La Francia delle fratture

7 Marzo 2019 /

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di Bruno Giorgini
A Parigi e nel resto di Francia, da Strasburgo a Marsiglia da Bordeaux a Toulouse, e lungo le strade coi blocchi, il movimento dei Gilet Jaunes (GJ) scende in piazza per il sedicesimo sabato consecutivo. Nessuno all’inizio c’avrebbe creduto, e invece decine di migliaia di persone si mobilitano da tre mesi, in modo militante occupando strade e piazze, spesso scontrandosi con la polizia. Nella capitale si muovono due cortei, stavolta inquadrati dalla polizia e con in nuce un servizio d’ordine dei manifestanti, fatto del tutto inedito.
Sugli Champs, dove c’è l’Eliseo e gli altri palazzi del potere, il dispositivo di sicurezza è molto fitto. D’altra parte Macron si era premurato di dire e ribadire in più occasioni che chi partecipa a una manifestazione dove possono avvenire violenze, nel caso in cui accadano, ebbene egli se ne rende complice per il solo fatto di stare lì. Dichiarazione che, se presa alla lettera, viola qualunque criterio proprio allo stato di diritto e democratico.
Ma a forte impatto politico. Comunque sia, le manifestazioni parigine a colpo d’occhio segnano la fine, almeno per oggi, della fase anarco insurrezionale del movimento, non discostandosi per nulla dai normali cortei sindacali col proprio servizio d’ordine che concerta passo a passo il percorso con le forze di polizia. Nonostante qualche singolo e piccolo gruppo scalpiti, per esempio lungo gli Champs quando si è cominciato a urlare “Non siamo delle pecore” quando la polizia si faceva asfissiante pretendendo di dettare addirittura l’andatura. Così qualcuno ha scantonato nelle vie laterali, seguito da vicino dai guardiani in armi, alcuni dei quali sbuffavano perché portano addosso una sorta di armatura che pesa venti chili, e gli indisciplinati manifestanti correvano: “Lo fanno apposta per farci affaticare” e si capisce che usare il manganello non gli dispiacerebbe troppo. Però bonariamente.

Ma adesso riavvolgiamo il film all’indietro. “Sale Juif”, “Sporco ebreo” Così sabato 16 Febbraio alcuni Gilet Gialli, due o tre, apostrafano Alain Finkielkraut, filosofo accademico di Francia, di ispirazione conservatrice, che ha incrociato uno dei loro cortei. Si scopre poi che gli insulti antisemiti erano lanciati, tra gli altri, da un militante islamista di fede salafita. Pare nulla, qualche insulto, che vuoi che sia, e invece è come un colpo al cuore.
L’antisemitismo cresce come l’erba cattiva nella società francese, e Finkielkraut è assai noto, un filosofo molto attivo che discute non solo coi suoi pari, ma scende in strada mettendo i piedi nel piatto di molti nervi scoperti della Francia odierna. Così nasce la domanda: saranno mica i GJ antisemiti? In questo senso si muove la penna di Bernard-Henri Lévy che mette tutti i GJ nello stesso sacco di un movimento se non fascista, quasi. E altri intraprendono lo stesso percorso. Inoltre l’antisemitismo s’avvita e incolla sull’antisionismo, fino al Presidente Macron che addirittura ventila la possibilità di una legge che parifichi antisionismo e antisemitismo (in Francia un reato).
Reagisce vivamente su Liberation Simon Assoun, juif antisioniste e gilet juane, nonché membro del coordinamento nazionale dell’Unione ebraica francese per la pace, così come oltre 400 intellettuali ebrei lanciano un manifesto titolato “L’antisionismo è un opinione e non un crimine”, annunciando che se mai dovesse essere approvata una legge che punisce l’antisionismo, essi praticherebbero la disobbedienza civile violandola “Coi nostri scritti, le nostre opere d’arte, le nostre prese di posizione e i nostri atti di solidarietà”. Ma in realtà tutti sanno che accusare i Gilet Jaunes di antisemitismo è una colossale sciocchezza, seppure come in tutta la società francese certamente alcuni/e antisemiti, forse molti, possano esserci. In realtà il punto è un altro.
