L'atlante dell'attivismo meticcio

27 Febbraio 2019 /

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di Silvia Napoli
Ci sono alcuni che pensano e dicono “prima gli italiani”. Ci sono altri che ritengono neanche tanto riservatamente che i bolognesi siano i primi in Italia per l’attenzione dedicata non tanto e non solo alla Cultura, quanto anche alle culture, in senso antropologico e largo. Del resto, se è vero che ad ogni scadenza ventennale i cittadini bolognesi si rinnovano per un quarto, sarà giusto fare i conti con i vissuti, i contenuti, le motivazioni, le aspirazioni, gli immaginari che questi bolognesi non autoctoni portano con se e che spesso si occultano nell’omologazione maistream della koinè consumista internazionale, l’unica community overseas che a modo suo prospera perché è veicolo di accettazione. Più spesso, ci scorrono accanto imperscrutabili e incomprensibili.
Si sta delineando in merito un grande sforzo sinergico da parte delle istituzioni culturali cittadine e regionali per mettersi in rete e offrire la rappresentazione di una grande compattezza etica che è forse anche pre condizione politica nella direzione di una apertura al mondo intero. Mondo ormai divenuto tutto mappabile, percorribile, conoscibile, attraverso modalità diverse,eppure mai forse percepito tanto come ora, come un posto pericoloso, indecifrabile, insidioso, intollerante, soprattutto economicamente stagnante e politicamente debole.
In bilico, in attesa di palingenesi o catastrofi, prima di smettere i panni delle cassandre e assumerci qualche responsabilità, sentiamo il bisogno di fare ordine nei cassetti di ciò che è stato e di assumerci un impegno di inventariazione delle esperienze e di chiamata a raccolta delle energie, perché si fa presto a dire post moderno o qualsiasi altro post, ma tutti i vari dopo qualcosa, presupporrebbero di ricostruire.

