Emilia Romagna: le "Vie" dei festival sono infinite

14 Marzo 2019 /

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di Silvia Napoli
Si è chiuso quasi con metaforici fuochi d’artificio questa edizione del prestigioso e glorioso festival teatrale targato ERT, le Vie, quest’anno espresso in almeno sei sedi regionali differenti ad alta concentrazione di partecipazione ed entusiasmo. Un festival scommessa, perché ha incorporato in sé i corpi altri, le parole altre di Home, Atlas of transisions, grande festa mobile, meticcia, interattiva e partecipata, acquartierata al Damslab, spazio universitario declinato concretamente, visibilmente come esperimento a tutto campo. Messa alla prova del dialogo possibile tra generazioni e genealogie differenti, curiose di conoscersi e fare scambio.
Chi scrive confessa di aver creduto difficile ottenere coerenza di disegno e di impatto tra due situazioni entrambe molto ricche e caratterizzate, probabilmente impossibili da seguirsi per intero in ogni appuntamento, in ogni dettaglio, a meno di non avere un avatar personale in dotazione. E invece. Talvolta succede di avere la sensazione che possano effettivamente esistere giorni pieni di doni, di sorprese, di conferme e di scoperte come questi.
Giorni che si intrecciano con il fuori, il là fuori, che si può affrontare a viso aperto anche da dentro un teatro, una sede di studio, una piazza delle Arti, senza tema di fare i radical chic. Perché è il fuori che si affaccia dentro, che preme, invade e scrive la biografia di una parte giovane e vitale della città, tutt’altro che degradata ed autoreferenziale. Solo, semplicemente spesso inascoltata o fraintesa.