Perché di fronte alle ingiurie antisemite contro Alain Finkielkraut fatte da un paio di GJ, non sono intervenuti gli altri per metterli a tacere? Ne discuto a lungo con un giovane di estrema sinistra molto impegnato nel movimento. “Noi abbiamo scelto di parlare solo di quello che ci unisce, e di mettere da un canto quello che ci divide”. “Sì ma l’antisemitismo non è una bagatella (per parafrasare Celine, grande scrittore, antisemita)”.
Qua il discorso si fa ambiguo e rischioso. I Gilet Jaunes sono il movimento di una parte delle classi subalterne contro le classi dominanti e le loro rappresentanze politiche, per ridurre il potere e lo sfruttamento che esercitano. La radice di classe, e gli obiettivi egualitari e di redistribuzione del reddito e dei poteri è molto forte e del tutto evidente. Questo è il cemento, la materia, che li unisce, prima della politica e dell’ideologia.
Questo cemento è comune a vecchi comunisti come a molti elettori di Marine Le Pen. Tra estrema destra e estrema sinistra nel movimento ci sono delle convergenze oggettive, di classe. Direi una comune solidarietà di classe. Dice il mio giovane amico: “Dobbiamo avere delle passerelle tra noi e quelli di destra, che si costruiscono nella strada, nella lotta comune. Però questa passerella non vale per i fascisti. Quelli bisogna buttarli fuori. E noi lo facciamo. In concreto significa che i gruppi organizzati neofascisti e/o neonazisti se ne devono andare con le buone o con le cattive. E su questo siamo tutti d’accordo”.
Col che bisogna introdurre una distinzione tra i militanti di estrema destra, in chiaro del Rassemblement National e dintorni, il vecchio Fronte Nazionale, e i fascisti veri e propri, tenendo conto che in Francia non fu mai instaurato un regime, una dittatura fascista. E’ il filo di un rasoio, che rischia di ferire il movimento ma, secondo il mio interlocutore, oggi inevitabile. Però la questione dell’antisemitismo non si esaurisce con gli insulti di un paio di GJ a Finkielkraut.
Nella storia di Francia, e del cattolicesimo francese, l’antisemitismo è costituente la società civile. L’amato Voltaire della tolleranza scrive pagine su pagine contro gli ebrei, e Baudelaire poeta comunista non si risparmia negli insulti ai giudei. Nelle chiese “sale juif” era una dizione normale, così tra i bambini a scuola, come che ne so in Romagna ci si insultava chiamandoci l’un l’altro”bastardo”. Soltanto dopo la Shoah e, per così dire, la sua elaborazione, compresa la complicità dello stato francese nei rastrellamenti degli ebrei, attorno alla metà degli anni ’50, il “sale juif” era venuto diradandosi fin quasi a scomparire.
Poi dagli anni 70-80 ha cominciato a rimettere fuori il naso fino alla sua affermazione odierna. Si badi, non mi riferisco alle forme di antisemitismo come le devastazioni per esempio di tombe ebraiche e/o attentati alle sinagoghe, praticate da gruppi neonazisti organizzati che possono essere scoperti e repressi, ma all’antisemitismo che permea e si diffonde nel corpo sociale. Per dirla in modo estremo: l’antisemitismo che si forgia e esprime sui banchi di scuola. Una volta in Francia nasceva all’oratorio. E oggi? Dicendolo con molte cautele, in alcune moschee e nelle banlieue popolate da giovani islamisti. Nasce dalla ferita dell’occupazione da parte di Israele delle terre palestinesi, e dalla volontà degli attuali governanti di Israele di identificare il destino del popolo ebraico con le loro scelte di destra, rifiutando un percorso di pace e di coesistenza tra popoli.
In Francia poi il CRIF (Conseil Représentatif des Institutions Juives de France) è di fatto il portavoce dei governi israeliani, creando una distopia pericolosissima. Così contro ogni ragione, i giovani di ascendenza arabo islamica, spesso s’attorcigliano in un antisionismo che degrada alla svelta in antisemitismo. Affrontare la piaga dell’antisemitismo quindi significa mettere mano a una frattura maggiore della società francese, che rischia di squarciarla tra la sua anima giudaico cristiana e quella arabo mussulmana, le quali invece devono necessariamente convivere in sinergia. E’ questo in fondo il nocciolo di una società europea multietnica e multiculturale.
