mantenimento del potere”. Siamo giunti, insomma, all’epoca della “partitocrazia”, e il populismo “contesta quell’establishment, e lo oppone a un movimento anti-partitico che unisce tutto il popolo”. In questo, la similitudine con i regimi è innegabile: eppure, il populismo resta “all’interno del sistema”.
Secondo Nadia Urbinati, per descrivere il populismo si può usare l’analogia del parassita: perché esso ha bisogno del nemico che attacca, della perenne tensione nemici-amici con l’opposizione. “Vedo una trasformazione interna delle democrazie elettorali e delle democrazie rappresentative. Se pensiamo a una democrazia come un elastico, questa è una forma estrema, oltre la quale potrebbe spezzarsi”.
Che dire, dunque, della preoccupazione espressa da Nancy Pelosi, speaker della Camera, su Donald Trump, e cioè della possibilità che il Presidente, se perdesse di poco le elezioni, rifiuti il risultato? Secondo Urbinati, tale timore “può avere senso”, perché “di fronte al populismo ci sono sempre due alternative: la tirannia o la democrazia. Ed è rischiosissimo proprio per questa ragione”. “Abbiamo visto casi, come l’America Latina, dove il populismo è diventato regime dopo la Seconda Guerra Mondiale, un fascismo con le elezioni, ma dovunque abbia messo radici e dovunque abbia governato, il problema non è stato durante il governo, ma alla sua successione: vediamo il Venezuela”.
Urbinati non crede che si possa parlare di “cicli vitali” per le democrazie. Ritiene, piuttosto, che esse non siano statiche, perché quando la contestazione maggioranza-opposizione fuoriesce dai partiti, “si arriva a una disintermediazione della politica. Oggi il problema è proprio questo, la debolezza dei partiti politici, che diventando parassiti dello Stato”. “Finora, nel governo rappresentativo ci sono stati cicli: nell’Ottocento era un notabilato, con gli eletti che facevano parte della crème della società. Quando l’apertura è iniziata, c’è stato il problema del fascismo. Oggi l’apertura è massima, ma questo non si traduce in politiche che sono nell’interesse di tutta la popolazione: anzi, sono sempre selettive, sono politiche che lasciano “gli altri” fuori da ogni relazione organizzativa. Pensiamo ai gilet gialli, alle tante forme di indignados”.
In questo quadro, il web presenta nuove sfide e nuove opportunità. “Podemos nasce come partito solo digitale e oggi sente che deve essere qualcosa di più. Il digitale da solo non basta”. Internet ha contribuito a demolire i vecchi partiti, “ma potrebbe essere anche lo strumento per far venire fuori nuove connessioni. Siamo nella fase in cui il vecchio è eroso e si aspetta che venga fuori altro”.
Secondo la politologa, tuttavia, il timore di vivere un déja vù rispetto ai momenti più cupi della nostra storia è pressoché infondato. “Abbiamo internet, abbiamo una democrazia solida che ha 70 anni di regole. Il fascismo non torna, sarebbe assurdo, ma c’è una trasformazione delle democrazie rappresentative perché la rappresentanza non è più gestita dai partiti, ma direttamente dai leader”. Sono anni che in Italia assistiamo a questo fenomeno: a partire da Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, fino ad arrivare a Matteo Salvini. “Le considero forme cesaristiche”, spiega, ma i sistemi costituzionali di oggi “sono strutture sufficientemente capaci di contenere il potere dei leader”. Gli Stati Uniti, per Urbinati, sono in questo avvantaggiati rispetto all’Europa. “L’America ha una Costituzione fortissima”. E neppure il fatto che nella Corte Suprema Trump metta i suoi uomini potrebbe indebolirla. “Nel momento in cui si calano in quel ruolo, sviluppano un senso di identificazione con la Costituzione che devono difendere”. In Europa, invece, “i sistemi parlamentari sono più deboli”, anche perché “abbiamo un sistema burocratico infiltrato dai partiti, ben più degli Stati Uniti”.