Da qui, l’allusivo titolo della stagione di Arena, un invito suadente, -guardati intorno-, che è in realtà, molto di più, nel momento in cui Fondazione ERT, con tutto il suo peso, si fa capofila di un intreccio a vocazione quasi enciclopedica tra il mitico festival Vie, di solito consacrato alle piu raffinate esperienze innovative europee nel campo teatrale e performativo e questo nuovo format di Atlas of transition, di cui abbiamo visto un assaggio appena pochi mesi fa, quando ci è stata data una direzione e la rivendicazione di un diritto, lo spazio urbano, nelle sue varie declinazioni.
Ora da Right to the city, siamo appunto transitati a Home, una parola a molte facce in lingua inglese, che fondamentalmente sovrappone il focolare domestico alla patria, sottolineando l’appartenenza ad un dato luogo o situazione. Ma questa casa di cui si vuole parlare e di cui si vogliono declinare più esaustivamente possibile, gli stili, gli arredi, gli spazi è evidentemente collegata ad un’idea dinamica, resiliente e urbana, che è la rappresentazione che si vuole dare dell’area metropolitana bolognese, molto street style, lontana dai fantasmi della crisi, della deindustrializzazione, dell’impoverimento anche valoriale bianco e industriale, ma quasi innervata e ringiovanita dai nuovi flussi migratori e dai ragazzi di seconda generazione ricchi di potenziale da esprimere.
Dunque una opportunità che si cela dietro la difficoltà, dunque un quasi rovesciare la vulgata corrente e tutto sommato, si, siamo noi, che dobbiamo essere aiutati a casa nostra, noi che grazie a questa grande festa mobile allestita dal primo al dieci marzo, avremo modo semplicemente armandoci di buone scarpe e di alka seltzer da aperisomething, di fare un trekking urbano performativo che è quasi un giro del mondo in dieci giorni.
Tutti i numerosi, autorevoli ed esaustivi interventi in conferenza stampa, sottolineano dentro al doppio festival, la centralità della presenza femminile fortemente connotata rispetto al discorso di genere, dei giovani e dei nuovi cittadini, anche se tutti i ponti sono ben percorribili per collegarsi a tutte le fasce generazionali ed anche alle componenti più tradizionali della società. Come?
Anzitutto con un coinvolgimento capillare dell’associazionismo bolognese e dei più vivaci raggruppamenti di stranieri bolognesi presenti sul territorio, fino a spingersi al coinvolgimento di tante realtà di mediazione culturale e attivismo, cosi da rispondere in maniera mediata, ma comunque tangibile all’interrogativo posto da Claudio Longhi, direttore di Ert, sulla possibile persistenza di un teatro a connotazione politica, poi grazie ad una serie di pratiche laboriatoriali e interattive che stanno già per il numero di iscrizioni, coinvolgendo tantissime persone, pronte ad imparare tecniche e competenze altre.
Impossibile per l’ottima curatrice Sandra Dimatteo, sintetizzare troppo la marea di iniziative e la rete di collaboratori a tutti i livelli, dato che bisogna poi tener conto degli aspetti social media e comunicativi, estremamente importanti in un evento che mira a proporsi come potenzialmente di massa, piuttosto che di nicchia. E dunque un grazie a tutti i giovani tirocinanti, a tutti i giovani volontari universitari senza dei quali sarebbe impossibile essere cosi inclusivi nel concreto organizzativo oltre che nelle intenzioni.
Rimarchevole per chi scrive, perché delinea una scelta sistemica incisiva ed imprime una svolta alla vita culturale cittadina, anche se non immediatamente appariscente, la polifonia istituzionale impegnata in questo progetto, che si viene consolidando e dunque ERT con Arena, poi però Mambo, Cineteca, Biblioteca naz delle Donne, tanto da far sembrare questo festival un felice tutorial, un how to do di quanto appreso nell’appena concluso festival delle biblioteche specializzate, dedicato ai temi della migrazione raccontata, rappresentata, storicizzata.
Soprattutto significativa la sinergia con Alma mater, tanto che il quartier generale del nostro atlante sarà il DAmslab, ma in questo caso ci si supererà perché verrà opportunamente coinvolto anche il Dipartimento di Sociologia, per contestualizzare meglio cio che vedremo. Sancita anche una cordata tra teatro pubblico e teatri privati in convenzione che non può che far bene alle auspicate trasmigrazioni di pubblici differenziati. Grande riconoscimento per Cantieri Meticci, diventati la nuova big thing locale sui temi delle Culture performative altre che hanno il loro logo accanto all’Università tra i promotori dell’iniziativa.
Impossibile rendere conto qui del vasto panorama realmente a misura di donna del festival, vi basti sapere che l’8 marzo sarà anche una grande festa spettacolare ed interetnica, ma è obbligo ricordare la presenza dell’artista di fama internzazionale e attivista cubana Tania Bruguera, che farà da starter al festival con la grande iniziativa Referendum:apriranno 25 seggi in città dal centro alle periferie per votare il seguente quesito: dovremmo abolire i confini? Aggiornamento quotidiano sull’andamento della consultazione tramite i pannelli di Cheap, ormai ben noti specie per chi si trovi a transitare in auto sui viali.
Ribaltando poi il concetto nordeuropeo delle Scuole di integrazione, Bruguera ha pensato bene di organizzare dieci lezioni di saperi pratici, artigianali trasversali, a cura delle principali comunità etniche presenti in città. Grande attesa e curiosità per la lezione curata da un giovane collettivo di ragazzi cinesi che ci renderanno edotti sulla storia e importanza del karaoke post maoista e promettono di farci cantare bella ciao in mandarino.
Da questa ricca kermesse potremo forse imparare che si può ragionevolmente accettare che una patria non sia per sempre e non sia un destino o forse, per dirla come gli anarco internazionalisti, che : nostra patria è il mondo intero. Se però, aggiungerei, la legge che governa le scelte sia la libertà di autodeterminarsi e chissà a quando un bel summit di italiani in fuga o residenza all’estero, ormai non solo più giovani. Sarebbe interessante un andata e ritorno a parti inverse a confronto, ma questa è un’altra storia.
Se è vero che la paura è diventato lo stato d’animo dominante delle folle occidentali, bisognerà anche che diventi riconoscibile e affrontabile la linea del conflitto, questo grande rimosso intellettuale e narrativo che affetta impietosamente le nostre società liquide, ma di cui il farsi del Teatro si nutre da secoli, forse unico mezzo espressivo potenzialmente irriducibile ancora adesso.

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