di Chiara Saraceno
Rallegriamoci per quel milione di persone che, secondo i dati provvisori di Eurostat, nel 2018 è uscito dalla “grave deprivazione materiale”, cioè dalla impossibilità di far fronte a quattro o più tipi di spesa su un elenco di dieci: il pagamento del mutuo, dell’affitto o delle bollette, il riscaldamento per l’abitazione, le spese impreviste, la possibilità di mangiare proteine con regolarità, una settimana di vacanza, la lavatrice, la televisione, la gestione di una automobile, il telefono. Ma ne rimangono 5.035.000, pari all’8,4% della popolazione, che invece continuano a trovarsi in quella situazione. È una cifra molto vicina, anche se i due gruppi non si sovrappongono totalmente, a quella stimata nel 2017 dall’Istat per le persone in povertà assoluta, una misura di disagio materiale più precisa di quella Eurostat. L’incidenza dell’8,4%, inoltre, è più che doppia di quella della Germania (3,4%) e quasi doppia di quelle, pur in aumento, di Francia e Gran Bretagna, rispettivamente al 4,7% e 4,6%. È anche più alta di quella spagnola, che nel 2017 era al 5,1%. Soprattutto, la diminuzione non ha riguardato i più piccoli e le loro famiglie.
Tra i minori di sei anni la deprivazione materiale grave è passata dall’8,5% all’8,8%. Esistono ormai intere biblioteche sui rischi per la salute, lo sviluppo cognitivo, una buona crescita complessiva, che derivano dallo sperimentare condizioni di deprivazione grave nei primi anni di vita. Eppure, la povertà e deprivazione grave minorile non riesce ad entrare nell’agenda politica, a diventarne una delle priorità. Si parla dei bambini solo quando ci si lamenta di quelli che non nascono a causa della bassa fecondità. Ma poco ci si interessa delle condizioni di forte disagio e precarietà in cui si trova a crescere una parte, intollerabilmente alta, di quelli che ci sono. Persino nella più ampia operazione di redistribuzione a favore di chi si trova in povertà mai fatta in Italia, il reddito di cittadinanza, i bambini e in generale i minori (e le loro famiglie) sono fortemente svantaggiati.
Per tenere fermo il feticcio dei 780 euro massimi per una persona sola senza sforare il budget, è stata inventata una scala di equivalenza che non solo sopravvaluta di molto le economie di scala all’aumentare del numero dei componenti della famiglia, ma accentua questa sopravvalutazione quando sono presenti minori, attribuendo loro un coefficiente più basso. Il risultato è che vengono privilegiate le famiglie piccole e composte da soli adulti, rispetto alle famiglie più ampie e con figli minori, dove pure è maggiormente concentrata la povertà. Sospetto che tra queste ci siano molte di quelle che hanno scoperto di ricevere come reddito di cittadinanza una cifra molto più bassa di quanto non si attendessero. Il “tesoretto” di cui si parla, ovvero la minor spesa per l’erogazione del Reddito di cittadinanza rispetto al previsto, è in parte il frutto di un trattamento di svantaggio nei confronti delle famiglie con figli minori.
Prima che si parta con l’assalto alla diligenza per stornare questo “avanzo” su altre iniziative, sarebbe opportuno rivedere in modo più equo e meno sfavorevole ai bambini e ragazzi quella scala di equivalenza, oltre a pensare a misure di “inclusione sociale” loro dedicate: sostegno alle capacità genitoriali, facilitazione della frequenza ai servizi per la prima infanzia, al tempo pieno scolastico, alle attività extracurriculari che aiutano a crescere.
Questo articolo è stato pubblicato da Repubblica il 5 maggio 2019