Che cosa dobbiamo aspettarci da queste elezioni europee, dunque? Secondo la professoressa Urbinati, la Brexit è stata “un elemento dirompente, perché ha messo in condizione gli antieuropeisti di capire che non era conveniente uscire dall’UE”. Gli stessi progetti di chiusura delle frontiere dei “populisti xenofobi, come Salvini, Orban, Swartz, Le Pen”, hanno bisogno di essere lautamente finanziati: senza un’Europa sarebbero irrealizzabili. I populisti, in particolare, “hanno bisogno di una cosa che in Europa non c’è, e che i socialdemocratici che hanno governato finora non hanno fatto, e cioè un budget europeo”. Il fatto che i popolari abbiano rifiutato l’alleanza con i populisti “ci aiuta, vuol dire che si tengono liberi dalla destra”, osserva. Una cosa certa è che “i populisti prenderanno molti voti, soprattutto da Italia, Inghilterra e Francia”: da vedere come si comporterà, di fronte a questa ondata, il Partito popolare. Ad ogni modo, Urbinati è convinta che “l’Europa – che questo sia da ammonimento per coloro che si ritengono europeisti – non può più permettersi di restare come è”. L’Europa dei trattati, nata con Paesi simili e di interessi complementari, osserva, oggi si fonda su basi diverse: quella complementarietà, cioè, non c’è più. “L’Italia non è più quella di allora, è più povera perché non riesce a sfornare lavoro e fatica a mandare i suoi in Germania perché si trova a competere con i nuovi immigrati. E i Paesi si sono profondamente disequilibri nel corso della crisi”. Neppure la regolamentazione che sorregge l’Europa è più sufficiente: “occorre che una autorità politica possa prendere decisioni, innanzitutto sulla solidarietà continentale e su questioni che non possono essere risolte a livello di Stati, come il problema del lavoro e della disoccupazione”. Altra questione da affrontare, “l’austerity, tedesca, che sta strangolando Paesi che con il debito potrebbero cominciare a far partire l’economia”.
Un'”utopia”, quella dell’Europa politica, che avrebbe bisogno di partiti transnazionali, di un budget europeo, di un sistema di cittadinanza europea di sostegno, che difenda la pubblica sanità che si sta erodendo, il tema scolastico e della ricerca. Per Urbinati, che si rifà al principio del “no taxation without representation”, “se l’Europa avesse una forma anche minima ma diretta di tassazione, avremmo, come cittadini europei, più voce. Come cittadini europei, non ragioneremmo più sull’Europa dal punto di vista dei nostri stati”.
C’è un’altra ragione, secondo la professoressa, per difendere l’Europa: “ci sono troppi poteri e troppi Stati che non la vogliono. L’Europa ha dei nemici fortissimi, in Trump, in Putin e nei loro amici interni. Se uno ha un progetto democratico, oggi, non può che essere europeo, perché i “nemici” sono quelli. Fa tanto comodo che l’Europa non ci sia più a questi sciacalli”. Inoltre, viviamo in un mondo in cui uno Stato medio-grande, da solo, “non ha possibilità né dal punto di vista economico-finanziario, né dal punto di vista politico. Quella dell’Europa è un’utopia necessaria. È nel nostro interesse essere utopistici”.
Alle radici del tempo che viviamo oggi, la crisi, profondissima, della sinistra. Che, se in America pare risorgere dalle proprie ceneri, anche grazie a una struttura di partito che è in grado di accogliere volti e istanze esterni (vedi Bernie Sanders), in Europa sembra ormai difficilmente reversibile. La sinistra europea, spiega Urbinati, un tempo rappresentava il “popolo dei bisogni”, la grande moltitudine dei lavoratori, che inquadrava all’interno di istituzioni. Con la sua crisi, l’organizzazione è diventata dis-organizzazione. “Invece di avere lavoro sindacalizzato, ha accettato l’idea di avere lavoro precario. Questo ha reso la sinistra non più organizzata e organizzante, ma fatta di una middle class benestante che ha drammaticamente perso il contatto con il “suo” popolo. Tutto ciò fa pensare che, alle europee, quello della sinistra sarà un ennesimo disastro. “È probabile che il Pd migliori, ma non ha un argomento. Dopo le elezioni, si tratterà di vedere che cosa farà”. Eppure, per la professoressa il Pd “è un partito compromesso, con un passato che non piace a nessuno, che prende tutti dentro, da Calenda fino a Bersani”. Oggi, “è un partito di notabili, che unisce tutti. Anche chi ha votato Cinque Stelle, e viene da una tradizione più di sinistra, non si sente di votare il Pd: preferisce non andare a votare”.
E il Movimento Cinque Stelle? Per Urbinati, più che di “populismo”, bisognerebbe parlare di “gentismo”. “Di Maio non è un leader carismatico, ma è capace di imporre la propria volontà. Il vero populismo in Italia è rappresentato dal partito di Salvini, in questo momento”. C’è da aver paura, dunque? No: “le democrazie sono elastiche. Certo, c’è da sperare che non si rompano. Ma io sono fiduciosa”.
Questo articolo è stato pubblicato dal sito La voce di New York il 14 maggio 2019