Di fronte a queste fratture, quella di classe agita da Gilets Jaunes molto ampia e profonda e quella culturale in senso antropologico tra le anime che nutrono la nazione, cosa fa Macron? Di fronte ai Gilet Gialli che ormai chiedono un referendum sulla sua persona, egli non agisce con gli strumenti della V Repubblica. Ovvero non cambia il governo e neppure scioglie l’ Assemblea Nazionale, convocando nuove elezioni politiche, ma neanche indice un Referendum sulla sua persona (De Gaulle lo fece nel 1969, perdendolo, per cui si dimise).
Ovvero non rilegittima attraverso il voto la sua Presidenza, probabilmente perché sa che perderebbe su tutti i fronti, e la leggera risalita nei sondaggi degli ultimi giorni, seppure esaltata da molti media, è risibile, non andando oltre il 29%: una sconfitta su qualunque tavolo, e in qualunque ipotesi. Allora il nostro giovane leone ne ha pensata un’altra: il grande dibattito nazionale. Ovvero una serie di riunioni e assemblee di eletti locali, dai consiglieri comunali fino a quelli regionali, dove confluiscano le richieste e le critiche dei cittadini.
Sarebbe la France Citoyenne, la Francia dei Cittadini civili e repubblicani, contrapposta a quella “barbara”e “violenta” dei Gilet Jaunes – la “democrazia della sommossa” come l’ha chiamata. Salvo che queste riunioni sono state invase da una massa di rivendicazioni prese pari pari da quelle dei GJ. Con dura sincerità a Lione uno degli eletti è intervenuto dicendo: “Il popolo che ha fame non è qui (..) Qua ci sono le persone che sanno che il popolo le minaccia. Allora riflettono e cercano delle soluzioni per non perdere tutto”. Micidiale.
Liberation ha messo in pista i suoi cronisti per dieci giorni in tutta la Francia, a scoprire i risultati e gli stati d’animo, e sarebbe lungo parlarne qui, ma comunque certificando che c’è uno sforzo reale dei cittadini di partecipare a questo dibattito, per quanto astratto e/o sterile possa essere. Nel senso che c’è fame anche di democrazia e partecipazione, cui per ora Macron non ha risposto, salvo in diretta TV per un paio d’ore cogli eletti della Gironda in una girandola di parole, alcune persino sincere, sulle sofferenze del suo popolo.
In cifre. Circa 250.000 contributi individuali sono stati messi on line; tra i quattro temi proposti quello delle tasse ha riscosso il massimo con 71.727 persone che sono intervenute; 58.035 per la transizione ecologica; 45.068 per la riorganizzazione dello stato e dei servizi pubblici; infine, ultimo tema in ballo, 43.729 cittadini/e hanno risposto alla questione della democrazia e della cittadinanza. In tutto hanno risposto a tutte le quattro questioni poste 15.607 persone, piuttosto poche. Insomma il bicchiere forse è mezzo vuoto, però adesso queste informazioni, per un totale di 68 milioni di parole, vanno elaborate, e entro il 18 marzo, come ha stabilito Macron.
È un problema di non facile soluzione e affascinante, come estrarre e rendere leggibile in termini politici per l’opinione pubblica una tale massa di informazioni, un problema che qui tralasciamo, solo dicendo, per chi fosse interessato, che alla bisogna è stata chiamata l’impresa francese Qwam, esperta in intelligenza artificiale (soltanto per accennare: come può l’IA trasformarsi in Intelligenza Collettiva?). Daltra parte per il 16 marzo i Gilets Jaunes hanno convocato una grande manifestazione a Parigi, “Ultimatum. Tutti a Parigi.”, per cui i problemi semantici legati ai risultati del “grande dibattito” lanciato da Macron rischiano di passare in secondo piano.
Da ultimo si sta aprendo una crisi industriale acuta, che per ora Macron non riesce a controllare. Alcune delle aziende chiave del sistema produttivo francese sono a rischio chiusura: Ford, Ascoval, Alcatel, General Electric, ecc..e per ora il governo, in specifico il ministro dell’Economia, si è rivelato completamente impotente. Se mai ai Gilets Jaunes dovessero unirsi le tute blu, il giovane Presidente Macron avrebbe ben poche vie d’uscita. Forse nessuna.
Questo articolo è stato pubblicato da Radio Popolare il 3 marzo 2019

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