Una grande lezione di stile nella civiltà e nella umanità delle relazioni ci viene da questo Festival doppio segno e doppio sogno, in cui Ert fa da capofila ad una cordata di enti e istituzioni pubbliche e private, anche diverse per ambito e missione, che unitamente, possono fare una grande e positiva differenza nell’accogliere le sfide.
Frutta l’impostazione collaborativa e sinergica del lavoro attento e caratterizzato da un grande understanding di Claudio Longhi, direttore di ERT a metà mandato e lo stupefacente lavoro di squadre a trazione femminile a tutti i livelli della catena di comando che curano contenuti, presentazioni, comunicazione, promozione, benessere degli ospiti, del pubblico, degli addetti ai lavori con solerzia, competenza, profondità di sguardo, senso dell’organizzazione e non chalance. Un po’ come quando di un virtuoso si dice che inglobi tutta la perizia tecnica per poi dimenticarsene e lasciare cosi libero anche chi guarda e ascolta di trovare il suo posto dentro quella cosa là. Che diventa arte e in questo caso è arte del ricevere e tener aperti tutti i canali di percezione.
Il festival è agli sgoccioli, ma non dei debutti, delle prime, delle emozioni e se una vita non basta, come diceva il compianto Ruiz, qui se ne forgiano mille altre plausibili e condivisibili.
Alla rinfusa, a questo proposito citerò lo straordinario spettacolo di apertura in Arena del regista ungherese Mundruczo, significativamente titolato Imitation of life e che vede protagoniste due figure femminili speculari, lo stigma etnico e di genere e una home, appunto, che letteralmente davanti ai nostri occhi, diventa capovolgendosi e smottando, il suo esatto contrario:non è cosi anche la realtà dell’emarginazione e della ingiustizia sociale, una sorta di scatola dei valori capovolta? Il link gettato al festival fratello è subito agito nei suoi piu tragici risvolti eppure senza disperazione, cosi come del resto succede nella grande prima italiana allo Storchi di Modena, per il regista franco uruguaiano Sergio Blanco e il suo Bramido de Dusseldorf, che accoglie il pubblico come un party, ricambiato da una straordinaria e calorosa empatia.
Empatia che non viene meno quando il registro cambia e ci addentriamo in quella selva oscura della nostra vita, in cui la morte dei genitori, il padre dell’alter ego del regista stesso, ci pone di fronte al limite mortale e pressante diventa l’interrogativo sul senso e la funzione dei vincoli morali. Tutto dunque diventa irrealmente vero:lo sterminio nazista come una tardiva punitiva circoncisione, fantasticando contemporaneamente di uomini in erezione e stipulando contratti pornografici asettici come terapie ospedaliere intensive. Non per caso dottoressa angelodella morte, faccendiera dell’industria sexy, suadente intrattenitrice e infine madre-cattiva coscienza del giovane suicida, forse ispiratosi alle opere del protagonista, forse no, sono figure coincidenti nella straordinaria presenza scenica di Soledad Frugone.
Il contesto è apparentemente assurdo come un sogno ed esattamente come questo, ammicca allo spettatore di continuo fino all’ovazione finale e liberatoria. Una sorta di catarsi-dance che tutto travolge e tiene. Ma non si possono non citare anche le cose apparentemente meno di spicco e appeal critico, quali la straordinaria performance pomeridiana al Dadà di Castelfranco d el contemporaneamente marionettista e burattinaio cinese Yeung Fai, sopravvissuto alle traversie e agli stenti della Rivoluzione culturale, che ci porta con pochi spartani, poveri oggetti di scena, in un mondo prezioso e desueto, simile ad una miniatura e ad un distillato in purezza di stilemi senza tempo. Non si possono non registrare le molteplici belle prove italiane, la completezza ineluttabile del vivere ed esistere del mondo vegetale che fa da controcanto alla nostra stanca umanità nel programmatico Joie de vivre di Simona Bertozzi, per esempio, ma anche il pluripremiato spettacolo di Albe, Fedeli,d’amore o la novità di Marco d’Agostini.
Su Kepler e il loro attesissimo Perdere le cose, mi riservo di scrivere a parte, mentre di assoluto spicco sono stati i lavori presentati al Mast di via Speranza. Una travolgente presenza nera quella della poliedrica cantattivista, eppoi è persino riduttivo definirla cosi, Amyra Leon da Brooklyn passando per londra, che ha incantato giovedi sera gli spettatori con una maestria vocale straordinaria ma anche con una innocenza e una felicità di esserci commoventi, ribaditi poi iersera nella sua variopinta partecipazione alla festa dell’8 marzo multietnica ai laboratori Dams, festa che ha felicemente unito tutti i puntini e messo tutte le tessere del discorso a posto, in maniera plastica direi tra arte, intrattenimento, partecipazione, festival, vita, politica,come forse non si vede tanto spesso e tangibilmente fare.
Una bella dimostrazione pratica contro haters e leoni da tastiera, mentre ancora si aveva nel cuore il vibrante assaggio di quella che sarà una delle nuove produzioni ERT, quel Wasted, sprecati, dalla poetessa e rapper britannica Kate Tempest, che è già un piccolo gioiello di culto e sembra essere lo specchio crudo eppure gentile di una generazione aggrappata a poche certezze. Forse un polifonico terzetto, un po’ jules e Jim, filmato come una sbiadita esibizione rock e cementato da un’amorevole amicizia, può fungere da salvacondotto oltre le secche dell’inutilità sociale e dello stigma di classe, in questo caso. Piacerebbe capire meglio come una disastrata società britannica scossa da un lunghissimo interminabile post colonialismo riesca comunque a leggersi dentro nei meccanismi appunto di gerarchia e separatezza tra i ceti e gruppi sociali con una lucidità che mediamente difetta abbastanza alla cultura italiana.
Ci sarà modo di tornare su tutti questi discorsi, perché il bello di queste programmazioni di ERT, di Arena e di tutti gli spazi teatrali e non che si sono messi in gioco insieme è che non finisce certo qui e i laboratori rigorosamente gratuiti, le lezioni seguitissime e polleggiate, per dirla in gergo giovanile, a cura delle comunità straniere, gli incontri con gli artisti, la contaminazione di generi e corpi hanno seminato proposizioni che continueranno, a partire dalla chiusura più logica domenica sera con Cantieri meticci e gli attesi risultati del referendum sui confini, che ha i suoi seggi di riferimento in diverse postazioni cittadine.Confini immaginati, confini realizzati, ma anche confini oltrepassabili e forse realmente anacronistici, a partire da certe correnti di pensiero economico.
Il festival purtroppo ha un termine, ma il mio consiglio è di rimanere concentrati sull’ultimo lavoro di Marta Cuscuna, giovane craetrice di macchinerie teatrali contro lo stereotipo e il luogo comune. Perciò, come sempre, stay tuned.

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